TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
Premessa
Buongiorno, agli amici presenti e lontani, come direbbe un presentatore televisivo, mi propongo nel ruolo di cicerone per una passeggiata archeologica nei luoghi e nei tempi in cui è maturata la relazione fra diritto del lavoro e diritto privato Non sarà, dunque, nel significato rituale della formula, quella in uso nella comunità accademica, una lectio magistralis, che il chiamato a far parte come professore ordinario del corpo docenti di una Facoltà doveva tenere di fronte ai nuovi colleghi; e tantomeno quella che il destinatario di una laurea honoris causa tiene nell’aula magna dell’Università, che gliela conferisce. Sarà una sorta di rivisitazione per apprendisti dell’arte della ricerca, come siete voi dottorandi, scandita da una persona che la vicenda l’ha vissuta di persona, molto da spettatore e un poco da protagonista, perché la storia passata ci dirà qualcosa della situazione presente.
In premessa mi sia permesso un attimo di compiacimento nostalgico, fra queste mura mi sono laureato, ho fatto il mio apprendistato, ho fatto ritorno, dopo un girovagare decennale, come era d’obbligo una volta, a insegnare prima Istituzioni di privato, poi Diritto del lavoro. In questa stessa aula, la Sala delle armi, la più prestigiosa della Facoltà, ho partecipato a vivaci Consigli di Facoltà ed ho laureato alcuni di quelli qui presenti divenuti professori a pieno titolo.
È d’obbligo un ringraziamento al Presidente dell’Aidlass, Sandro Garilli, che ha immaginato un ciclo di lezioni, in presenza e a distanza, per i dottorandi, facendomelo aprire oggi in questa aula
A premessa bisognerebbe definire i due termini, diritto civile e diritto del lavoro per collocarli nell’ambito della classica distinzione fra diritto privato e diritto pubblico, difficile da delineare una volta per tutte, essendo di natura convenzionale e non positiva, variabile e variata nel corso dei secoli, come la rende Franco Galgano nel suo manuale “Diritto privato” e una volta sarebbe stato titolato come Istituzioni di diritto privato; ma qui risulta sufficiente adottare la distinzione stereotipata di ascendenza romanistica, che qualifica il diritto privato come attinente ai rapporti fra soggetti in condizione di parità, regolati in base al principio di autonomia, e il diritto pubblico come riguardante le relazioni fra soggetti in condizione di disparità, ordinati in forza del principio di autorità. Da tale punto di vista il diritto del lavoro ingloba questa distinzione, per essere declinabile sotto l’uno o l’altro cappello, a seconda del profilo considerato, costituzionale, civile, processuale, amministrativo, penale, previdenziale; ma trova il suo radicamento identitario proprio nel diritto civile, quello di cui al libro V del codice del 1942.
Ora parlare di diritto civile significa far rifermento alla fonte quale costituita dal codice del 1942, che nel corso del tempo è stato ampliato a dismisura da tutta legislazione c.d. speciale, nel senso di extra-codicistica che ha comportato un’ampia decodificazione, nel senso di uscita fisica delle materie, come ben testimoniano le varie raccolte private. Il che vale in particolare per il diritto del lavoro, che, però trovava la sua sede nel libro V, che ancora oggi, sotto la rubrica “Del l lavoro, con in testa un Titolo(“ Della disciplina delle attività professionali”), articolato a sua volta in un Capo I (“Disposizioni generali”) e in un Capo II( “Delle ordinanze corporative e degli accordi, economici collettivi”); cui segue un Titolo II(“Del lavoro dell’impresa”),con in apertura un Capo I (“Dell’impresa in generale”), suddiviso in tre Sezioni, (Sezione “Dell’imprenditore”; Sezione II “Dei collaboratori dell’imprenditore”; Sezione III “Del rapporto di lavoro”).
È facile rendersi conto che il legislatore del tempo pensava che il codice civile potesse ben ospitare al suo libro V un Titolo I, connotabile come diritto pubblico e un Titolo II qualificale come diritto privato. Solo che il Titolo I rimasto travolto con la soppressione dell’ordinamento corporativo; mentre il Titolo II è sopravvissuto il Titolo II, ma ha dovuto essere ripulito del suo imprinting corporativo. Sicché si può ben dire che il diritto del lavoro è rinato dopo il crollo del regime “a dispetto” di quel che il codice civile del 1942 gli aveva dedicato, facendo ricorso al diritto privato, come quello fondato sull’autonomia individuale e collettiva dei soggetti.
Mi limiterò a considerare il debito del diritto del lavoro rispetto a quello privato senza dar conto del credito acquistato da questo diritto nei confronti dello stesso diritto civile, a cominciare dall’apporto fondamentale che ne ha permesso un deciso adeguamento costituzionale, cioè la tutela del contraente più debole quale realizzata nel lavoro subordinato.
Le tappe programmate sono tre, una prima, di gran lunga la più importante, riguardante “privatizzazione” che ha caratterizzato la rinascita del diritto del lavoro dalle ceneri dell’ordinamento corporativo, all’insegna dell’autonomia negoziale, collettiva ed individuale, quale operata dalla dottrina civilistica nel decennio ’50; la seconda attinente alla c.d. privatizzazione del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni del decennio ’90; la terza attivata dalla modifica costituzionale del titolo V della Costituzione, circa la distribuzione della competenza legislativa fra Stato e Regioni, con riserva dell’ “ordinamento civile” a quella esclusiva dello Stato in contrapposizione alla “tutela e sicurezza del lavoro “ attribuita a quella concorrente Stato/Regioni.
II
La rinascita del diritto del lavoro
1 Ripartiamo dall’inizio, cioè dall’atto di rinascita a del diritto del lavoro dopo il crollo del regime a seguito della decisione del Gran Consiglio del Fascismo di sfiduciare Benito Mussolini il 23 luglio 1943, che, però non coincide con l’abrogazione delle fonti corporative, quelle menzionate nell’art. 1, n. 3 delle preleggi e disciplinate nel libro V, Titolo I Capo II, artt. 2063-2081. Uno dei primi atti del Governo Badoglio (D.L. 9 agosto 1943, n. 72), fu di sciogliere le organizzazioni sindacali fasciste poste sotto gestione commissariale; l’abrogazione delle fonti normative ebbe luogo un anno più tardi, lasciando in vita le norme corporative, “salvo successive modifiche” migliorative (D. Lgt. 23 novembre 1944, n. 369), per assicurare una continuità nella protezione dei lavoratori quale assicurata dai contratti corporativi.
Se voi foste stati presenti, vi sareste trovati di fronte, per quel che riguarda la nostra materia, alla disciplina di cui al Libro V, titoli I e II del codice civile del 1942 e agli artt. 330/333-502 ss. del codice penale del 1930, ma ben presto, cioè dal 1° gennaio 1948, alla Costituzione della Repubblica italiana, la quale, però, non si fece carico esplicitamente dell’adeguamento del vecchio regime, se non nelle disposizioni transitorie e finali, con rinvii al futuro legislatore. Il che si rivelò illusorio, almeno sul breve periodo, perché il clima di un “alto compromesso” fra le forze presenti nella costituente (cattolici, comunisti, socialisti, laici), aveva cominciato a guastarsi già a mezzo del 1947, con la fine del Governo di coalizione, per poi cedere ad un antagonismo frontale in occasione delle elezioni politiche del 1948, che videro trionfare la Dc, con il Pci condannato, in forza della conventio ad escludendum, rispetto ad una partecipazione al Governo, per la sua dipendenza politica e finanziaria dall’Unione Sovietica.
Non è questa la sede per ricostruire la lenta attuazione formale e sostanziale della nostra Carta fondamentale, che fra l’altro si poté avvalere della opera della Corte costituzionale a partire dalla sua nascita, nel 1956, ma solo richiamare l’attenzione sulle disposizioni più direttamente attinenti alla nostra materia, cioè da un lato gli artt. 39 e 40 e dall’altro gli artt. 35 e segg. Volendo recuperare il disegno del costituente con riguardo al regime del nuovo diritto sindacale, dobbiamo considerare oltre gli artt. 39 e 40, anche gli artt. 46 e 99, che tengono a battesimo una sorta di pluralismo istituzionalizzato, imperniato sulla coesistenza di più organizzazioni sindacali liberamente create, ma canalizzate entro argini astrattamente robusti, basati su una tendenziale convergenza delle parti sociali, dalla pur ambigua cogestione a livello di impresa di cui all’art. 46 e dalla nostalgica istituzione di cui all’art. 99 di una sorta di terza camera degli interessi a livello nazionale; fino alla implicita correlazione fra una contrattazione collettiva dotata di efficacia erga omnes di cui all’art. 39 e l’esercizio del diritto di sciopero di cui all’art. 40. Certo a distanza di tre quarti di secolo il disegno costituzionale risulta totalmente disatteso, lasciando campo ad un regime di fatto peraltro costituzionalizzato dal nostro giudice delle leggi: si riparla dell’art. 46, ma quella attuazione rimessa a decreti delegati dall’art. 4, co. 62 della l. 28 agosto 2012, n. 92, non è stata effettuata per l’opposizione della Confindustria; si cerca di riabilitare il Cnel dopo averne proposto l’abolizione con la riforma Renzi, per la constata inutilità passando la concertazione nella trattativa diretta fra centrali sindacali e Governo; ci si ingegna a bypassare l’art. 39 co. 2 ss., per dotare di efficacia erga omnes la contrattazione collettiva fatta da organizzazioni sindacali dottate di una effettiva rappresentatività; ci si rassegna alla difficile governabilità di una astensione dal lavoro a titolarità individuale del tutto liberalizzata quanto ai modi e agli scopi, eccezion fatta per i servizi essenziali.
Questo oggi come effetto collaterale di quello astensionismo legislativo che ha contrassegnato il formarsi del nostro diritto sindacale così come ormai allora venne meno lo spazio per un intervento legislativo, visto che il modello costituzionale era stato concepito in presenza di una situazione non di coesistenza di più centrali sindacali, ma di una di unità sindacale sotto l’egida della Cgil rifondata col patto di Roma del 1944. Rottasi questa unità, all’indomani dell’elezioni politiche del 1948, con l’uscita di quelle componenti cattoliche e socialdemocratiche che avrebbero dato vita alla Cisl e alla Uil, in un clima di contrapposizione frontale fra Dc, coi suoi satelliti laici, e Pci, non era possibile attuare il progetto costituzionale, dato che esso avrebbe condannato ad uno stato di marginalità le nascenti Cisl e Uil, in ragione della iniziale predominanza numerica di una Cgil ormai a totale gestione comunista. Ci si attardò in progetti legislativi, di cui l’ultimo rilevante fu quello Rubinacci, ma a segnare la presa d’atto ormai irreversibilità dl diritto sindacale che si era affermato di fatto nell’organizzazione e nella contrattazione collettiva, fu la legge Vigorelli del 1959, che previde decreti governativi per date efficacia erga omnes ai contratti collettivi depositati. Solo che, una volta bocciata la proroga di quella legge da parte della Corte costituzionale, per non essere consentita alcuna alternativa definitiva a rispetto a quella delineata dall’art. 39, co. 2 ss. per dotate la contrattazione collettiva di efficacia erga omnes, quest’ultima diveniva un miraggio ben difficilmente realizzabile.
È stata la dottrina a farsi carico della situazione di vuoto normativo, non da parte dei titolari dell’insegnamento del diritto corporativo, ma del diritto civile, col ricorso all’autonomia negoziale garantita da una impostazione privatistica. Sarà un civilista di gran nome come Francesco Santoro-Passarelli a ricoprire la prima cattedra di diritto del lavoro istituita a Roma nel 1946, offrendo una lettura che doveva essere transitoria in attesa della legge sindacale, ma che rimase a formare la base del nostro diritto del lavoro, con nozioni del tutto attuali, se pur ammodernati, quali l’interesse collettivo, come sintesi degli interessi degli associati, l’organizzazione sindacale come associazione non riconosciuta, il contratto collettivo come contratto di diritto comune. Naturalmente lo sconto pagato era relativo all’efficacia di questo contratto collettivo di diritto privato, in quanto di per sé privo di efficacia sia generale rispetto ai non associati, sia reale nei confronti degli associati; la prima mancanza sarebbe rimasta irreparabile, la seconda sarebbe stata dallo stesso Santoro-Passarelli risolta con il ricorso all’istituto del mandato irrevocabile, ma dalla giurisprudenza più praticamente col considerare applicabile al contratto collettivo di diritto comune l’art. 2066, scritto per il contratto collettivo corporativo, circa la sua inderogabilità da parte dei contratti individuali di lavoro, con conseguente sostituzione delle clausole difformi.
Sarà un filosofo del diritto, Giovanni Tarello, a riconoscere che “Il più importante apporto della dottrina civilistica, nel decennio seguente la Costituzione, resta la caratterizzazione dei rapporti sindacali come rapporti privatistici e non pubblicisti”, ma a tale fine non sarebbe stata sufficiente la stessa attuazione dell’art. 39, co. 2 ss., perché non dava affatto per scontata che la personalità acquisita con la registrazione dovesse avere natura pubblica. Senza soffermarsi sulla questione data la sua attuale irrilevanza, c’ è un altro nome che vi risuonerà all’orecchio, quello di Gino Giugni che nel 1960, proprio a ridosso della parola fine scritta sull’attuazione dell’art. 39, co. 2 ss., lancia la sua teoria dell’ordinamento intersindacale, traducendo la classica costruzione di Santi Romano in una variante che risente dell’influenza anglosassone. Si è a lungo discusso se nell’intento dell’autore questa teoria volesse avere rilevanza prescrittiva o descrittiva, secondo la mia opinione avrebbe dovuto servire a ricostruire il sistema sindacale come se fosse autonomo e autosufficiente, ma in seguito doveva essere adeguato all’ordinamento statale nel quale era necessario integrarlo. Così a livello di ordinamento intersindacale la contrattazione collettiva era da considerarsi ad efficacia generale, a prescindere dalla sua efficacia effettiva, mentre nell’ordinamento statale rimaneva riservata agli iscritti alle parti stipulanti, sì da richiedere di essere prevista dalla legge.
Solo che, a quanto già rilevato, la legge di attuazione dell’art. 39, co. 2 ss. non è mai intervenuta, né poteva essere bypassata secondo la giurisprudenza costituzionale, che, come visto diede via libera alla legge Vigorelli, ma non alla sua proroga. Tutta l’attenzione si concentrò sull’art. 39, co. 1, di cui Federico Mancini giunse a sottolineare l’incompatibilità coi commi successivi, perché l’affermazione della libertà di organizzazione sindacale precludeva la predeterminazione legislativa o amministrativa o anche collettiva di categorie al cui interno avrebbe dovuto svolgersi la contrattazione. Così intesa quella affermazione minava la stessa base dell’ordinamento intersindacale, ne fosse o meno consapevole l’autore bolognese, dato che anche a rinviare ad un accordo interconfederale “aperto”, questo non avrebbe potuto escludere l’organizzazione che non vi avesse partecipato o aderito.
Il merito principale della teoria di Giugni è stato quello di far studiare il fenomeno sindacale, così come ormai si era consolidato di fatto, ma ciò che qui interessa è la sua sostanziale continuità con la valorizzazione dell’autonomia collettiva fatta da Santoro-Passarelli, di cui rappresenta una evoluzione. Infatti, la base portante era pur sempre costituita dall’autonomia collettiva, ma elevata da una serie di singole vicende ad una unità ordinamentale, con una valorizzazione della parte obbligatoria dei contratti collettivi, funzionale alla loro gestione in termini di continuus bargaining.
Pur assunta come descrittiva la teoria dell’ordinamento intersindacale non era in grado di rappresentare una realtà positiva che si andava modificando proprio in chiusura del decennio ’60, con la fine dell’astensionismo legislativo, cui contribuì lo stesso Giugni come padre dello Statuto dei lavoratori, con quel Titolo III che introduce a favore delle Confederazioni maggiormente rappresentative il diritto a costituire proprie rappresentanze nelle unità produttive, dotandole di una serie di privilegi per permettere loro di operare, con a salvaguardia la previsione di una tutela ad hoc, quale costituita dalla repressione del comportamento antisindacale tenuto dal datore di lavoro. La stagione apertasi nel 1969 all’insegna di quella battezzata come conflittualità permanente lo aveva indotto a rivedere l’effetto del contratto collettivo come mero armistizio che chiudeva un conflitto, ma non impediva certo di poterlo riaprire subito, con la sciopero elevato a mezzo di pressione rispetto allo stesso Governo, nel corso di quella liberalizzazione ad opera di una Corte costituzionale che, dopo aver escluso che gli articoli del codice penale fossero stati abrogati, li utilizzò per legittimarne gli scopi, da quello contrattuale a quello politico-economico al servizio delle riforme necessarie per la realizzazione della eguaglianza sostanziale consacrata dall’art. 3, co. 2 Cost. Da qui la pretesa delle Confederazioni ad una previa consultazione fino al limite di una concertazione sulla politica economico-sociale del Governo, che col protocollo del luglio 1993, così come ripreso e rinforzato dal successivo patto di Natale, avrebbe dovuto essere istituzionalizzata fino a richiederne da qualcuno una sua incorporazione nella Costituzione. Ma la stessa consultazione, per non parlare della concertazione rimase affidata alla alternanza delle maggioranze in quella battezzata come la seconda Repubblica che aperta dall’approvazione di una legge elettorale maggioritaria, non sembra ancora definitivamente chiusa.
2. Se con riguardo al fenomeno sindacale c’era un vuoto che avrebbe dovuto essere riempito da una legge, mancando la quale la dottrina aveva svolto una attività di supplenza, non altrettanto si poteva dire con rispetto al regime del rapporto di lavoro subordinato che trovava nel codice del ’42 la sua nozione fondante e la sua disciplina originaria, poi ripresa, integrata, corretta dalla legislazione successiva, detta speciale perché non codicistica, alluvionale e discontinua, come testimonia qualsiasi raccolta fatta per poterla consultare. Il riferimento è al libro V, Titolo II, Capo I, Sezione II, dei collaboratori dell’imprenditore e Sezione III, Del rapporto di lavoro. All’inizio del corso di diritto del lavoro si usa mettere in evidenza tutte le caratteristiche che sono state curvate secondo l’impostazione corporativa, interclassista e a-conflittuale: la collocazione nel libro V, Del lavoro, dove trovano collocazione sia gli imprenditori individuali e collettivi che i lavoratori subordinati, in una sorta di comune legittimazione all’insegna dell’interesse della produzione; la individuazione del lavoro subordinato in ragione del rapporto non del contratto; la definizione della subordinazione come collaborazione; la chiamata in causa dell’interesse dell’impresa; l’impresa come istituzione gerarchica.
La attualizzazione all’indomani del crollo del corporativismo fu lunga e tormentata, con una contrapposizione fra la teoria contrattualista e la teoria a-contrattualista, che ricollegavano, rispettivamente la nascita del rapporto ad un contratto e all’inserzione nell’impresa. A prevalere è stata la teoria contrattualista valorizzata dallo stesso Santoro-Passarelli non solo come collettiva ma anche individuali, secondo una connessione inscindibile, che vede la autonomia negoziale collettiva trovare la sua base portante proprio in quella individuale. Ravvisare la fonte del rapporto in un contratto di scambio aveva dalla sua più di una ragione, a cominciare dal configurare un conflitto di interessi destinati a trovare un punto di intesa e a finire, per così dire, col caratterizzare la subordinazione come tecnico-funzionale, cioè con una crescente limitazione di qui poteri unilaterali, direttivo e disciplinare, che costituiscono una eccezione rispetto allo stesso diritto privato in quanto precostituiscono a favore del datore di lavoro uno ius variandi ed uno ius poenitendi estranei ai principi dell’immutabilità dell’oggetto e della inammissibilità di un potere sanzionatorio dell’inadempimento esercitabile dal creditore rimasto inadempiuto.
Si è spinto oltre Mattia Persiani con ricondurre al contratto la fonte unica ed esclusiva della organizzazione, vista e ricostruita come attività riconducibile alla relazione fra datore e prestatore e non come entità preesistente, tesi recepita largamente dalla dottrina in quanto intesa come una definitiva condanna delle tesi a-contrattuali, istituzionali o associative. Solo che, costruita come era, su una interpretazione della subordinazione tale da valorizzare il potere direttivo del datore di lavoro, sì da tracciare una linea rigida con il lavoro autonomo, è stata messa in crisi dalla progressiva usura di quel potere, traslato sempre più a favore di una organizzazione capace di curvare autonomamente la prestazione al di fuori della pregressa rigidità di luogo e di tempo, come ben risulta dalla sistematica ricognizione fatta da Marina Brollo nella sua recente relazione al Convegno AIDLASS.
III
La cd privatizzazione del pubblico impiego
1. La seconda tappa assai più recente, legata alla prima da una sorta di filiazione. La ricostruzione del diritto del lavoro in chiave privatistica era destinata ad esercitare una forte forza attrattiva rispetto alla disciplina del rapporto di impiego dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, rimasta pubblica, anche dopo l’apertura sulla contrattazione collettiva all’inizio del decennio ’80, con la prevista ricezione leggi regionali e in decreti presidenziali degli accordi raggiunti con le organizzazioni sindacali. La svolta avvenne nel corso del decennio ’90, con due leggi delega e relativa decretazione delegata, con una revisione delle fonti, equiparate a quelle del rapporto di lavoro privato, se pure con la vistosa eccezione costituita dalla disciplina della rappresentatività e della contrattazione efficace erga omnes, nonché dalla regolamentazione della dirigenza ispirata dall’immaginare una spirale virtuosa fra autonomia e responsabilità.
Trenta anni sarebbero già molti se si trattasse di fare i conti con l’attuazione di una riforma rimasta sostanzialmente immodificata, ma così non è, tanto che in una ricostruzione diacronica offertane da un manuale specialistico di cui sono stato co-autore, ne ha individuate ben quattro tappe centrali (battezzate coi nomi di Amato, Bassanini, Brunetta, Madia) più due intermedie, riflesse nella stratificazione alluvionale del d.lgs. n. 165/2001, elevato a Testo unico sul pubblico impiego. Tupi, acronimo adottato già dal gruppo di esperti incaricati della sua prima redazione come un diminutivo, quasi a voler sottolineare il fatto che l’incarico ricevuto era ben lungi dal metter mano ad un Testo unico vero e proprio, essendo limitato ad un semplice assemblaggio nel corpo del D. lgs. n. 29/1993 della successiva decretazione delegata del decennio ’90. Ne fu motivo il rifiuto confederale a qualsiasi coordinamento ritenuto tale da poter ridimensionare quanto già ottenuto fino ad allora, ma a costo di rendere più difficile il lavoro di chi fosse chiamato ad interpretarlo.
2.“La privatizzazione del pubblico impiego”, che è poi la denominazione della riforma che ha prevalso, con una prima messa a punto del tutto scontata per gli addetti ai lavori, che, cioè, così si fotografa l’impatto della riforma, ma non il suo esito, perché, a cose fatte, si dovrebbe usare la formula adottata del Tupi, cioè non di impiego pubblico, ma di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni esplicitamente nominate in apertura dello stesso T.u.
Una privatizzazione, questa, che già in partenza deve fare i conti con la convivenza tendenzialmente schizoide fra la natura pubblica del datore e la natura privata del rapporto di lavoro, che la riforma cercherà di risolvere attraverso una distinzione, tanto raffinata teoricamente quanto difficile da effettuare: da una parte la macro-organizzazione, conservata pubblica, dall’altra la micro-organizzazione e la gestione del personale privatizzate.
Che dire di questa privatizzazione a metà? Posso dire, da comparsa impegnata nell’avvio della riforma che, l’espressione “privatizzazione” esprimeva l’intenzione di sottoporre ad una regolamentazione comune, quella della disciplina giuslavoristica, l’intero universo del lavoro subordinato, prestato alle dipendenze sia di una impresa sia di una pubblica amministrazione, cosa chiaramente esplicitata dalla regolamentazione delle fonti. Da esse risulta chiaramente che la normativa civilistica conservava la caratteristica di “generale”, sì da essere resa comune, mentre la normativa del Tupi era ritenuta “speciale”, prevalente solo se prevista esplicitamente come tale, tanto da far supporre che a fronte di una qualche incoerenza fra l’unna e l’altra non risolta debitamente, dovesse prevalere la generale sulla speciale.
Questa intenzione di procedere nella dilatazione della disciplina generale a scapito di quella speciale era del tutto evidente nel passaggio dalla legge delega Amato alla legge delega Bassanini, con a regista Massimo D’Antona; ma trattavasi della limitata conferma di una precisa scelta che si espresse con una risalita a monte della privatizzazione con riguardo sia al personale sia all’organizzazione, venne infatti sottratta alla copertura pubblicistica sia la dirigenza generale sia la micro-organizzazione. Massimo contava sui tempi lunghi, quelli che a lui non furono concessi; ma proprio i tempi lunghi ci avrebbero rivelato qualcosa che volendo dar spazio ad una rimembranza storica fu la stessa che capitò a Cristoforo Colombo che cercando di “buscar el levante per el ponente”, credette di aver trovato le Indie invece che le Americhe, ma pur sempre un continente. Così non ci sarebbe stata una unificazione sia pur tendenziale dell’impiego alle dipendenze sia di una impresa sia di una pubblica amministrazione, ma una sorta di duplicazione, tramite la costruzione di una privatizzazione a misura della pubblica amministrazione, tutt’affatto speciale. Se ne volete una percezione fisica, notate la sempre maggior difficoltà del classico manuale di diritto del lavoro di contenere in un unicum questa doppia privatizzazione, quella generale e quella speciale. Per avere una idea della sua dimensione attuale basta sfogliare una trattazione recente aggirantesi sul migliaio di pagine.
3. Privatizzazione e non contrattualizzazione, eppure le basi della riforma sono state proprie costituite dalla previsione, per l’assunzione, di un contratto individuale di lavoro e, per la regolazione, di un contratto collettivo riconducibile a quello c.d. di diritto comune. Certo, vien subito da aggiungere, facendoli prima passare attraverso una sorta di letto di Procuste, perché il contratto individuale dovrebbe far seguito ad un concorso, rimanendo quasi del tutto privato di qualsiasi contenuto autonomo; mentre il contratto collettivo, è stato imbrigliato in un procedimento estremamente dettagliato, per poterlo dotare di quella efficacia erga omnes estranea al c.d. contratto collettivo di diritto comune per la mancata attuazione dell’art. 39, co. 2 ss. Efficacia, questa, salvata dalla Corte costituzionale, che, facendo di necessità virtù, se l’è cavata con una argomentazione sofistica: deriverebbe direttamente non dal contratto collettivo, ma dall’obbligo ex lege a capo della pubblica amministrazione di rispettarlo.
In effetti la molla che spinse le tre Confederazioni dei lavoratori a pronunciarsi a pro della riforma era proprio la contrattualizzazione riferita al contratto collettivo, per poter recuperare una egemonia regolativa esercitabile sull’intero universo del lavoro subordinato alle dipendenze sia di una impresa privata sia di una pubblica amministrazione. La tesi sostenuta era che la contrattualizzazione si spingesse fin dove arrivava la privatizzazione, per cui essendo stati i c.d. managerial rights privatizzati, cioè equiparati a quelli posseduti da un imprenditore, essi dovevano ritenersi contrattualizzati. Si può osservare che intorno a tali diritti si è manifestata una vivace polemica, superata dalla successiva legislazione che è venuta a blindarne la gestione a capo della dirigenza col porre barriere procedurali e sostanziali alla loro espropriazione da parte della contrattazione collettiva, specie decentrata, non senza l’alternarsi di chiusure e aperture nel passaggio dalla riforma Brunetta alla riforma Madia.
Si può tranquillamente concludere che la privatizzazione c’è stata, ma non conforme all’intenzione originaria di una tendenziale ricomposizione sotto la copertura comune offerta dalla regolamentazione giuslavoristica applicata all’impresa, bensì della costruzione di una privatizzazione speciale. Non solo nell’ambito di questa privatizzazione speciale, iper-regolata, si potrebbe dire burocratizzata, sì che alla fin fine apparsa ad una autorevole dottrina come una ripubblicizzazione che non c’è stata. Ma, certo la ragnatela operativa con cui è risultata avvolta la dirigenza nella riforma Brunetta - come se questa fosse di per sé tale da restituire alla pubblica amministrazione l’efficienza propria di una vera impresa - poteva ben essere vista come una ripubblicizzazione sostanziale, ma sotto forma di una primazia assegnata alla legge. Qui è stata essenziale la predisposizione di quella autentica diga contro una ripubblicizzazione formale costituita dal cambio di giurisdizione, dalla amministrativa all’ordinaria, fino a far pensare alla Suprema Corte, che i conferimenti di incarichi siano non atti amministrativi ma atti negoziali, proprio perché rimessi alla giurisdizione ordinaria.
4. Una volta varato il Tupi, inizia la progressiva divaricazione fra la disciplina generale e quella speciale, che così, con una ulteriore riduzione di quella comune, che oggi può ben dirsi ridotta ai minimi termini. Ci fu, se vogliamo, una duplice ragione, presente fin dall’origine, a cominciare dal dover prevedere una disciplina ritagliata a stretta misura dei due blocchi normativi centrali, come la contrattazione collettiva e la dirigenza, e a finire con una sottovalutazione della diversa ratio sottesa alla politica perseguibile con riguardo al rapporto di lavoro con l’imprese private, e rispettivamente, le amministrazioni pubbliche: tesa la prima a facilitare e la seconda a contenere l’espansione dell’occupazione.
La prima troverà espressione nella valorizzazione della c.d. flexsecurity, con la c.d. flessibilità in entrata, per tramite della moltiplicazione dei tipi contrattuali diversi da quello a tempo indeterminato e ad orario pieno, poi anche per mezzo della c.d. flessibilità in uscita, con la esclusione della reintegra; la seconda troverà manifestazione nella preoccupazione per la spesa sostenuta per il personale, con conseguente blocchi del turn over -peraltro aggirato da una espansione dei rapporti precari disciplinati come eccezionali e temporanei, premessa di successive stabilizzazioni – nonché sospensione della stessa contrattazione collettiva.
Si riprenda in mano l’art. 2, co. 2 del D.lgs. n. 165/2001, per cui “I rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel presente decreto, che costituiscono disposizioni a carattere imperativo”; e co. 3 per cui i “rapporti individuali di lavoro di cui al comma 2 sono regolati contrattualmente. I contratti collettivi sono stipulati secondo i criteri e le modalità previste nel titolo III del presente decreto”. Qui è evidente l’intenzione coltivata, di privilegiare la disciplina generale come comune, ma non senza una punta di ipocrisia rivelatasi sempre più tale col trascorrere del tempo. La regola incardinatavi sembrerebbe quella di rendere la disciplina generale comune in massima parte, quindi automaticamente applicabile anche al lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, mentre la disciplina speciale tagliata a misura di tale rapporto sarebbe eccezionale. Non è stato così, la disciplina generale sarà di volta in volta accompagnata dall’esclusione della sua applicabilità al rapporto di impiego alle dipendenze della pubblica amministrazione esplicita o implicita, totale o parziale, comunque tale da ridurre tale applicabilità a eccezione, mentre la disciplina speciale incorporata nel Tupi diverrà del tutto preponderante sì da connotarsi come regola.
Dunque, il processo legislativo svoltosi nel trentennio, se pur in modo discontinuo, destinato a risentire del colore del Governo in carica, ha contribuito a dilatare enormemente lo spazio occupato dal Tupi, con riguardo allo stesso nocciolo duro del regime del rapporto di lavoro, mi riferisco alla disciplina delle mansioni e del licenziamento disciplinare. A proposito di quest’ultimo appare quasi patetica la querelle ermeneutica circa la sopravvivenza dell’art. 18 per il lavoro privatizzato dato l’ormai fittissimo regolamento introdotto a proposito del licenziamento disciplinare con il mantenimento della reintegra per il personale dirigente e impiegatizio.
Di contro la legislazione relativa al settore privato non è stata considerata applicabile alla legge Biagi, D.lgs. n. 276/2003, destinata a rivoluzionare il rapporto di lavoro del datore privato, al co. 2 dell’art. 1, recita “il presente decreto non trova applicazione per le pubbliche amministrazioni e per il loro personale”. Nonché, nello stesso senso, per citare un testo recente, l’art. 1, co. 3 del D.L. 87/2018 per cui “Le disposizioni del presente articolo, nonché quelle di cui agli articoli 2 e 3, non si applicano ai contratti stipulati dalle pubbliche amministrazioni […] ai quali continuano ad applicarsi le disposizioni vigenti anteriormente alla data di entrata in vigore del presente decreto”.
Qui l’esclusione è esplicita, ma può ben essere implicita, come nella legge Fornero del 2012, che all’art. 1, introduce due commi pasticciati, inseriti all’ultimo momento, per “rimediare in extremis” al fatto di averla pensata e scritta per il rapporto di lavoro privato, senza peraltro introdurre una clausola di esclusione, bensì solo di una “armonizzazione” consegnata al futuro. Così l’art. 1, co. 7 recita “Le disposizioni della presente legge, per quanto da essa non esplicitamente previsto, costituiscono principi per la regolazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001 e successive modificazioni, in coerenza con quanto disposto dall’articolo 2, le previsioni, comma 2 del medesimo decreto legislativo. Restano ferme le previsioni di cui all’articolo 3 del medesimo decreto legislativo”. Solo che non si vede come una disciplina speciale possa trovare i suoi principi e criteri in una disciplina generale su cui prevale in modo imperativo. Ma, a ben guardare, trattasi di una formulazione di copertura, quasi si temesse di lasciare indietro il lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, come si può bene ricavare dalla lettura del successivo comma 8: “Al fine dell’applicazione del comma 7 il Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione, sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche individua e definisce anche mediante iniziative normative, gli atti, i tempi e le modalità di armonizzazione della disciplina relativa ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche”. Qui si incardinò la querelle ermeneutica circa la permanenza in vigore della versione originaria dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori in forza dell’art. 51 co. 2 del Tupi (“La legge 20 maggio 1970, n.300 e successive modificazioni ed integrazioni si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti”), che, evidentemente, essendo già applicabile lo Statuto ai sensi del rinvio operato dall’art. 2, co. 2 del Tupi, riguarda solo l’eliminazione del limite relativo al numero dei dipendenti.
Venendo al Jobs Act, considerato non applicabile di per sé all’impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, aspetto chiaramente deducibile per il d.lgs. n. 23/2015, dedicato al contratto a tutele crescente, dallo stesso testo letterale del suo art. 1, per cui sarebbe applicabile a impiegati, intermedi, operai queste due ultime categorie presenti solo nel rapporto di lavoro del privato.
5. Senza voler affatto esaurire l’argomento del collegamento fra disciplina generale e disciplina speciale, che non conferma l’aspettativa creata dall’ art. 2, co. 2 Tupi di una applicazione immediata della prima, salvo esplicita esclusione contenuta nel Tupi a volte è esclusa, a volte richiamata, a volte data implicitamente per scontata. Il campo più battuto resterebbe ormai quello d.lgs. n. 81/2015, in materia di contratti atipici dove la formula sembrerebbe essere quella dell’applicazione salvo esplicita esclusione, come nei casi delle collaborazioni etero-organizzate del lavoro intermittente, del contratto di somministrazione a tempo determinato, ma non senza richiedere una interpretazione adattiva.
Vi sono poi materie in cui è esplicitamente sancita l’applicabilità ai dipendenti amministrazioni pubbliche, ma sono per così dire neutre con riguardo alla natura dei rapporti di lavoro. Così: il d.gs. n. 81/2008, T.u. salute e sicurezza, art. 3, co. 1 “Il presente decreto si applica a tutti i settori di attività, private e pubbliche, e a tutte le tipologie di rischio”; il D.lgs. n. 104/2022, c.d. decreto trasparenza, art. 1, co. 2, “Il presente decreto si applica altresì ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 2, co. 2 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 e a quelli degli enti pubblici economici”; il D.lgs. 151/2001, sostegno della maternità e della parità, art. 2, comma 1, lett. e “per “lavoratrice” o “lavoratore”, salvo che non sia altrimenti specificato, si intendono i dipendenti […] di amministrazioni pubbliche, di privati datori di lavoro”; il D.lgs. n. 33/2013, anticorruzione, art. 2-bis, co. 1, per “pubbliche amministrazioni si intendono tutte le amministrazioni di cui all’art. 2, comma 2 del decreto 30 marzo 2001, n. 150 e successive modificazioni …”, con individuazione come datore di lavoro del dirigente.
6. A questo punto l’usura della finalità espressa nella disciplina delle fonti, cioè di una tendenziale convergenza su una disciplina comune quale data dalla normativa giuslavorista appare in tutta la sua evidenza: esplicita fin dall’inizio con riguardo alla contrattazione collettiva e alla dirigenza, ma via via emersa dall’inizio del nuovo secolo, per una sostanziale difformità nelle ratio perseguita, rispetto al privato e al pubblico privatizzato, di allargamento dell’occupazione e, rispettivamente, di contenimento della spesa. Il che dovrebbe portare ad una messa a punto del Tupi cui potrebbe cominciare a farsi carico una dottrina come non mai attiva nella progettazione di un nuovo diritto in sintonia col futuro che ci attende, con l’auspicio di trovare un interlocutore nel Ministro della pubblica amministrazione.
Credo, però, che la domanda che la dottrina dovrebbe farsi è se il diritto del lavoro “speciale” si sia ormai emancipato da quello “generale”, cui avrebbe dovuto essere tendenzialmente ricondotto fino a farlo divenire “comune”, tanto da sollecitare l’individuazione di propri principi e criteri. È vero che il citato art. 1, co. 7 della legge Fornero parla di una applicabilità di principi e criteri tratti dalla disciplina generale, per poi subito dopo smentirsi nel co. 8, ma credo che quelli richiamabili per il pubblico impiego privatizzato siano deducibili dal corpo del Tupi, come da ultimo sembra essere convinto il legislatore, laddove il d.lgs. n. 75/2017 (riforma Madia) ha modificato la versione dell’art. 2, co. 2, secondo periodo del Tupi, così come offerta dalla l. n. 150/2009 (riforma Brunetta), per cui ora suona “Eventuali disposizioni di legge, regolamento o statuto, che introducono o che abbiano introdotto discipline dei rapporti di lavoro la cui applicabilità sia limitata ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche, o a categorie di essi, possono essere derogate nelle materie affidate alla contrattazione collettiva ai sensi dell’art. 40, comma 1 nel rispetto dei principi stabiliti dal presente decreto, da successivi contratti o accordi collettivi nazionali e, per la parte derogata non sono ulteriormente applicabili”. È interessante notare come nell’art. 2, primo periodo, nel rinviare alla disciplina generale, si fanno salve “le diverse disposizioni contenute nel presente decreto, che costituiscono disposizioni a carattere imperativo”, mentre nel comma 2, secondo periodo, a compensare l’apertura alla contrattazione collettiva, si richiamano anche i principi deducibili dal Tupi.
Dovendo rischiare a individuarne a qualcuno, senza, peraltro, poterlo argomentare indicherei per primo, per primo quello fondamentale della mancanza dell’effettività, cioè dal prevalere della situazione di fatto maturata, poi quello della stabilità del rapporto a tempo indeterminato, con il licenziamento disciplinare accompagnato, oltre che da una complessa procedura ad hoc, dalla reintegra, e il licenziamento, economico, nella duplice versione individuale e collettiva, sostituiti dalla mobilità e del collocamento in disponibilità; infine quello di rilevanza del costo.
IV
La riforma del titolo V della costituzione
1. La terza tappa è di poco successiva, attivata dalla riforma costituzionale della Parte II, Titolo V, del 2001 ma più con una rivoluzione etichettata come “federativa” per cui l’attribuzione delle materie di competenza legislativa si apriva con l’elencazione di quelle riservate in via esclusiva allo Stato, cui faceva seguito la lista di quelle rimesse alla competenza legislativa di Stato e Regioni, con a chiudere la riserva a favore della competenza legislativa della Regione per le materie non considerate. Ora la questione problematica era costituita da dove collocare la disciplina del contratto e del rapporto di lavoro, sotto la denominazione “ordinamento civile”, inclusa nella elencazione assegnate alla competenza esclusiva dello Stato, ovvero sotto la denominazione di “tutela e sicurezza del lavoro, compresa nella lista della competenza concorrente Stato/Regioni. Naturalmente la posta in gioco era assai elevata, perché si trattava di considerare la normativa sul contratto e rapporto di lavoro come totalmente nazionale oppure passibile di essere almeno in parte derogata a livello regionale. La giurisprudenza costituzionale si è pronunciata a favore della prima scelta, limitando la portata della “tutela e sicurezza del lavoro” alla c.d. politica attiva del mercato, fermo restando che in caso di sovrapposizione di competenze nazionali e regionali, la cosa dovrebbe essere risolta sulla base di una intesa effettuata secondo uno spirito di lealtà, sì da non evitare la possibilità di uno stallo. Vale la pena di sottolineare come questa situazione potrebbe ridarsi in caso di attuazione dell’art. 116 Cost. sull’autonomia differenziata, nella misura in cui potrebbe incidere sui rapporti di lavoro.
2. Al riguardo deve essere richiamata la c.d. riforma Madia, legge delega n. 124/2015, a tutt’oggi l’ultima della serie, cui fece seguito l’emanazione di una decretazione delegata. Ma nel mentre il Governo giungeva ad approvare un decreto legislativo sulla dirigenza, dal difficile percorso formativo, interveniva Corte cost. 251/2016, che pronunciava la illegittimità costituzionale di alcuni articoli della legge delega, a cominciare dall’art. 11 sulla disciplina della concorrenza. Sosteneva la Corte che la materia doveva essere considerata a cavallo fra competenza legislativa statale e regionale. Sicché non sarebbe stato sufficiente il previo parere da parte regionale, ma sarebbe stata necessaria una previa intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni, in effetti non richiesta e non avvenuta. Ora è da ricondurre alla competenza esclusiva della Regione la determinazione dei profili attinenti alle modalità di accesso al lavoro pubblico regionale, fermo restando la natura contrattuale del rapporto instaurato; ciò in quanto verrebbe in rilievo l’organizzazione della Regione, riservata per esclusione alla competenza legislativa esclusiva della stessa.
Peraltro, in altro senso va ricordato, che la Corte costituzionale ha spesso fatto riferimento alla riserva a favore della competenza esclusiva statale in tema di “ordinamento civile” o di coordinamento della finanza pubblica, in vista del controllo della spesa anche con rispetto alla dirigenza regionale.
V
Conclusioni
La passeggiata archeologica è terminata, lasciandovi intravvedere le problematiche lasciate alle spalle dalla deriva privatistica, che si possono rapidamente riassumere come segue:
a) La questione della efficacia erga omnes della contrattazione collettiva, non risolubile attraverso l’attuazione dell’art. 39, co. 2 ss. per ragioni politico sindacale, né bypassabile secondo una soluzione alternativa, preclusa dalla giurisprudenza della Corte costituzionale. C’è qualcosa di più radicale quale la convinzione che lo stesso art. 39, co. 1 sia incompatibile coi commi successivi, perché la libertà di organizzazione sindacale precluderebbe la predeterminazione delle categorie nel cui ambito dovrebbe svolgersi la contrattazione collettiva.
b) La questione della usura del potere direttivo in ragione della crisi della dimensione rigida spazio-tempo, con una attenuazione della distinzione fra lavoro autonomo e subordinato alla luce di un nuovo equilibrio fra contratto e rapporto, con un deciso rilievo acquisito dalla organizzazione preesistente come entità oggettiva.
c) La questione della progressiva divaricazione fra le due normative, del rapporto di lavoro privato e di impiego pubblico, senza, peraltro rimettere in questione la privatizzazione di questo ultimo, con conseguente formazione di un diritto speciale che dovrebbe ritrovare in sé stesso i principi e i criteri fondanti.
d) La questione della competenza legislativa delle Regioni nella stessa area del diritto del lavoro a causa di una giurisprudenza costituzionale che privilegia con riguardo all’individuazione delle materie riservate allo Stato la loro trasversalità e nelle materie attribuite allo Stato-Regioni la collaborazione leale, per cui non sarebbe sufficiente il previo parere ma necessaria una previa intesa nell’ambito della Conferenza Stato-regioni.