TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. Ogniqualvolta mi capita di essere presentato, mi vien sempre di pensare che se fossi veramente quel tipo tosto più o meno enfatizzato, dovrebbe bastare dire che son ben noto, senza aggiungere altro. Ma la vostra insegnante lo ha fatto con tanta grazia venata da una fanciullesca ironia da non mettermi a disagio, d’altronde le devo tutto il piacere di essere qui, tornato dopo dodici anni di pensionamento a tu per tu con studentesse e studenti intorno ai vent’anni, il pubblico sempre diverso anno dopo anno accademico, ma sostanzialmente sempre uguale ai miei occhi per la ventata di giovinezza che mi avvolgeva all’inizio del corso. Non intendo fare un amarcord sentimentale, cercando di rivivere in voi quello che ero, seduto sui banchi ad attendere il professore, no non posso identificarmi col vostro presente, ma posso far rivivere qualche pezzo, battezzati come siete di quel passato che non avete studiato sui libri e non avete appreso personalmente essendo dei millennials, nati intorno al millennio, meglio appartenenti alla generazione z, partoriti dalla seconda metà del decennio ’80, cioè con lo “smartphone in mano”. Beh, tanto da avere il senso del divario anagrafico, il mio primo vagito è assai risalente, al settembre 1938, che voi conoscete per essere stato l’anno dell’emanazione della legislazione antisemita. A dire il vero, fatto che dice molto sul carattere totalitario del fascismo, era l’anno XVII dell’era fascista, secondo il computo degli anni basato sull’assunzione del potere di Mussolini, con il primo dell’anno uno fissato al giorno 29 ottobre 1922, cioè quello successivo alla marcia su Roma. Allora perché si parla di ventennio fascista, dato che Mussolini restò formalmente fino al 25 luglio 1945? Presto detto, il Duce, come d’altronde anche Hitler, divenne primo Ministro, secondo il procedimento previsto dallo Statuto Albertino, chiamato dal Re e votato dalla Camera dei Deputati, dopo le elezioni del 1922; ma solo dopo le elezioni del 1924, vinte con una Lista nazionale, c.d. listone, contro il cui svolgimento fraudolento si scagliò il deputato socialista Giacomo Matteotti, pagando con la vita, diede inizio al regime, con un discorso rimasto famoso, per poi rivestire la carica di Capo del Governo e procedere alla approvazione delle leggi eccezionali nel 1925-26 che trasformarono lo Stato in regime, senza peraltro rimuovere il Re.

2. Ho vissuto il fascismo, no, ma ho vissuto la guerra, di cui ho qualche ricordo: la batteria antiaerea tedesca installata dietro la stalla del fondo sulla strada per la Futa, dove la mia famiglia si era trasferita; a corsa pazza sulle mie gambette di sei anni, verso il rifugio scavato sotto una collina, con nei timpani il rumore assordante degli aerei alleati; la sparizione della cucina all’aperto centrata in pieno da una bomba. Niente che possa dire aver avuto un effetto traumatico, ma un precoce battesimo di quel che è la guerra nella sua spietata realtà, che oggi mi rende più consapevole del massacro che si sta consumando in Ucraina.
Ma nei primi anni non ho vissuto il fascismo, come Balilla, cui andava a pennello il motto “libro e moschetto fascista perfetto”, protetto nell’ambito di una famiglia di media/alta borghesia, il cui capo era rimasto a casa, un medico addetto al servizio ospedaliero, la cui unica preoccupazione dominante era di portare in salvo moglie e figli. Non voglio aprire una parentesi sul fascismo, se non per spingervi a farvene una idea propria leggendo qualche buon libro, vi renderete conto che fu un fenomeno complesso collocato in uno specifico contesto storico, nazionale e internazionale, sì da evitare i luoghi comuni di un antifascismo di comodo che ne fa uno strumento di violenza pura, esemplato nella tipica spedizione nera di una squadraccia a danno di una casa del popolo o della sede di una lega contadina.
Questo fa parte dell’ascesa del fascismo, ma non lo coglie nella sua natura e dimensione di “dittatura moderna”, non solo autoritaria ma anche totalitaria, portata ad irregimentare dall’alto l’intera vita civile, con l’accompagnamento di una propaganda martellante tramite i nuovi strumenti della radio e dei documentari. Era una dittatura totalitaria, che curvava a suo favore l’intera vita della gente tramite corporazioni, categorie, associazioni, manifestazioni di consenso. Ne avete avuto sentore in questo stesso corso quando vi è stato spiegato quale era l’organizzazione del lavoro, all’insegna di un tentativo di superare la lotta di classe: corporazioni composte da due sindacati unici da entrambi i lati, dei datori e dei lavoratori, contratti collettivi con efficacia erga omnes, una magistratura del lavoro incaricata di sostituirsi alle parti nell’ipotesi di uno stallo negoziale, tutto questo in luogo della libertà di sciopero e di serrata, configurati come reati. Non repressione pura e semplice, ma partecipazione più o meno coatta, sfociante in una qual sorta di identificazione passiva al regime. La barocca organizzazione corporativa, destinata a divenire forma dello Stato con la Camera delle corporazioni alla vigilia stessa dell’entrata in guerra, è interessante anche per una lettura della nostra Costituzione, per aver costituito la scena di fondo degli artt. 39, 40, 99, che pur nel contrasto netto col passato - nel primo comma dell’art. 39 sulla libertà di organizzazione sindacale e nell’art. 40, sulla ricostruzione dello sciopero come diritto – ne conserva qualche traccia: i commi 2 e seguenti dell’art. 39 sembrano dà per scontato l’esistenza di categorie produttive a priori come base della disciplina delle associazioni sindacali in vista della conclusione di contratti collettivi con efficacia erga omnes; l’art. 99 sembra prefigurare nel Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro una Camera degli interessi. Ma qualunque sistema avesse in mente il Costituente, ricostruibile o meno come pluralismo istituzionalizzato, la mancata emanazione di una legge sindacale - dovuta alla rottura dell’unità sindacale con la Cgil maggioritaria, quindi, tale da controllare la delegazione sindacale prevista dall’ultimo comma dell’art. 39 per concludere contratti collettivi con efficacia erga omnes costruita a misura del numero degli iscritti - ne bloccò l’attuazione. Nel vuoto il sistema si sviluppo di fatto fuori - ma non contro il modello costituzionale, dato che fu per così dire costituzionalizzato dal Giudice delle leggi - seguendo due itinerari distinti ma accomunati, almeno all’inizio, dal ricorso al diritto dei privati, cioè a quello di cui al quarto libro del codice civile, sulle obbligazioni e sui contratti. Il primo comma dell’art. 39, sulla libertà di organizzazione sindacale fu assunto come unico referente, ritenuto di per sé in contrasto con i commi 2 e seguenti, che invece avrebbero limitato questa libertà, sì da dar vita ad un pluralismo conflittuale, con il sindacato mera associazione non riconosciuta e con il contratto collettivo mero contratto collettivo c.d. di diritto comune; l’art. 40 fu scomposto in modo da dar per scontato il riconoscimento dello sciopero come diritto potestativo, fermo restando il potere del legislatore di disciplinarne l’esercizio. Rimasero irrisolti due problemi a tutt’oggi all’ordine del giorno. In primo luogo la scarsa resa delle misure volta a volta assunte per qualificare le associazioni sindacali legittimate a usufruire della politica promozione quale costituita dalla presenza nei luoghi di lavoro e dalla legittimazione a gestire la c.d. contrattazione delegata, essendo risultate via via poco redditizie tanto la maggiore rappresentatività delle confederazioni quanto la maggior rappresentatività comparata delle organizzazioni sindacali; per non parlare della impossibilità di una contrattazione con efficacia erga omnes, praticabile a giudizio della Corte costituzionale solo tramite l’attuazione dell’art. 39, comma secondo e seguenti. Oggi si riparla di una legge sindacale che aggiri l’art. 39 comma secondo e seguenti, scritta sul modello realizzato con la privatizzazione del pubblico impiego - una a rappresentatività mista, associativa e elettorale, ma contando a priori sulla comprensione da parte della Corte costituzionale, che la salvò, nonostante contemplasse una efficacia generalizzata della contrattazione collettiva, ma qui con un sofisma, cioè di imputare tale efficacia non alla contrattazione in se e per se, ma all’obbligazione di rispettarla da parte delle pubbliche amministrazione imposta ex lege.
In secondo luogo, in assenza di una disciplina dell’esercizio del diritto di sciopero intervenne e in funzione di supplenza la giurisprudenza: quella relativa agli scopi affidata alla Corte costituzionale e quella relativa ai modi fatta propria dalla magistratura ordinaria con una sostanziale concordanza nella progressiva opera di liberalizzazione, destinata a culminare a mezzo del decennio ’70 nella qualificazione dello sciopero politico-economico come libertà e dello sciopero articolato come una astensione collettiva pienamente legittima. Restò aperto il problema della titolarità, non risolto neppure dalla legge sull’esercizio dello sciopero nei servizi pubblici essenziali, rimasta a tutt’oggi individuale, nonostante lo sciopero sia stato ricostruito come uno strumento elettivo per la realizzazione della uguaglianza sostanziale prevista dall’art. 3, secondo comma della Costituzione. Certo la Commissione di garanzia, di cui facciamo parte sia la prof.ssa Razzolini sia il sottoscritto, a tutt’oggi prorogata per poter tener conto di tutta la montagna di carichi in scadenza, ha fatto e fa del suo meglio, ma che dire di uno sciopero generale proclamato da una sigla sindacale esistente assai più sulla carta che nella realtà?

3.Quanto conta il caso nella vita? Molto, ma occorre saperlo cogliere, sono solito dire che non esiste un orario ferroviario che ci dica quale treno dobbiamo prendere per andare nel posto preferito, si tratta di stare in stazione, scegliendo via via, sì che ci può venire voglia di andare altrove. Così volevo fare il medico, ma avendo scelto di iscriversi a medicina mio fratello maggiore, l’“intelligente” di famiglia, io mi arruolai a Giurisprudenza, che allora richiedeva di aver superato il liceo classico, sì da essere una facoltà residuale, ma squisitamente di classe, cioè dei figli di professionisti, quell’anno 140 matricole in tutto, con una frequenza obbligatoria al fine di avere la firma abilitante l’esame del professore, faccenda che svolgeva il bidello, perché la latitanza tollerata era assai ampia. Si partiva il primo anno con circa 80 presenti per poi diradarsi col passare degli anni, quattro per restare in corso, rapporto coi professori era molto formale: entravano, recitavano la loro lezione, uscivano senza un cenno di saluto. Era una università gerarchica, autoritaria, formale, costruita per permettere ai detentori della scienza insegnata di dispensarla a giovani presupposti come del tutto ignoranti in materia. Domande se ne facevano poche, in genere abbordando i professori all’uscita, per lo più riferite all’agenda degli esami. Ma il Paese stava cambiando, senza che se ne avesse una precisa cognizione, me ne accorsi in tutta la sua irruenza quando iniziata la mia carriera di insegnante, mi scontrai con la rivolta antiautoritaria all’Istituto Superiore di Scienze sociali di Trento, uno dei punti più caldi della rivolta antiautoritaria che aveva coinvolto fabbriche e università. Sapete perché andai a Trento? Mi ci mandò Nino Andreatta, un grosso nome della economia e della politica, per sostituire il docente di diritto privato che se ne era scappato, dopo essere stato messo nell’impossibilità di svolgere le sue lezioni dalla recitazione ripetuta da parte degli studenti degli articoli della servitù. Fin dalla prima volta, trovatomi di fronte a qualche centinaio di studenti rimasti bloccati per essere l’esame di diritto privato preclusivo, che cercavano di prendere le misure del giovane sbarbatello che ero allora io, capii che una folla assiepata di per sé stessa minacciosa, va affrontata occhi negli occhi, senza rivelare il minimo senso di paura. Era la contestazione della regola aurea della società occidentale, di una scienza neutra, da trasmettersi da una generazione all’altra, debitamente arricchita, era fatta da giovani che avevano alle spalle i licei di allora, auto-educatisi alla critica che imperversava nei libri e nelle riviste, capaci di metterti in difficoltà, alternando le provocazioni, disquisizioni marxiste sui pilastri della società borghese, proprietà e contratti, con esibizioni che avrebbero voluto essere di pressione fisica, presentarsi agli esami in gruppo, con i maschi a torso nudo oppure sequestrarti, impedendoti di lasciare l’aula. Qui si incardina un episodio che mi è rimasto nella memoria, tanto da essere recuperato da un libro relativo a quegli anni, impedito di uscire, rimasi per alcune ore stretto fra una moltitudine che circondava la cattedra, sottoposto ad un martellante interrogatorio che intendeva sfinirmi. Non risposi mai, senza peraltro provocarli, chiedendo solo di essere rifornito di sigarette, alla fine, di fronte all’alternativa di occupare l’intero palazzo, mi lasciarono andare ma non senza che me ne uscissi proprio sulla porta con una battuta “lingua lunga, cazzo corto”.
Diversa, assai meno istruita e più fu la seconda ondata, quella a mezzo del decennio ’70, che ebbe a Bologna il suo epicentro, con la morte di Lo Russo e l’interminabile corteo di gente proveniente da tutta Italia e anche dall’estero, secondo un modello che ha fatto scuola, spostando la protesta dalle aule alle piazze, nel contesto di quel decennio di terrore che vide le stragi fasciste e le esecuzioni delle Brigate rosse. La contestazione era più classista, relativa alla struttura disuguale della società, alimentata dalle generazioni che si sono formate nel clima post elitario creatosi dopo la liberazione dell’accesso alla università, conseguibile con qualsiasi titolo di scuola superiore.
Non riproducibile il senso di insicurezza che ha caratterizzato il decennio di sangue con la successiva appendice delle nuove brigate rosse: il tributo pagato dai professori di diritto del lavoro fu ingente, perché di per sé tale diritto era passibile di una elevata politicizzazione: Gino Giugni fu azzoppato, Massimo d’Antona e Marco Biagi furono assassinati. Se la tecnica delle stragi dall’estrema destra era quella di creare terrore, spingendo lo Stato a reagire con una disciplina speciale, sì da creare una specie di spirale del tanto peggio tanto meglio, con conseguente collasso del sistema; la tecnica delle esecuzioni dall’estrema sinistra era quella di eliminare personaggi esemplari dal loro punto di vista, funzionari dell’apparato statale e intellettuali riformisti.

4. Facevo parte di una scuola già famosa, quella bolognese, dove ad un illustre processualista, Tito Carnacini, un liberale di antica stoffa, già membro del Comitato di liberazione locale, facevano capo allievi di diritto processuale civile e allievi di diritto del lavoro. Mi laureai in procedura civile, ma poi mi dedicai al diritto del lavoro, con Federico Mancini, previo il godimento di una borsa Fullbright presso il Dipartimento relazioni industriali di Cornell, dove mi congedai con un paper sull’impatto dell’automazione sull’occupazione, riscontrando già allora una tenuta se non espansione dei posti di lavoro, ma con una crescente polarizzazione fra alte e basse professionalità. Nonostante quel che si cerca di accreditare oggi, allora la situazione di un laureato che volesse intraprendere la carriera scientifica, in genere da parte del professore con cui si era laureato era alquanto peggiore, perché cominciava come esperto, poi poteva divenire assistente volontario, ma poteva contare su uno stipendio se vinceva un rarissimo posto di assistente di ruolo, ma più spesso come incaricato esterno presso una altra Facoltà o Università, rinnovabile di anno in anno. Se non contavi sulla famiglia non potevi farcela, dovevi cercarti un lavoro, che io ricordi all’indomani della mia laurea era quello di venditore di macchine da scrivere Olivetti. Cos’era una scuola, una realtà composta da allievi ai diversi livelli, peraltro tutti con uno standard elevato, perché era proprio questo, che agiva come un criterio selettivo, a confermarne l’autorevolezza. La scuola non solo di formazione, attraverso una frequentazione come redazione di una rivista, ma anche di garanzia circa la strada che doveva portare alla tappa finale, la cattedra, il che non significava affatto il ritorno alla Università di partenza.
Il che comportava una notevole mobilità territoriale. Per dieci anni ho insegnato fuori da Bologna. Istituto Superiore di Scienze sociali di Trento, Economia ad Ancona, Giurisprudenza a Sassari, come professore pendolare, che vi passava due o tre giorni alla settimana. Ma a Bologna ho avuto anche un incarico di relazioni industriali a Scienze politiche prima di tornare definitivamente come cattedratico a Giurisprudenza. Ho quindi sperimentato l’insegnamento del Diritto privato e del lavoro in Facoltà diverse da quella di giurisprudenza, maturando una ricca esperienza per continuo contatto con psicologi, sociologi, economisti, matematici. Se dovessi trarre una somma di tutto questo girovagare, penso che l’insegnamento in Facoltà diverse da giurisprudenza tenda ad avere un approccio tendenzialmente diverso, cioè non solo in vista di una sua interpretazione in vista di una decisione ritenuta la più persuasiva, ma di una spiegazione del come nasce, evolve, opera in quel preciso contesto sociale ed economico. Il giurista ha a disposizione una tecnica millenaria per affrontare le problematiche delle vicende umane, curando il sistema legislativo e facendosi carico della casistica, mentre qualsiasi altro scienziato sociale studia ed insegna il diritto come fenomeno, come nasce, come incide, come evolve.

5.Tecnica e non politica. No, il mio primo lungo saggio aveva come titolo tecnica e politica nella giurisprudenza della Corte costituzionale in materia di sciopero e serrata. Come ben si sa non al servizio della ricerca della verità, che al massimo sarebbe quella processuale, ma di una interpretazione fra quelle praticabili nell’ambito della lettera della legge, sì che gode di una discrezionalità più o meno ampia in relazione alla lettera, cercando una argomentazione il più possibile persuasiva. Quindi raramente trova una risposta obbligata, come fosse un automa a gettone, anche se questo è oggi più realistico di ieri, quindi, ci mette del suo sistema valoriale, se conservatore o progressista come si suole dire, ricordo una rivista intitolata proprio Politica del diritto. Nessuno scandalo, ormai appare del tutto scontato che il re sia nudo, ma quella che si chiama opinione dominante si forma lentamente per contrapposizione e sovrapposizione, come se il diritto fosse un essere vivente che si riproduce continuamente sì che bisogna scoprirne il percorso, risalendo all’indietro per poterne verificare i conti.

6. Fino ad ora niente di niente sulla rivoluzione tecnologica, ma posso dire di averla più vissuta come un uomo del ventesimo secolo traghettato nel ventunesimo, che come giurista, pur avendovi pagato una attenzione anticipatoria. È difficile rappresentarvi che cosa abbia significato per un uomo nato nel 1938, il salto costituito dal cominciare a scrivere con la penna, poi con la macchina da scrivere, poi col computer, liberarsi della ricerca documentale a mano tramite il ricorso alle banche dati, comunicare via smartphone e internet, è stato come dover imparare una nuova lingua, fatto da adulti, quindi in maniera approssimativa. Io sono rimasto un analfabeta, tanto da aver dovuto procacciarmi un insegnante di supporto, che dallo studio mi aiuti a districarmi sul mio computer di casa dove mi ritiro per scrivere.
Per quanto riguarda il diritto del lavoro, vorrei seguire il tracciato della nozione portante, quella della subordinazione, che alla fine ha risentito in maniera superficiale della rivoluzione in atto. Il corso era etichettato come di diritto del lavoro, così come la copertina dei manuali, perché era del tutto inutile aggiungervi la parola subordinato. D’altronde il codice civile del 1942, nel tracciare la linea divisoria fra lavoro subordinato e autonomo, parla, nell’art. 2094 di lavoro svolto in modo subordinato “alle dipendenze sotto la direzione” dell’imprenditore, e nell’art. 2222 di lavoro svolto senza il vincolo della subordinazione. Volendo semplificare al massimo si può distinguere fra un diritto classico del lavoro, intento ad ampliare e rafforzare la disciplina del lavoratore subordinato, con a sua parola d’ordine la stabilità ed un diritto post-classico, intento a modulare tale disciplina, con a sua parola d’ordine la flessibilità: il decennio della transizione è quello del ‘90, che d’altronde segna il passaggio dalla prima alla seconda repubblica, per via di una legge elettorale maggioritaria che polarizza il quadro politico fra destra e sinistra, con una conseguente alternanza al Governo, che però non si è tradotta in una politica del diritto segnata da una forte discontinuità.
Questo è stato l’oggetto del vostro corso, cui io potrei aggiungere un bel poco. Ma se, dimostrandomi fedele al titolo di questo appuntamento, dovessi riprendere il tema della rivoluzione tecnologica nel diritto del lavoro, direi tranquillamente che è stata modesta e ambigua, fatta salva l’accelerazione sul lavoro a distanza nella stagione del covid. Fatta salva questa accelerazione, la tendenza è stata quella di lavorare sulla fattispecie di cui all’art. 2094 c.c., senza modificarla, direttamente, ma accoppiandola con un’altra, come la collaborazione etero-organizzata e il lavoro agile, per potervi comunque collegare la ricca dote protettiva della subordinazione, senza farsi carico di adattarla, rinviano per adattarla all’interpretazione giurisprudenziale o alla negoziazione fra le parti.
Il diritto classico del lavoro era un diritto forte perché aveva a referente un soggetto collettivo forte, l’operaio di una grande e media industria organizzata secondo la vulgata tayloristica, rappresentato da un movimento sindacale unito; ma altrettanto non si può dire per il diritto del lavoro post-classico. Il passaggio dall’industria ai servizi, nella loro variegata composizione, ha restituito un panorama occupazionale sempre più frammentato, senza alcun personaggio chiaramente egemone, con a seguire un calo netto di rappresentatività da parte di un movimento sindacale in affanno, assai più esposto sul piano politico.

7. È tempo di metter fine a questo lungo monologo, senza peraltro aver soddisfatto la vostra aspettativa di ricevere una buona regola del vivere, ne conosco una sola veramente vincente, quella di decidere e camminare con determinazione, senza tentennare continuamente. Se dovessi oggi scegliere fra intelligenza e volontà, prenderei quest’ultima come stella polare: si è spesso troppo intelligenti e troppo poco determinati. Mi sento di aggiungere un augurio, quello di poter far proprio al momento del congedo il grido di Neruda, Confesso che ho vissuto.

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