TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
1. Alcune premesse
Il tema che qui intendiamo affrontare è quello della difformità tra dispositivo e motivazione e alle volte quella tra gli stessi dispositivi, quando quello letto in udienza è diverso da quello che sarà depositato in calce alla sentenza di lavoro .
La stessa tematica, peraltro, accomuna anche altri riti, quelli nei quali la decisione e la sua giustificazione avvengono in momenti diversi, alle volte ben oltre i termini temporali previsti dalla norma processuale o indicati nel dispositivo dal giudicante. Ciò avviene, infatti, con una relativa frequenza anche nel processo penale e nel processo tributario.
Nel rito laburistico, è consolidato il principio secondo il quale, quando non si possa ricorrere alla procedura di correzione di errore materiale (art. 288 c.p.c.), il conflitto, ove si presenti come non emendabile, determina la nullità della sentenza (Dadamo, 2022).
Ma non è così sempre. Dalle differenti situazioni, che in concreto potrebbero determinarsi, possono derivare infatti soluzioni diverse.
La giurisprudenza ha avuto modo di chiarire recentemente che “nel rito del lavoro solo il contrasto insanabile tra dispositivo e motivazione determina la nullità della sentenza ai sensi dell’art. 156 c.p.c. e art. 360 n. 4 c.p.c.” (Cass. Civ., VI Sez., ord. 16 dicembre 2020 n. 28692). Un reale contrasto sussiste solo nel caso in cui il provvedimento risulti inidoneo a consentire l’individuazione in concreto del comando giudiziale, quando cioè resta impossibile ricostruire la statuizione del giudizio, attraverso il confronto tra motivazione e dispositivo, con valutazioni di prevalenza delle affermazioni contenute nella prima su altre di segno opposto presenti nel secondo (Cfr. Cass. Civ. Sez. VI, n. 15990/2014).
Quando, invece, dalla natura complessiva della motivazione, le ragioni del contrasto si dimostrino meramente apparenti, perché comunque viene spiegata in modo esaustivo la decisione, allora l’espressione contrastante deve essere considerata alla stregua di un mero errore materiale, risolvibile, appunto, con la procedura di cui all’art. 288 c.p.c. (Cass. Civ., Sez. VI, n. 28692/2020). E’, ad esempio, il caso in cui risulta evidente dalla natura complessiva della motivazione, che l’espressione “l’appello va respinto”, contenuta nel corpo della motivazione, si appalesa inequivocabilmente contrastante con il dispositivo. Detta locuzione va pertanto ritenuta alla stregua di un mero errore materiale.
La giurisprudenza penale, in generale, in casi simili dal punto di vista fattuale, afferma che il dispositivo, letto in udienza, acquista rilevanza esterna prima della motivazione, indipendentemente da essa. Ne deriva che, in caso di difformità tra il primo e la seconda, è il dispositivo a prevalere sulla motivazione in quanto la motivazione assolve una funzione strumentale (Cass. Pen., Sez. VI, n. 4462/2010). Ogni eventuale ripensamento successivo, che possa dar origine alla diversa determinazione contenuta nella motivazione, dunque, è del tutto irrilevante.
Diverso è, invece, il caso del possibile contrasto tra i due dispositivi: quello appunto letto in udienza e quello in calce alla sentenza successivamente depositata, fenomeno peraltro che si registra anche nel processo penale. Secondo l’insegnamento della Suprema Corte non dissimile in tema di processo del lavoro, il dispositivo letto in udienza e depositato in cancelleria ha una rilevanza autonoma poiché racchiude gli elementi del comando giudiziale che non possono essere mutati in sede di redazione della motivazione. Ne deriva che quello in calce non è suscettibile di interpretazione per mezzo della motivazione medesima (Cass. Civ., Sez. VI, n. 21885/2010, cui adde Cass. n. 23463/2015).
Pertanto, nel conflitto tra due dispositivi, il Supremo Collegio ha ritenuto prevalere quello portato a conoscenza delle parti mediante lettura in udienza, potendosi ravvisare nullità solo nel caso di insanabile contrasto tra il dispositivo letto in udienza e quello difforme trascritto in calce alla sentenza (Cass. Civ., Sez. VI, 09.08.2013, n. 19103).
Recentemente, alla luce dei principi sopraesposti, la Suprema Corte ha escluso l’ipotesi di nullità della sentenza in un caso in cui era chiaro che il contrasto tra dispositivi non risultava insanabile, essendo pacifico dal contesto il principio addotto quale corollario della riforma della sentenza da parte della Corte di merito (Cass. Civ., VI, 11.04.2019, n. 10238) .
Parte della dottrina ha sostenuto al riguardo che la modifica del dispositivo, effettuata in sede di redazione della sentenza completa della motivazione, è sicuramente atto illegittimo ma pur sempre proveniente dal giudice ancora investito della cognizione. Di conseguenza, il provvedimento costituito dalla sentenza depositata, in quanto atto successivo, rispetto alla serie procedimentale, dovrebbe prevalere sul dispositivo letto in udienza e quindi travolgerlo, privandolo, sia pure illegittimamente, di qualsiasi efficacia (Dadamo L.M., 2022).
La giurisprudenza penale al contrario ha, in più occasioni, affermato che la pubblicità del dispositivo, attraverso la sua lettura in udienza, estrinseca la volontà della legge, di lì la sua preminenza rispetto a quello trascritto in calce alla motivazione (Cass. Pen., VI Sez., n. 44642 del 02.12.2010 Rv. 249090).
La giurisprudenza tributaria ha avuto recentemente modo di chiarire che il palese contrasto tra motivazione e dispositivo, senza che sia ricostruibile l’iter logico seguito dal giudicante, determina la nullità della sentenza (Cass. Sez. Trib. 1 dicembre 2021 n. 37849, in dottrina Marino G., Dottrina Trib., dicembre 2021).
2. Quali le ragioni profonde del possibile conflitto?
Le domande alle quali qui si vorrebbe offrire una qualche risposta sono però altre.
Come è possibile che il giudicante cada, in tempi diversi, in un palese conflitto tra il momento decisionale ed il momento giustificativo? Come possono determinarsi, con frequenza anche maggiore di quanto non si possa pensare, queste difformità? Quale può essere il fenomeno psichico responsabile del conflitto tra il momento della decisione ed il momento della sua giustificazione attraverso la motivazione?
Non intendiamo banalizzare la risposta, come capita di leggere in qualche nota giustificando il fenomeno con il carico di lavoro del magistrato o con lo stress legato alle condizioni organizzative degli uffici, anche se alle volte può esservi una regione di verità. Le cause sono molto più profonde e vanno ricondotte alla diversa condizione psicologica che caratterizza i due diversi momenti, quello in cui il giudice estrinseca la decisione o, per rifarsi al lessico giurisprudenziale, esteriorizza “la volontà della legge nel caso concreto” e quello motivazionale che riveste la “funzione esplicativa della decisione già adottata” (Cass. Pen., II Sez. n. 15986/2016).
Si tratta, peraltro, del medesimo meccanismo psichico che si manifesta in situazioni, solo apparentemente diverse, quando cioè l’impianto motivazionale della decisione sembra prescindere dai riscontri probatori, raccolti nel corso dell’istruzione probatoria nella causa di lavoro, piuttosto che nel processo penale o nel rito tributario (Forza, Menegon, Rumiati, 2017). Il fenomeno si registra quando il giudicante, riesaminando le prove acquisite, si rende conto che la decisione può trovare una qualche giustificazione solo per una limitata parte di esse. E così i dati probatori di segno del tutto diverso vengono in parte squalificati o, in parte, pretermessi.
Questo fenomeno, sul quale si erano soffermati i primi studiosi di psicologia giudiziaria, già a partire dagli anni Venti dello scorso secolo, fu spiegato con il prevalere del pensiero intuitivo sulla decisione, rispetto al “processo analitico di ragionamento”. Scriveva Enrico Altavilla: “L’intuito è certamente una voce che sorge dall’incosciente, in cui è accumulata la nostra esperienza e anche quella della razza, che precedendo ogni processo analitico di ragionamento, ci fa sentire come un avvenimento ha dovuto verificarsi.” (Altavilla, 1948).
L’Altavilla distingueva nel processo decisionale dunque una fase caratterizzata dal prevalere del pensiero intuitivo ed una seconda nella quale prevaleva il pensiero analitico.
Tale osservazione era il frutto di un’analisi che derivava dalle esperienze sul campo dell’autore, non suffragata ancora dai dati della ricerca scientifica che, come si vedrà, verranno dimostrati alcuni decenni dopo. Queste dinamiche mentali si verificano indifferentemente nei diversi procedimenti giudiziali, lo si ripete. Anche se, nell’ambito del processo penale, ciò accade con una certa maggior frequenza piuttosto che negli altri riti. Il fenomeno si registra in particolare nei casi più complessi, quando le prove raccolte sono numerose e la loro acquisizione si prolunga nel corso di più udienze, quando i dati probatori si caratterizzano per una certa loro ambiguità interpretativa, quando i riscontri vengono diversamente interpretati dai consulenti ed il giudice non sempre dispone di strumenti adeguati per interpretarli.
In alcune di queste situazioni tra le udienze destinate alla raccolta delle prove e quella di discussione vi è un intervallo temporale non trascurabile ed il giudicante assiste alla discussione delle parti senza aver prudentemente dedicato un’anticipata ed approfondita disamina dei verbali delle precedenti udienze. In contesti del genere, in particolare, “il processo analitico di ragionamento” cede il passo al pensiero intuitivo.
Come nel processo penale, anche nel rito del lavoro la decisione anticipata col dispositivo dovrebbe rappresentare il punto d’incontro tra il fatto ed il diritto. Il convincimento nel giudicante e la struttura logica implicita nella decisione dovrebbero trovare, in un successivo momento, la loro naturale esplicazione. Ma ciò non sempre avviene.
3. Le osservazioni provenienti dalla psicologia giuridica
Una sparuta schiera di studiosi del processo penale da qualche tempo ha iniziato ad approfondire le dinamiche psicologiche e le tendenze sistematiche del pensiero che condizionano il convincimento del giudice, esplorando i meccanismi alla base della operazione decisoria alla luce anche degli studi internazionali in materia (Manzin et. al., 2021, Pascuzzi, 2017). Nel passato, osserva Luigi Lanza, il lavoro di analisi sulla decisione era stato quasi sempre condotto sul “come è fatta la sentenza” piuttosto che sul “come la sentenza si fa” (Lanza, 2012).
Alla domanda se la decisione sia frutto solo di un percorso razionale o il prodotto anche di altri fattori mentali, la dottrina non ha saputo dare risposte soddisfacenti. Ovviamente vanno fatte salve le debite eccezioni. Altavilla, come s’è detto, nel descrivere il processo formativo del convincimento del giudice, riconosceva uno spazio predominante ai “fattori soggettivi”. Egli metteva in guardia, in particolare il giudice penale, dai rischi nei quali poteva incorrere, laddove il suo giudizio si fosse fondato sulla sola intuizione, che egli collocava tra le “esperienza sub-coscienti”. In ciò evocando latamente la lezione freudiana. L’intuito, come scriveva lo studioso, quasi sempre induce il giudicante ad anticipare il proprio convincimento. “E alle volte questo giudizio anticipato si cristallizza così prepotentemente nella coscienza del giudice che non soltanto le risultanze processuali non verranno a modificarlo, ma egli, inconsapevolmente, si sforzerà di adattare questi risultati al suo convincimento” (ibidem, 709).
Un altro autorevole studioso del processo penale, Vincenzo Cavallo, aveva scritto pagine importanti sull’influenza di questi “fattori soggettivi” che operano nel giudizio e che determinano divergenze tra i motivi reali ed i motivi espressi nella sentenza. (Cavallo, 1936)
E’ esperienza comune tra i pratici del processo che la motivazione non espliciti sempre i reali motivi che hanno determinato la decisione, ma solo quelli attraverso i quali il giudice intenda giustificarla. Significativamente Vincenzo Cavallo definiva la motivazione come una razionalizzazione a posteriori dell’atto di intuizione nel quale egli vedeva l’essenza vera della decisione. Ed aggiungeva che quest’ultima non era dovuta “a un’illazione logica, ma a un atto d’intuizione dell’io che aderisce a quella che per intima, spontanea ed originale attrazione avverte che è la verità reale”. Precisava anche che: “la sentenza imposta tante soluzioni che “sono l’effetto di singoli atti di intuizione” (ibidem, 333).
Oggi disponiamo però di evidenze scientifiche, derivate dalla ricerca condotta dalla giovane scienza cognitiva, ben più significative di quanto semplicemente osservato dai giuristi italiani del secolo scorso e, soprattutto, dagli esponenti del realismo giuridico americano (Frank, 1930). E’ stato, infatti, dimostrato come la razionalità umana, da sempre ritenuta segno distintivo della nostra specie, presenti molte incrinature che la rendono nei fatti molto limitata (Legrenzi, Salvi, 2008).
A partire dagli anni Cinquanta numerosi lavori avevano messo in evidenza, documentandoli, i limiti della mente umana, soprattutto quando la decisione avvenga in situazioni di incertezza, di scarsità di tempo ed in condizioni di stress da parte dell’agente. Tre studiosi, in particolare, per le loro ricerche sul tema della operazione decisoria in ambito economico, avrebbero conseguito il premio Nobel. Ci riferiamo in particolare ad Herbert Simon (1978), Daniel Kahneman (2002) e Richard Thaler (2017) riconosciuti come i padri fondatori delle scienze cognitive e comportamentali. Costoro non erano economisti ma psicologi cognitivi che si erano dedicati allo studio dei processi decisionali in diversi ambiti e non solo in quello economico.
4. La razionalità limitata
Nel corso degli ultimi decenni del Novecento, gli scienziati cognitivi hanno dimostrato come le decisioni dell’essere umano non vengano tanto governate dal principio di massimizzazione ma vengano assunte in contesti caratterizzati da una razionalità limitata.
All’interno di un mondo fatto di dati ambigui, diceva Simon, difficilmente “processabili” attraverso inferenze logico-deduttive, gli individui più che eseguire scelte ottimali pervengono a decisioni che essi ritengono semplicemente “soddisfacenti” (Simon, 1977). Le ragioni di questa modalità di decisione avvengono vuoi per i vincoli imposti dalle organizzazioni in cui i soggetti operano, vuoi per i limiti oggettivi imposti proprio dal sistema cognitivo umano.
Ulteriori ricerche, portate avanti da Kahneman e Tversky nei primi anni Settanta, all’interno di un vasto progetto denominato Heuristics and biases program, avrebbero non solo confermato che gli individui decidono in un ambito di razionalità limitata, ma che le loro decisioni vengono assunte facendo ricorso a strategie semplici da loro definite euristiche (Tversky, Kahneman, 1973). Trattasi di scorciatoie del pensiero che spesso producono errori sistematici nel giudizio. Questi errori, assieme ai cosiddetti biases, definibili come inclinazioni comuni di tutti gli individui, avvengono in modo inconsapevole e sono legati a pregiudizi connaturati alla mente umana, riconducibili soprattutto alla sfera emozionale ed affettiva di ogni soggetto (Viale, 2018). Determinante, infatti, nella presa di decisione, è la cifra emotiva che sta alla base della vicenda umana sottostante o della scelta che deve essere effettuata.
Sono stati messi in luce vari pattern comportamentali costanti, di tipo automatico, legati al contesto ai quali ciascun individuo si adegua. Tra di essi l’effetto framing (incorniciamento) si è rivelato come uno dei fattori più importanti. Si è dimostrato, infatti, come gli individui siano influenzati dalle modalità attraverso le quali le informazioni vengono presentate e la loro decisione tende istintivamente ad adeguarsi a questa cornice. L’effetto è talmente pervasivo che nessun individuo è in grado di sottrarsi. E’ stato dimostrato poi che una diversa modalità di inquadramento degli stessi identici dati o una diversa formalizzazione degli stessi determina una presa di decisione completamente diversa.
Dai contributi sperimentali di questi studiosi è dunque emersa una immagine dell’essere umano contraddistinta da una capacità razionale fortemente limitata. Kahneman ha dimostrato che questi limiti non erano legati alle capacità intellettive dei singoli individui. Anche i soggetti più dotati erano guidati dai medesimi automatismi decisionali. Incappavano nelle stesse trappole nelle quali cadevano un po’ tutti e soffrivano delle medesime illusioni cognitive. In questi automatismi sistematici incorrevano anche i soggetti esperti ed anche professionisti di lunga esperienza (Kahneman et al., 2021). Rumiati e Bona hanno fornito numerosi esempi di come queste distorsioni possano operare nelle cause civili (Rumiati, Bona, 2019).
La lista degli errori, bias e distorsioni cognitive, scoperti in questi anni dagli studiosi, si è di molto allungata, a partire dal bias della conferma di cui già Bacone, quattrocento anni prima, aveva parlato nel suo Novum Organum, cioè della tendenza della specie umana di avvalersi solo di quei dati che confermano la propria ipotesi di partenza (Bacone, 1998).
Non è questa la sede per soffermarsi troppo su queste tendenze sistematiche, basterà qui riportarne solo alcune che possono avere un rilievo nelle vicende giudiziali.
Un’ulteriore categoria di questi fenomeni mentali, che interferiscono nella presa di decisione, legati alla cifra emotiva del caso, è quella correlata al tempo (bias dello status quo). Questa distorsione sistematica è rappresentata dalla tendenza di ciascuno di noi a preferire la conservazione dello status quo piuttosto che il suo cambiamento. Questo bias induce gli individui a procrastinare ogni scelta che possa modificare lo status quo. Gli esseri umani tendono, in genere, ad evitare ogni costo e ogni sforzo in termini fisici e psicologici perché questo viene vissuto istintivamente come perdita di qualcosa (Kahneman et al., 1991). Impegnarsi dunque in una disamina più approfondita delle questioni che si devono affrontare e che possano mettere in discussione le apparenze, rappresenta una modalità comportamentale contraria alla naturale propensione degli individui a lasciare le cose come stanno. L’adagio latino mota quitare et quiete non movere offre un’idea plastica di tale deviazione del pensiero.
Ancora, gli esseri umani soffrono di un’ulteriore tendenza, anch’essa legata alla sfera emozionale ma con ricadute sulla sfera cognitiva. Si tratta dell’overconfidence cioè dell’illusione di controllo sulle situazioni. E’ stato provato in un esperimento, per esempio, che aveva coinvolto un discreto numero di professori di una grande università americana, che ben il 94% di loro riteneva di insegnare meglio della media dei loro colleghi (Viale, 2018).
In un altro studio, che questa volta aveva coinvolto un numero ragguardevole di giudici americani, alla domanda sulle probabilità di riforma delle loro decisioni in grado d’appello, la stragrande maggioranza aveva manifestato sicurezza sulla solida tenuta delle loro sentenze (Kahneman, Sibony, Sunstein, 2023). Tutto ciò a conferma di questa forma di irrazionale ottimismo sulle loro capacità professionali. Nei fatti però quelle decisioni erano state ampiamente riformate nei giudizi di secondo grado, come era stato dimostrato dai ricercatori.
Gli individui inoltre hanno la tendenza, ancora, a trarre delle decisioni conclusive sulla base di un’ipotesi di partenza del tutto intuitiva. In altri termini, cadono nella fallacia del bias cosiddetta del salto alle conclusioni. Nonostante il numero ristretto delle informazioni di cui dispongono o, meglio ancora, di cui non dispongono, pensano di poter decidere con cognizione di causa (Kahneman, 2012). E’, come sempre, il pensiero intuitivo e veloce a guidarci e ad indicarci la soluzione del problema, così eludendo il processo razionale analitico di raccolta e di integrazione delle informazioni disponibili. Questa dinamica sistematica del pensiero trova frequente attuazione nelle decisioni giudiziali.
Gli studiosi del comportamento hanno ancora evidenziato una ulteriore frequente distorsione nella presa di decisione, apprezzabile da ognuno di noi e definita dagli anglosassoni reiteration effect o bias della ripetizione. In altri termini, quante più volte un’affermazione viene ripetuta, tanto maggiore è la probabilità che la stessa venga condivisa dall’interlocutore e ciò a prescindere dalla dimostrazione della sua fondatezza.
Molte altre sono insomma le insidie nelle quali si incorre nel prendere una qualsiasi decisione, soprattutto, lo ripetiamo, quando il soggetto agente si ritrova in condizioni di incertezza e in situazioni di ristrettezza temporale.
A differenza dei bias che, come s’è detto, rappresentano deviazioni sistematiche del pensiero e della percezione connaturate alla specie umana, esiste un ulteriore fenomeno che è stato definito come rumore. Il rumore opera in maniera indipendente dai bias e anche dalla veridicità o fallacia del ragionamento (Kahneman, Sibony, Sunstein, 2023).
E’ il rumore che determina nei medici, a fronte delle stesse evidenze strumentali o analisi di laboratorio, diagnosi o terapie differenti. E’ questo stesso fenomeno psicologico che determina nei giudici, a fronte dei medesimi dati probatori, raccolti nell’ambito di situazioni processuali identiche, decisioni divergenti sulla responsabilità dei diversi imputati (Caringella, 2017).
Tornando ai bias, gli esempi sopraindicati, che si possono riscontrare anche in ambito giudiziario, rappresentano solo una piccola parte degli automatismi decisionali che affliggono il pensiero degli individui. Gli studiosi hanno portato alla luce più di duecento diversi tipi di bias che influiscono sulla presa di decisione, sia che essa venga assunta in ambito economico, piuttosto che in ambito medico o in ambito giudiziario.
Quelli qui descritti, assieme ad altri, appaiono particolarmente rilevanti non solo nel processo penale ma anche nelle cause di lavoro e nel rito tributario.
Recentemente, alcuni di questi errori sistematici, di natura istintiva, sono stati osservati anche nel giudizio contabile avanti la Corte dei Conti (Amante, 2022).
Qual è la ragione di tutto ciò? Perché la mente dell’uomo sembra sopraffatta dalle fallacie, dalle illusioni cognitive e dai bias? E non si tratta delle fallacie logiche che possono affliggere il pensiero razionale e che spesso si riscontrano nelle decisioni. Gli errori sistematici appartengono al solo pensiero intuitivo.
5. La teoria del doppio processo
Un paradigma esplicativo, venutosi ad affermare alla fine degli anni Novanta dello scorso secolo, ha contribuito a dare una spiegazione convincente al funzionamento del pensiero umano ed alle sue inadeguatezze (Slovic et al., 2002, Gilovich, Griffin, Kahneman, 2009, Kahneman 2012).
Si è ipotizzato che la presa di decisione sia il prodotto dell’intervento di due Sistemi operativi della mente, tra loro interagenti ed a tal punto integrati da non consentirci di distinguerli nel momento della loro operatività. Di qui la cornice teorica definita del doppio processo (Kahneman, 2012).
Si parla in definitiva di una duplicità cognitiva della mente umana: quella dell’intuizione e quella del ragionamento. Secondo questa ipotesi, il primo dei due Sistemi (Sistema 1) corrisponde all’attività istintiva ed intuitiva, di tipo automatico, modulata da fattori emozionali ed affettivi, in genere, dipendenti dal contesto. Il secondo rappresenta l’attività di ragionamento analitico, cosciente, tipica e propria dell’homo sapiens (Sistema 2). In questa seconda, peraltro, tutti ci identifichiamo.
Nella presa di decisione, però, comunque e sempre, prevale la componente intuitiva ed emotiva. Il dato è stato peraltro evidenziato anche con tecniche psicologiche e di neural imaging che hanno appunto dimostrato l’influenza intrinseca e determinante della cifra intuitiva e soprattutto emotiva (Greene et al., 2004). Questa caratteristica, dell’accessibilità su base emozionale al problema da risolvere, è tipica della mente intuitiva di cui al Sistema 1.
Essa sarebbe all’origine della maggior parte delle decisioni errate che vengono assunte in campo economico, per esempio, un’area decisionale tradizionalmente riconosciuta dagli economisti classici come espressione massima della razionalità olimpica (Kahneman, 2003).
La psicologia evoluzionistica spiega che tali meccanismi mentali vanno ricondotti a processi cerebrali più antichi e primitivi dell’uomo, meccanismi che nei millenni gli hanno consentito di adattarsi all’ambiente per sopravvivere e trasmettere il proprio patrimonio genetico alla discendenza (Legrenzi, Salvi, 2008).
La componente razionale, costituita dal Sistema 2, sviluppatasi solo in tempi più recenti, sarebbe andata ad affiancare la prima e più antica. Essa si caratterizza per essere governata da modalità operative diverse. E’ lenta rispetto alla prima, è controllata, è sequenziale ed implica uno sforzo mentale, non richiesto dal Sistema 1.
Le scelte e le decisioni che vengono assunte da quest’ultimo, in modo automatico, non sono suscettibili di essere corrette e riviste dal Sistema 2. Solo l’acquisita consapevolezza dell’esistenza di queste trappole del pensiero, delle illusioni cognitive, delle euristiche e dei bias, ma soprattutto una specifica formazione sul funzionamento del pensiero darebbe la possibilità agli individui di sottrarsi alle trappole mentali indotte dal Sistema 1, anche se eludere il pensiero intuitivo non è facile. Il sopravvento di tale forma di pensiero avviene soprattutto in condizioni di incertezza, quando il tempo per decidere è poco, quando il livello di attenzione è basso, quando manca una spinta motivazionale a riflettere sulle caratteristiche del problema e, non ultimo, quando le evidenze a disposizione sono ambigue.
Troppi sono gli elementi di disturbo (legati al contesto di decisione e riconducibili anche a segnali troppo deboli e poco significativi dei dati informativi) che portano il decisore a scelte subottimali, a selezionare regole di giudizio non sempre adeguate al problema da risolvere e a farsi travolgere dai bias e dalle emozioni (Viale, 2018).
6. Decidere in condizioni di incertezza
Una risposta dunque alla domanda sulle cause profonde che possono generare il contrasto tra dispositivo e motivazione nel rito del lavoro (utilizzando la cornice concettuale sopradescritta ed approfondita dalle Scienze cognitive e da quelle comportamentali) deve essere individuata nei due diversi contesti temporali in cui viene a trovarsi il giudicante quando emette il verdetto e quando giustifica la decisione.
Quando, in particolare, la decisione riguarda una questione o più questioni complesse, quando la causa si protrae per molte udienze, quando gli esiti delle prove sono ambigui, quando la spinta motivazionale a riflettere sui dati acquisiti non è particolarmente risoluta e gli elementi di incertezza prevalgono, il magistrato si troverà esposto ai rischi di una decisione assunta attraverso il Sistema 1. Le distorsioni sistematiche della percezione e del pensiero intuitivo prenderanno così il sopravvento sul pensiero sistematico, lento e cognitivamente dispendioso di energie mentali.
Nel processo decisionale, inoltre, fattori come l’ansia e lo stress, svolgono un ruolo determinante (Forza et al., 2017). Questi possono essere determinati da situazioni, anche le più disparate, costituite dall’affaticamento, dal carico di lavoro, dalle preoccupazioni individuali, da caratteristiche soggettive del decisore. Molti lavori hanno dimostrato, infatti, come l’ansia eserciti una profonda interferenza sulla cognizione, in relazione al fatto. Gli ansiosi mostrano la tendenza ad utilizzare un minor numero di informazioni, rispetto ai soggetti con bassa ansia di tratto, pur disponendo di tutte le informazioni necessarie per dare una corretta soluzione al caso. E’ stato osservato che gli individui con ansia di tratto elevata sono portati a saltare direttamente alle conclusioni (jump to conclusions), così trascurando altre evidenze spesso importanti per la decisione (Bensi, Giusberti, 2007). In altri termini, questi soggetti sarebbero più vulnerabili con riferimento allo specifico bias del passaggio alle conclusioni.
In un momento successivo, quando si tratterà di argomentare e giustificare quella decisione con una motivazione adeguata, dopo aver esaminato le informazioni acquisite in causa, si determinerà il contrasto con la decisione anticipata con il dispositivo. Questa finirà per dimostrarsi in netto contrasto con il grosso delle evidenze probatorie. Il ricorso al Sistema 2, quando ciò possa riuscire, ma ciò non è sempre detto, darà modo al giudicante di aumentare il livello di elaborazione cognitiva ed attenzione, arrivando magari a contraddire il contenuto del dispositivo.
Questo processo non è però sempre scontato.
In molti casi l’impianto motivazionale può essere pesantemente condizionato dal bias della conferma. Il decisore infatti valorizzerà i soli dati che valgano a confermare la decisione già presa, senza prendere in considerazione le evidenze di diverso segno che la potrebbero contraddire. E, laddove anche fossero considerate, farà in modo di sminuirne il loro valore. Si assiste così ad una selezione dei dati di realtà, emersi in istruttoria, selezione che serve a suffragare la formulazione dell’iniziale giudizio. In questi casi non vi è conflitto tra dispositivo e motivazione, anche se quest’ultima costituisce una razionalizzazione a posteriori della decisione, che resta comunque il portato di un’intuizione istintiva quasi sempre di natura emotiva. Quanto osservato dall’Altavilla, quasi un secolo fa, continua ad essere replicato nella pratica ed il sintomo più evidente di tale processo di razionalizzazione è normalmente il rilevante lasso di tempo che intercorre tra la decisione ed il deposito delle motivazioni (ibidem, 709).
In altre situazioni, spesso il grave ritardo tra la lettura del dispositivo ed il deposito della motivazione, tradisce una condizione di difficoltà psicologica nella quale è incorso il decisore che, riesaminando il materiale probatorio ed i dati di realtà, si trova nell’impossibilità di comporre il dissidio tra l’elemento decisionale anticipato e quello giustificativo.
Il fenomeno psicologico, riscontrabile nel rito laburistico, è esattamente sovrapponibile a quello rilevabile nel giudizio penale, molto spesso attardato dalla lungaggine dei procedimenti.
7. Conclusioni
Le Scienze Cognitive e quelle Comportamentali, che hanno ormai trovato un rilevante spazio nei programmi universitari dei dipartimenti di Economia, delle più importanti università del mondo, sono quasi del tutto ignorate nei programmi delle nostre Facoltà di Giurisprudenza.
Queste discipline non farebbero altro che spiegare come l’agente modello di decisore, dotato di una razionalità olimpica, secondo la definizione di Simon ed ipotizzato dalla giurisprudenza, non esista. I giudici, al pari di ogni essere umano, decidono ed operano troppo spesso nei limiti della propria razionalità limitata, come del resto altre categorie di professionisti, attraverso giudizi intuitivi che seguono le tendenze sistematiche del pensiero di cui s’è detto. Condizionati spesso dalle modalità narrative attraverso le quali gli accadimenti vengono rappresentati dagli attori processuali (Forza, 2018).
Conoscere questi limiti del pensiero umano, formare i giuristi, introducendoli alle acquisizioni ed ai risultati ottenuti da queste discipline, contribuirebbe sicuramente a colmare non solo un gap culturale ma anche a rendere la giustizia più giusta, attraverso una maggiore coerenza tra i contenuti delle decisioni e la realtà dei fatti.