TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

Un’osservazione sul lungo periodo del rapporto tra lavoro e vita, e in particolare il raffronto tra le età preindustriale, industriale e postindustriale, implica innanzitutto le variazioni dei tempi sociali, scansionati da orari di lavoro e tempo libero, ma anche il tenore di vita e la qualità del lavoro in termini di contenuto professionale delle mansioni, che influisce sul grado di soddisfazione dei lavoratori e delle lavoratrici.
Un lungo e nutrito dibattito tra gli storici ha riguardato gli effetti della rivoluzione industriale sulle condizioni di vita dei lavoratori. Marx ed Engels hanno sostenuto un peggioramento generale, e in particolare l’allungamento degli orari di lavoro con l’avvento del sistema di fabbrica. Sulla loro scia, numerosi studi hanno confermato questa interpretazione, contro l’apologia della rivoluzione industriale proposta da studiosi liberali per i quali essa avrebbe immediatamente sollevato il tenore di vita . Nel valutare il deterioramento delle condizioni materiali, oltre ai salari e ai livelli di consumo, è stato considerato elemento non secondario il disagio derivante dalla rottura dei modelli socio-culturali precedenti . Gli studi di storia economica più recenti tendono a confermare una iniziale regressione delle condizioni di operai e artigiani, sostituiti da donne e minori con la meccanizzazione; questi studi collocano il momento di svolta verso un graduale e duraturo miglioramento, chi a partire dal 1820, chi dal 1840, chi dal 1860 . Quanto agli orari di lavoro, sono stati rilevati, a cavallo tra fine Settecento e Ottocento inoltrato, orari da 14 a 18 ore giornaliere che, pur nella differenziazione delle situazioni, confermerebbero l’allungamento, anche in relazione al maggior impiego di donne e minori, categorie più facilmente disciplinabili . Inoltre, Marx ed Engels scrivevano dopo che l’avvento dell’illuminazione a gas (a partire da inizio Ottocento) aveva consentito di sganciare la giornata di lavoro dalla luce solare.
La più recente e più ampia disamina del tempo di lavoro in Europa occidentale dal medioevo all’Ottocento , che considera in dettaglio la giornata, la settimana, l’anno, e i ritmi di lavoro, mette in discussione l’idea diffusa di una cesura storica collocata intorno alla metà dell’Ottocento, sottoponendo a critica le conclusioni di opere di vasta risonanza, tra le quali spiccano quelle di Edward Palmer Thompson e di Jan de Vries . Thompson descrive un’età preindustriale nella quale i lavoratori, non ancora legati alle scansioni dell’orologio, mantengono margini di autonomia nell’organizzazione del proprio tempo, ponendosi sulla scia di Werner Sombart (la razionalità temporale come caratteristica del capitalismo moderno) e di Lewis Mumford (l’orologio e non la macchina a vapore come fondamento della rivoluzione industriale) . Jan de Vries ha teorizzato una “rivoluzione industriosa”, avviata a metà Seicento nei paesi protestanti, fondata sull’aumento dell’offerta di lavoro salariato da parte delle famiglie nell’industria rurale a domicilio, sotto la spinta del desiderio di maggior consumo; ha così sostenuto che la crescita della produzione è potuta avvenire senza innovazione tecnologica, e ha posto la maggior cesura nel 1650. Gli autori mostrano casi nei quali l’allungamento del tempo dedicato al lavoro era ben precedente, risalendo al XV secolo e per di più in paesi cattolici. Il confronto tra mondo cattolico e protestante mette inoltre in discussione il peso della religione e ridimensiona la lettura weberiana sullo spirito del capitalismo, perché l’ossessione calvinista per il tempo non si discostava troppo dalla cura con la quale prelati e capicantiere cattolici sin dal medioevo organizzavano il tempo di lavoro dei loro operai. La cesura della tendenziale diminuzione della durata del lavoro viene posticipata alla fine dell’Ottocento, quando dai primi studi sulla fatica prende corpo l’idea che orari troppo lunghi danneggiano la produttività del lavoro, mentre il movimento operaio fa della giornata di otto ore l’obiettivo di fondo delle sue rivendicazioni e il simbolo del riscatto del lavoro. Anche riguardo all’intensificazione dei ritmi connessi al macchinismo e all’organizzazione scientifica, l’osservazione sul lungo periodo induce a sottolineare che la formalizzazione del rapporto tra orario di lavoro e rendimento, e la ricerca del modo migliore di lavorare, si svilupparono in un numero crescente di imprese ben prima del taylorismo, già a partire dal Seicento.
Gli indubbi elementi di continuità tra età preindustriale e prima industrializzazione quanto alla durata del tempo di lavoro si riferiscono peraltro al lavoro dipendente nei cantieri e nelle manifatture precedenti l’avvento della fabbrica moderna. Non si può non considerare che la grande maggioranza della popolazione era attiva nell’agricoltura e nell’artigianato. In agricoltura il lavoro era condizionato dalle stagioni, dalle precipitazioni, dalle variazioni climatiche; nell’artigianato, come sottolinea Thompson, la realtà era lontana da quella del lavoro misurato attraverso il tempo dell’orologio (timed labour), in quanto dominava il tempo misurato dal compito (task-oriented labour). Inoltre, Thompson ricorda quanto siano stati lenti il processo di costruzione di un nuovo senso del tempo, il superamento dell’“economia morale”, il disciplinamento della manodopera. In effetti, le vecchie abitudini e le forme tradizionali di autonomia sono sopravvissute a lungo, estendendosi a Novecento inoltrato, con i lavoratori intenzionati a mantenere pratiche quali il San Lunedì, a lottare contro la durezza dei primi regolamenti di fabbrica tesi a imporre nuove abitudini di regolarità e puntualità, a difendere strenuamente conquiste quali le tolleranze sull’orario di ingresso agli stabilimenti.
Riguardo al tempo dedicato al lavoro, tanto nel periodo preindustriale quanto nella prima industrializzazione, nel lavoro contadino e artigiano non si configurava una netta separazione tra orario di lavoro e tempo libero. Sia nei campi e nelle cascine, sia nelle botteghe artigiane, sia nelle attività proto-industriali a domicilio, il lavoro durava dall’alba al tramonto, ma era inframmezzato da momenti di pausa, interruzione, chiacchiere con i compaesani dei terreni vicini o con i clienti delle botteghe, magari invitati a bere un bicchiere all’osteria. L’unità di lavoro era la famiglia, eventualmente allargata, che consentiva socialità interna al gruppo. Specie nelle campagne, momenti di lavoro collettivo/comunitario erano basati sulla reciprocità dello scambio di aiuto tra gruppi familiari per le operazioni ottimizzabili con l’impiego simultaneo di manodopera più numerosa (tipicamente, mietitura, trebbiatura, vendemmia, monda…). Alcune attività, nelle cascine, erano organizzate mescolando lavoro e festa (come nella spannocchiatura serale del granoturco nei cortili attorno a un fuoco, o in occasione della tosatura delle pecore, delle attività di acquisizione e trasporto materiali di lavoro). Non si configurava dunque una netta separazione tra lavoro e vita. Come scrive Thompson, in questa realtà il termine tempo libero è anacronistico: in una società rurale “ove persistevano le piccole coltivazioni e l’economia popolare, e in vaste aree dell’industria manifatturiera, l’organizzazione del lavoro era così varia e irregolare che è scorretto porre una netta distinzione fra ‘lavoro’ e ‘tempo libero’” , essendo quest’ultimo limitato alle domeniche e alle feste laiche e religiose, peraltro soggette a ripetute riduzioni di numero con l’affermarsi delle esigenze capitalistiche (fino a tempi recenti, con le festività soppresse nel 1977), mentre nel tempo la Chiesa ha sostanzialmente perso la battaglia del lavoro domenicale.

Nelle prime fasi dell’accentramento in fabbrica si lavorava con orari lunghissimi che occupavano tutto il tempo sottraibile al sonno. Tuttavia, spesso il lavoro non era continuativo. Permanevano non poche caratteristiche del lavoro extra-agricolo preindustriale. Tra queste, l’instabilità occupazionale era condizione molto diffusa sia per la forte stagionalità di molte produzioni, sia per il susseguirsi irregolare delle commesse, tanto che solo pochissime delle prime società operaie di mutuo soccorso includevano tra i propri sussidi quello di disoccupazione: gli oneri sarebbero stati insopportabili, dato l’alternarsi, anche per gli operai di mestiere, di periodi di occupazione e disoccupazione. Il tempo di lavoro poteva interrompersi ed essere affiancato dal tempo di non lavoro. Le condizioni del mercato del lavoro erano tali da rendere difficile per i riformatori sociali dell’epoca, che pur avevano finalmente scoperto la disoccupazione involontaria, arrivare a una precisa definizione di disoccupazione, poiché la realtà più diffusa era piuttosto descrivibile come generalizzata sottoccupazione . A questa situazione i lavoratori facevano fronte con il ricorso alla pluriattività, individuale e familiare: quando veniva a mancare l’occupazione principale si incrementavano quelle secondarie. L’obiettivo era, ovviamente, garantirsi fonti di reddito che sommate fossero sufficienti ad assicurare la sussistenza. Il San Lunedì veniva da alcuni festeggiato in osteria, altri invece lo utilizzavano per le seconde attività.

Il movimento operaio ha rivendicato con forza la riduzione dell’orario di lavoro a parità di retribuzione, una volta che il sistema industriale ha disciplinato il lavoro e lo ha separato dalla vita. Questa separazione, che dati i regimi orari di fine Ottocento e la limitatezza delle risorse economiche ancora non configurava la nascita del tempo libero, era ottenuta attraverso le nuove forme organizzative che, tra l’altro, tendevano a eliminare la tradizionale squadra di lavoro composta dal gruppo parentale, eliminazione contro la quale non furono poche le resistenze .

La lotta per le otto ore prese avvio negli Stati Uniti e in Inghilterra, ovvero i Paesi all’avanguardia dei cambiamenti, per poi diffondersi e diventare l’obiettivo del movimento operaio internazionale per il quale si lottò per quasi un secolo, a partire dalle prime agitazioni a Filadelfia e in Inghilterra negli anni Trenta dell’Ottocento. Ma laddove il rapporto di lavoro salariato era già diffuso sin dal Medioevo, i conflitti sulla definizione della giornata di lavoro non mancavano, e si riflettevano negli statuti delle corporazioni, che puntavano a regole uguali per l’equità delle condizioni tra le botteghe , con soluzioni che in qualche caso riplasmavano la giornata dall’alba al tramonto (da sole a sole) con il tempo della Chiesa, da sole a vespro . Lo slogan otto ore per il lavoro, otto per il riposo, otto per lo svago, la socialità, la militanza, lo studio e il miglioramento professionale, riprendeva una tripartizione non nuova. Le otto ore di lavoro ricorrevano “in testi filosofici, nella narrativa a sfondo sociale e nella pubblicistica teologica a partire dall’epoca moderna”, ma sarebbero state “oggetto di esperimenti sociali e iniziative di legge di singoli sovrani a partire, quanto meno, dal tardo Medioevo” .

Quando, all’indomani della prima guerra mondiale, furono conquistate le otto ore, i lavoratori protestavano per l’abolizione dei minuti di tolleranza all’entrata conquistati a inizio Novecento, mentre gli imprenditori lamentavano che la riduzione d’orario veniva utilizzata per il secondo lavoro. Non pochi, infine, erano i timori espressi dalle élite che le ore libere portassero a un incremento del consumo di alcolici.

Con le otto ore - rafforzate dal sabato inglese laddove previsto contrattualmente e dall’introduzione di una settimana di ferie - inizia a porsi in forma compiuta il tema del tempo libero per i lavoratori. Prima della Grande guerra, quando gli orari erano passati dalle 12-14 ore di fine Ottocento a 10-12 ore, già si erano moltiplicate le occasioni alternative alle tradizionali taverne, presso le quali, tradizionalmente, anarchici e socialisti cercavano contatti e adepti. Già nella seconda metà dell’Ottocento, le società di mutuo soccorso, nate ora su iniziativa borghese/aristocratica, ora socialista o cattolica, promuovevano attività sociali ma soprattutto l’alfabetizzazione e l’apprendimento professionale, con finalità politiche differenti, in quanto tali attività erano interpretate come integrazione sociale e miglioramento individuale, oppure come acquisizione di strumenti di autonomia e forza contrattuale nei confronti dei padroni, da mettere al servizio della militanza. Le proposte associative per i lavoratori crebbero nel primo Novecento, ma gli orari lunghi, gli straordinari e il secondo lavoro continuarono a dominare la scena, né scomparvero dopo la guerra; tuttavia, negli anni Venti e Trenta non erano più pervasivi. La cesura del primo dopoguerra è “ineludibile, perché coinvolse quasi tutti i paesi industrializzati” , benché fosse limitata dalla ristrettezza dei redditi disponibili: il consumo del tempo libero attraverso i circuiti commerciali era di là da venire, almeno in un Paese last joiner quale l’Italia, mentre negli Stati Uniti e in Inghilterra, “il lavoratore, non meno della sua controparte della più ricca classe media, era letteralmente bombardato da opportunità per riempire il suo tempo libero, aumentato in seguito alla riduzione delle ore di lavoro” . L’accresciuta disponibilità di tempo non mancò di ingigantire le preoccupazioni delle élite sull’uso che i lavoratori ne avrebbero fatto: da qui il moltiplicarsi dei dopolavoro aziendali, variamente collegati ai servizi sociali forniti dalle imprese medio-grandi; le attività dopolavoristiche servivano anche alla “manutenzione sociale” della manodopera, a fronte dell’intensificazione dei ritmi di lavoro connessi all’introduzione di sistemi tayloristici. I regimi totalitari promossero e coordinarono i dopolavoro (Opera Nazionale Dopolavoro in Italia, Kraft durch Freude in Germania), utilizzandoli per il controllo dei lavoratori e la propaganda politica.

I dopolavoro erano appetibili per i dipendenti perché, negli anni tra le due guerre, i bilanci delle famiglie operaie erano ancora in larga misura destinati a consumi essenziali, benché, soprattutto i giovani, potessero da tempo accedere, nelle città, a sale da ballo, cinematografi, parchi, centri sportivi . Solo nel secondo dopoguerra, nella golden age del capitalismo occidentale, si generalizzò il leisure, non definito solo in negativo come tempo di non lavoro, ma inteso come tempo riempito da attività e passatempi liberamente scelti.

Se ci volle un cinquantennio di lotte e una guerra mondiale per ottenere la settimana di 48 ore, un altro cinquantennio trascorse prima che si diffondesse una ulteriore diminuzione di orario, intorno alle 40 ore, con sabato non lavorativo. Nel frattempo proseguirono i conflitti, investendo, a parte l’aumento delle giornate di ferie annuali, gli straordinari e i ritmi. I tentativi del movimento operaio di limitare il lavoro straordinario, fissando tetti, rendendolo costoso e chiedendo ai lavoratori di non accettarlo, erano finalizzati ad accrescere l’occupazione. Ma questa linea d’azione non ha riscosso grande successo: la rinuncia agli straordinari non era facile, specie per chi aveva età inoltrata e famiglia, perché i salari non bastavano alle esigenze crescenti. Sui regimi di orario non sono sempre stati facili i rapporti tra lavoratori giovani e anziani. Sistemi di riduzione con turnazioni intese a un miglior utilizzo degli impianti, quali il cosiddetto 6 per 6, si sono spesso scontrati con il malcontento dei giovani che, più sensibili alle esigenze di socialità, aborriscono gli orari che occupano sabati, domeniche e serate, nonostante gli scaglionamenti.

A partire dalla fine degli anni Settanta, l’incepparsi del meccanismo virtuoso della golden age, le crescenti difficoltà del sistema fordista, l’automazione incombente, i processi di terziarizzazione dell’occupazione spinsero a riprendere le richieste di riduzione d’orario per fronteggiare una disoccupazione che si presentava come strutturale. Lo slogan “lavorare meno per lavorare tutti”, inteso come una prospettiva di medio/lungo periodo, ebbe fortuna nel movimento operaio, anche se non tutte le forze in campo lo ritennero sin da subito centrale: nella Cgil la riduzione di orario era intesa come uno degli strumenti di una iniziativa più articolata e complessa di intervento sui processi di ristrutturazione, sul mercato del lavoro, per la reindustrializzazione nelle zone di crisi. La posizione tiepida di un sindacalista intellettuale quale Bruno Trentin derivava anche dal suo disaccordo con i più accesi sostenitori del “lavorare meno”, gli esponenti del movimento francese della révolution du temps choisi, i quali affermavano che il lavoro nelle grandi macchine burocratico-organizzative era inevitabilmente eterodiretto e alienante . Trentin sosteneva invece la priorità della lotta per accrescere il contenuto professionale delle mansioni e ottenere un maggior peso dei lavoratori nelle decisioni relative all’organizzazione del lavoro, imputando al movimento operaio l’errore di aver condotto una politica dei due tempi, limitandosi a lotte redistributive, ovvero al risarcimento per il lavoro alienato nella società capitalista, rinviando la liberazione del lavoro alla società rivoluzionata. Le nuove tecnologie e le soluzioni organizzative del postfordismo sembravano aprire opportunità in direzione di un lavoro di qualità .
La mobilitazione per la riduzione dell’orario si è concretizzata in Francia con le 35 ore imposte per legge nel 1998 (con entrata in vigore nel 2000 per le imprese con più di 20 dipendenti, nel 2002 per le più piccole), e in Germania con successive tornate contrattuali; in Italia, invece, è caduta nel 1998, con il primo governo Prodi, la richiesta di Rifondazione comunista, che all’approvazione di una legge sulle 35 ore aveva subordinato il proprio sostegno al governo stesso.

Controversa è stata la valutazione dell’impatto della riduzione d’orario sui livelli occupazionali, con critiche aspre da parte delle imprese e posizioni, anche da sinistra, assai dubbiose sulla possibilità che lavorare meno possa accrescere la domanda di lavoro . Stati Uniti e Giappone mantengono il primato delle ore annue lavorate nel mondo di antica industrializzazione, sia per orari settimanali più lunghi, sia per l’ampia diffusione degli straordinari, sia per la minor durata delle ferie, spesso neppure godute.

Nel nuovo millennio, il cumularsi degli effetti della globalizzazione con la recessione indotta dalla crisi scoppiata nel 2008 ha messo la sordina alle richieste di riduzione d’orario: sembra essere così venuta meno questa rivendicazione plurisecolare. Si registra ovunque una tendenza al prolungamento del tempo di lavoro, specie attraverso gli straordinari, con spinte all’eliminazione dei tetti o al loro sforamento, per di più incentivati attraverso la riduzione degli oneri. Prevalgono le esigenze di flessibilità delle imprese a fronte di mercati concorrenziali, altalenanti e poco prevedibili, mentre i lavoratori subiscono una sorta di ricatto occupazionale, per i rischi di delocalizzazione in Paesi a basso costo del lavoro e con minori tutele. Deregolazione e finanziarizzazione, shareholder value e short-termism hanno accresciuto le diseguaglianze sociali. L’indebolimento della forza contrattuale dei sindacati ha determinato una svalutazione relativa dei salari , che sua volta spinge ad accettare il lavoro straordinario.

Le opportunità di incidere sul tempo di lavoro sembrano limitarsi alla contrattazione dei regimi di orario, per contemperare i bisogni di flessibilità delle aziende e delle persone. Una recente ricerca sulle modalità con le quali i lavoratori vivono le novità legate a nuove tecnologie e modelli organizzativi, ha rilevato scarso ottimismo quanto al miglioramento della qualità delle mansioni, ma prospettive più positive riguardo alla possibilità di flessibilità di orari e conciliazione delle esigenze personali .
Anzichè lavorare meno per lavorare tutti, si è affermato un generale aumento dell’orario di lavoro, pur nel quadro di una estrema differenziazione delle situazioni legate alla domanda di flessibilità che crea occupazioni saltuarie. All’aumento del tempo dedicato al lavoro per buona parte della popolazione attiva concorrono vari fattori: l’incremento della quota di lavoratori autonomi, che sfiora ormai il 20 per cento della popolazione attiva, propensi a lavorare a lungo per necessità di reddito o di soddisfacimento delle esigenze della committenza; la pletora di piccole imprese nelle quali le dinamiche non sono diverse da quelle del lavoro autonomo; il mismatch tra domanda e offerta per la carenza di competenze relative alle nuove tecnologie, sopperito dal lungo lavoro di chi le possiede; la precarietà dei giovani che riescono a sbarcare il lunario solo assommando diverse occupazioni, in una versione moderna della tradizionale pluriattività.
Le tecnologie informatiche, massimamente attraverso il web, consentono di lavorare lontani dal posto di lavoro aprendo opportunità di flessibilità di orari e conciliazione tra lavoro, impegni familiari e attività varie; al contempo rischiano di comportare l’invasione del lavoro nel tempo libero, in una sorta di reperibilità ininterrotta, nonostante qualche tentativo di introdurre norme tese a limitarla. Analogamente, nel lavoro attraverso piattaforme, come del resto nel tradizionale lavoro a domicilio, il tempo dedicato è direttamente proporzionale al bisogno economico e, data la retribuzione a cottimo, può indurre fenomeni di autosfruttamento. Infine, va ricordato che alcune modalità di consumo del tempo libero su applicazioni informatiche si intrecciano sempre più con momenti produttivi nella dimensione della prosumer digital economy.

In questo quadro generale, è balzato alle cronache un fenomeno recente, che sembra rimettere in discussione il rapporto tra lavoro e tempo di vita, a favore del secondo. Le dimissioni volontarie sono cresciute notevolmente con la pandemia di Covid, paradossalmente, nel corso di una stagnazione economica. Il fenomeno della great resignation, rilevato dapprima negli Stati Uniti, subito dopo è stato riscontrato nei paesi occidentali di antica industrializzazione. Anche in Italia le cessazioni del rapporto di lavoro per dimissioni hanno conosciuto un boom negli ultimi due anni: nel Nord ovest, tradizionale culla dell’industrializzazione italiana, tra il 2020 e il 2022, sono cresciute del 71%, e il loro peso sul totale è salito dal 28% al 36%.
Lo smart working, spesso svolto nella propria abitazione, ha offerto la possibilità di sperimentare libertà nel lavoro alle quali molti non vogliono evidentemente rinunciare. Del resto, le basse remunerazioni offerte non incentivano a mantenere la stessa occupazione, mentre la relativa facilità di accesso a contratti atipici apre spazi, specie per i giovani, alla possibilità sperimentare nuove condizioni di lavoro, alla ricerca di spazi di libertà. Così, il fatto che quasi la metà della domanda di lavoro nella ripresa post- Covid non venga soddisfatta non dipende solo dalla mancanza di competenze tra le forze di lavoro, ma anche dal perseguimento della qualità della vita. E da coloro che non possono rinunciare a un’occupazione non gradita è nato il fenomeno del quiet quitting: lavoratori insoddisfatti che collaborano solo passivamente, al minimo indispensabile, con buona pace delle teorie organizzative che puntano alla collaborazione per la qualità totale. Non a caso parecchie imprese si rendono disponibili a studiare sistemi di orari e permessi per venire incontro alle esigenze personali. Da questi tentativi emerge qua e là la sperimentazione della settimana di quattro giorni lavorativi, in alcuni casi spalmando lo stesso orario settimanale, in altri con una qualche riduzione d’orario. Quanto alla mancanza di competenze, andrebbe affrontata con adeguati investimenti nelle politiche attive del lavoro, anche perché rappresenta un ostacolo invalicabile al lavorare meno per lavorare tutti.

 

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