testo integrale con note e bibliografia
1.Considerazioni preliminari. La via italiana al salario minimo legale. È sempre più accesa la discussione, in Italia, sull’opportunità di introdurre un meccanismo di salario minimo legale. Alla ripresa della pausa estiva il Parlamento dovrà affrontare la discussione su un progetto di legge in materia, presentato dalle opposizioni, e che unifica precedenti proposte depositate alle Camere fin dalla scorsa legislatura.
Nel dibattito pubblico, sul tema del salario minimo legale, molto spesso, talvolta anche tra gli addetti ai lavori, v’è un eccesso di semplificazione e l’assunzione di posizioni tipiche delle contrapposte tifoserie in un derby calcistico. Tutto ciò rende il dialogo confuso ed impedisce di giungere, attraverso un pacato ragionamento, a soluzioni che, per quanto compromissorie, soddisfino quello che si chiama (o si dovrebbe chiamare) interesse generale.
L’esigenza di un salario minimo legale scaturisce dalla constatazione di un evidente dato empirico. In molte aree del lavoro subordinato è aumentato a dismisura il cosiddetto lavoro povero. E cioè, esistono ampie quote di lavoratori che, pur lavorando, percepiscono retribuzioni estremamente basse, talvolta anche al disotto della soglia della povertà. Questo fenomeno della «povertà nonostante il lavoro» dipende da vari fattori. Anzitutto, prolifera il lavoro sommerso in cui il lavoratore non ha alcun diritto. Poi, dove v’è un’apparente regolarità, molti datori di lavoro applicano contratti collettivi (detti anche pirata o minori), stipulati da soggetti poco o nulla rappresentativi, che prevedono trattamenti economici e normativi meno favorevoli rispetto a quelli contenuti nei contratti collettivi siglati dalle parti sociali più rappresentative. Per giunta, quest’ultimi contratti collettivi, con trattamenti economici e normativi dignitosi, vengono sovente di fatto disapplicati dagli stessi datori. E, purtroppo, vi sono anche alcuni contratti collettivi, pur firmati dai sindacati più rappresentativi, che contengono trattamenti risibili e, in particolare, retribuzioni estremamente basse. Questi contratti hanno un campo di applicazione onnicomprensivo e trasversale (cosiddetto omnibus), non limitato a specifici settori economici: e perciò essi instaurano una concorrenza al ribasso nei confronti dei contratti collettivi, stipulati dalle stesse organizzazioni più rappresentative, e dedicati a determinati settori economici. Gli esempi principali sono quelli del contratto multiservizi e del contratto delle imprese di vigilanza privata e servizi fiduciari che trovano sovente applicazione, lungo la catena degli appalti e dei subappalti in ambito privato, nei perimetri di vigenza dei contratti collettivi di settore: tra cui, in particolare, quelli della logistica, dell’industria alimentare, dell’igiene ambientale. E le clausole retributive del contratto collettivo per i dipendenti delle imprese di vigilanza privata e servizi fiduciari sono state ritenute dalla giurisprudenza prevalente non conformi ai parametri dell’art. 36 Cost. Da ultimo, tale conclusione ha ottenuto, pochi giorni fa, il sostanziale avallo della Suprema Corte con la sentenza n. 27711 del 2023.
In estrema sintesi, quando non opera nel sommerso, un datore di lavoro è, in pratica, libero di scegliere il contratto collettivo da applicare ai propri dipendenti; e, ovviamente, rimane sedotto dalla possibilità di utilizzare un contratto collettivo meno costoso rispetto ad uno più oneroso. È evidente come la presenza di più contratti collettivi, nello stesso settore economico, alteri la concorrenza tra gli operatori, esposti a costi del lavoro differenti, e induce un’irreversibile corsa verso il peggioramento delle condizioni dei lavoratori.
Questa velenosa giungla contrattuale può essere disboscata in due modi. Il primo è quello dell’attuazione dell’art. 39 della Costituzione. Così, il contratto collettivo, sottoscritto dalle coalizioni dei lavoratori e dei datori più rappresentative nei vari settori economici, sarebbe obbligatorio per tutti i singoli datori di lavoro. Ci sarebbe, per ogni ambito di attività economica, un costo del lavoro unico (che non è dato dalle sole retribuzioni, ma anche da tanti altri aspetti del trattamento come le ferie, i permessi, le pause, ecc.).
L’altra soluzione è quella di intervenire solo sulla parte economica, prevedendo, per legge, trattamenti salariali minimi inderogabili. L’idea più concreta, e condivisibile, nonché maggiormente coerente con le tradizioni del sistema italiano di relazioni industriali, nonché recepita in vari progetti di legge fin d’ora presentati in Parlamento, è quella di fissare tali trattamenti minimi attraverso il rinvio alle tariffe dei contratti collettivi siglati dai soggetti più rappresentativi (e qui definiti anche come organizzazioni maggiori), seppure stabilendo un minimo non derogabile al ribasso dalla stessa contrattazione collettiva. Questo progetto (denominato anche come «la via italiana al salario minimo legale»), in apparenza alquanto elementare e razionale, incontra notevoli ostacoli. Beninteso, una parte del mondo delle imprese teme che un congegno siffatto aumenterebbe eccessivamente il costo del lavoro. Una frazione del sindacato è consapevole che una soglia minima salariale legale metterebbe in crisi alcuni suoi prodotti contrattuali che contengono salari poveri. L’attuale governo è di ispirazione prettamente liberista e, nelle sue prime dichiarazioni, ha affermato che tali questioni andrebbero risolte dalla sola contrattazione collettiva.
Tuttavia, secondo le opinioni più accreditate, meccanismi di salario minimo legale, articolati nel modo poc’anzi esposto, avrebbero benefici effetti sull’intero sistema economico. Si eliminerebbe la concorrenza sleale basata sullo sfruttamento del lavoro, i lavoratori avrebbero più denaro da spendere, crescerebbe la domanda di beni e servizi e aumenterebbero gli stessi profitti delle imprese. Insomma, si innescherebbe un circolo virtuoso a vantaggio di tutti. E proprio sulla base di questa consapevolezza, di stampo tipicamente keynesiano, l’Unione Europea ha, di recente, approvato una direttiva sui «salari minimi adeguati» che l’Italia dovrà attuare.
D’altra parte, la suddetta direttiva europea parte dal presupposto che solo un sistema di contrattazione collettiva diffuso, ordinato e genuino sarebbe in grado di garantire l’adeguatezza dei salari e di contrastare il lavoro povero. Il che non si verifica in Italia, laddove è presente un vero e proprio Far West contrattuale e soprattutto una contrattazione collettiva, frutto dell’azione di soggetti poco o nulla rappresentativi, che viene meno alla sua funzione storica di «togliere i salari dalla concorrenza» e che invece innesca forme di competizione salariale (ma anche su tutti gli altri trattamenti) al ribasso.
Pertanto, l’urgenza di intervenire è davanti agli occhi di tutti. Il che rende necessario passare ad esaminare un po’ più nel dettaglio il progetto di legge presentato dalle opposizioni che si muove lungo la seconda linea, poc’anzi esposta; e quindi di intervenire solo sul trattamento economico: e cioè, di fatto attribuendo efficacia generale ai trattamenti economici previsti dai contratti collettivi siglati dalle organizzazioni sindacali dei datori e dei lavoratori comparativamente più rappresentative a livello nazionale (quelle qui definite le organizzazioni maggiori).
2.La struttura della proposta n. 1275. Anzitutto, va detto che la soluzione prescelta dalla proposta di legge n. 1275 non fa altro che estendere (con qualche significativo perfezionamento) a tutti i settori economici il meccanismo di determinazione del salario minimo già operante nel mondo della cooperazione e per altre tipologie di datori di lavoro o di attività (terzo settore, trasporto aereo, contratti pubblici). È importante sottolineare che la disciplina legale del salario minimo per il settore della cooperazione ha trovato l’avallo della Corte costituzionale, nella fondamentale sentenza n. 51/2015, che ha rigettato ogni profilo di contrasto con l’art. 39 Cost. Difatti, la Consulta sostiene che la disposizione censurata «lungi dall’assegnare ai predetti contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, efficacia erga omnes, in contrasto con quanto statuito dall’art. 39 Cost., mediante un recepimento normativo degli stessi, richiama i predetti contratti, e più precisamente i trattamenti economici complessivi minimi ivi previsti, quale parametro esterno di commisurazione, da parte del giudice, nel definire la proporzionalità e la sufficienza del trattamento economico da corrispondere al socio lavoratore, ai sensi dell’art. 36 Cost.». E la stessa Corte aggiunge che «nell’effettuare un rinvio alla fonte collettiva che, meglio di altre, recepisce l’andamento delle dinamiche retributive nei settori in cui operano le società cooperative, l’articolo censurato si propone di contrastare forme di competizione salariale al ribasso, in linea con l’indirizzo giurisprudenziale che, da tempo, ritiene conforme ai requisiti della proporzionalità e della sufficienza (art. 36 Cost.) la retribuzione concordata nei contratti collettivi di lavoro firmati da associazioni comparativamente più rappresentative».
Questo spiega perché, di fronte ad una situazione di indubbia emergenza, è sembrato più agevole, a chi ha a cuore le istanze di tutela del lavoro, generalizzare il congegno già approvato dalla Corte costituzionale, e rinviare ad un momento successivo, quando si saranno realizzate le necessarie condizioni politiche, la pur indispensabile completa attuazione di un vero e proprio sistema di contrattazione collettiva ad efficacia erga omnes, in linea con i principi dell’art. 39 Cost.
Peraltro, la Cassazione, nella sua recentissima sentenza n. 27711/2023, sottolinea che la disciplina legale del salario minimo per la cooperazione «generalizza» (rectius, solo in questo settore), «rendendolo cogente, il meccanismo giurisprudenziale di adeguamento del salario ex art. 36 Cost.».
Sicché, la proposta n. 1275 non fa altro, come s’è già detto, che generalizzare (in questo caso, veramente per tutti i settori) la disciplina legale del salario minimo già operante per la cooperazione e, quindi, di fatto, dà veste legislativa alla giurisprudenza ex art. 36 Cost., nonché razionalizza e integra i molteplici dicta di tale giurisprudenza.
Perciò, la proposta n. 1275, all’art. 2, c. 1, definisce in concreto quale sia la «retribuzione complessiva sufficiente e proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro prestato» che, come afferma l’art. 1, c. 1, «in attuazione dell’art. 36, c. 1, Cost.», «i datori di lavoro sono tenuti a corrispondere ai lavoratori di cui all’art. 2094 c.c.».
Tale nozione di retribuzione, secondo l’art. 2, c. 1, abbraccia «il trattamento economico complessivo, comprensivo del trattamento economico minimo, degli scatti di anzianità, delle mensilità aggiuntive e delle indennità contrattuali fisse e continuative dovute in relazione all’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa, non inferiore, ferme restando le pattuizioni di miglior favore, a quello previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro (Ccnl) in vigore per il settore in cui il datore di lavoro opera e svolge effettivamente la sua attività, stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori comparativamente più rappresentative a livello nazionale». Questa definizione legale di retribuzione minima in attuazione dell’art. 36 Cost. è estremamente importante, perché si attesta al di sopra del cosiddetto «minimo costituzionale» riconosciuto dalla prevalente giurisprudenza ex art. 36 Cost.; che, com’è noto, si limita ai minimi salariali (o minimi tabellari) per qualifica dei contratti collettivi e alla tredicesima mensilità. E, inoltre, una definizione legale di retribuzione così ampia, appunto intesa come trattamento complessivo, avrebbe un’efficace funzione di contrasto al dumping salariale posto in essere dai contratti collettivi pirata o minori. Quest’ultimi, infatti, ormai prevedono minimi tabellari più o meno vicini a quelli dei contratti collettivi delle organizzazioni maggiori, ma abbassano di molto tutte le altre voci retributive. Un classico esempio di ciò è che la cosiddetta quattordicesima non è quasi mai presente nei contratti collettivi pirata o minori al contrario di quanto accadde nei contratti collettivi delle organizzazioni maggiori.
Va sottolineato che, quanto all’individuazione del contratto collettivo nazionale costituente il parametro di riferimento per la determinazione del trattamento complessivo spettante al lavoratore (cosiddetto «contratto collettivo parametro» o contratto leader), l’art. 2, c. 1, della proposta, legifica l’orientamento giurisprudenziale che, in sede di applicazione dell’art. 36 Cost., rivitalizza l’art. 2070 c.c. E, quindi, alla stregua della disposizione appena menzionata, il cosiddetto «contratto collettivo parametro» sarà identificato in quello (siglato dalle organizzazioni maggiori) del settore (economico) corrispondente all’attività effettivamente esercitata dal datore; con ciò prescindendo dall’affiliazione del datore ad un’associazione di un altro settore ovvero dal contratto collettivo applicato in azienda se è diverso dal «contratto collettivo parametro».
L’art. 2, c. 1, ultimo periodo, della proposta n. 1275, introduce una soglia salariale minima inderogabile da parte della stessa contrattazione collettiva, in base alla quale «il trattamento economico minimo orario stabilito dal Ccnl, non può comunque essere inferiore a 9 euro lordi». Lo scopo della disposizione, come s’è accennato, è quello di contrastare i bassi salari che, talvolta, sono contenuti anche in alcuni contratti collettivi siglati dalle organizzazioni maggiori. Sulla esatta definizione di tale soglia la discussione è stata (nella scorsa legislatura) e rimane (nell’attuale legislatura) particolarmente incandescente, per i motivi accennati all’inizio. Ma sull’effettiva necessità di fissare una soglia salariale minima inderogabile adeguata non dovrebbe esserci alcun dubbio. Ciò in forza di una riflessione ancorata alla realtà effettuale e ai dati disponibili che mettono in luce la notevole diffusione delle pratiche di sottosalario, legittimate dalla contrattazione collettiva delle organizzazioni minori e anche, seppure più raramente, delle organizzazioni maggiori.
Va sottolineato che, adottando una previsione siffatta, come quella dell’art. 2, c. 1, ultimo periodo, l’ordinamento italiano si collocherebbe tra quelli dotati, secondo la direttiva europea, di un vero e proprio salario minimo legale. Il che implicherebbe il rispetto di tutta la parte della direttiva che governa le modalità di determinazione ed aggiornamento del salario minimo legale, fornendo a tale proposito alcuni indicatori di riferimento. Di ciò è consapevole il progetto di legge n. 1275 che, all’art. 5, istituisce un’apposita Commissione, con la presenza delle organizzazioni maggiori, «per l’aggiornamento del valore soglia del trattamento economico minimo orario».
È evidente che la proposta n. 1275 rappresenta un chiaro esempio di legislazione di sostegno allo sviluppo e al rafforzamento della contrattazione collettiva; e perciò si muove perfettamente in linea con la citata direttiva europea che ha il suo perno principale nella promozione della contrattazione collettiva. Questo perché tutti gli studi e i documenti preparatori della direttiva dimostrano che nei paesi dove v’è un’ampia diffusione di una genuina contrattazione collettiva in materia salariale, i salari minimi sono più elevati rispetto ai paesi dove esistono solo salari minimi legali.
Per ciò che concerne la specifica situazione italiana, a ben vedere, di fronte all’attuale Far West contrattuale, è del tutto utopistico pensare, come sembra fare il CNEL (con un documento di questi giorni) che il sistema di relazioni industriali riesca a trovare da sé, senza alcun sostegno legislativo, gli anticorpi per debellare il pericoloso virus della competizione al ribasso tra contratti collettivi che da tempo si è insinuato al suo interno.
Particolarmente apprezzabile è che la proposta n. 1275 si pone il problema di assicurare ad alcune figure di lavoratori autonomi la garanzia di un compenso dignitoso. A questo riguardo, la soluzione tecnica è quella di imporre, come soglia minima inderogabile, la retribuzione stabilita nel Ccnl che disciplina mansioni equiparabili svolte dai lavoratori subordinati. Sembra opportuno segnalare che andrebbero coordinati in modo migliore i commi 5 e 6 dell’art. 3. Le due disposizioni disciplinano il compenso minimo rispettivamente dei collaboratori auto-organizzati e quello spettante per la prestazione d’opera manuale o intellettuale (in quest’ultima ipotesi attraverso una novella dell’art. 2225 cc.). Infatti, nel primo caso, il Ccnl di riferimento è costituito (in mancanza di appositi accordi collettivi nazionali specifici per questi lavoratori) dal Cnnl del medesimo settore, ma senza alcun riferimento alla rappresentatività degli agenti negoziali. Mentre, nel secondo caso si rinvia ai contratti collettivi nazionali siglati dalle organizzazioni maggiori, senza alcun criterio di selezione in merito al Ccnl da utilizzare effettivamente.
Altresì significativo è il fatto che, per quanto concerne il lavoro domestico, l’art. 2, c. 2, della proposta, prevede che il rispettivo «trattamento economico minimo orario…è stabilito con regolamento adottato mediante decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali». E anche qui, come nel caso della previsione generale dell’ultimo periodo del c. 1 dell’art. 2, ci si trova di fronte ad un’ipotesi di vero e proprio salario minimo legale alla stregua delle regole della direttiva europea.
3. L’individuazione del «contratto collettivo parametro» in presenza di una pluralità di contratti collettivi applicabili. Il punto più delicato della proposta n. 1275 è laddove si regola l’individuazione del «contratto collettivo parametro» qualora ci si trovi «in presenza di una pluralità di contratti collettivi applicabili ai sensi dell’art. 2».
È noto, infatti, che l’attuale Far West contrattuale è contrassegnato da un accentuato pluralismo contrattuale e cioè dal fatto che, spesso, lo stesso settore di attività economica rientra nel campo di applicazione di più contratti collettivi nazionali. E quindi si assiste ad una concorrenza tra questi contratti. In particolare, la concorrenza si instaura non solo tra contratti collettivi siglati da organizzazioni maggiori e minori; ma, talvolta, anche tra contratti sottoscritti dalle stesse organizzazioni maggiori. Peraltro, sovente, si verifica che gli agenti negoziali minori, per conquistare spazi operativi, creino nuovi contratti collettivi sulla base del ritaglio (sovente alquanto certosino) degli ambiti di applicazione (e cioè delle categorie contrattuali) dei contratti collettivi tradizionali: e così appaiono nuovi contratti collettivi con circoscritte aree di applicazione e dedicati a specifiche attività economiche.
L’art. 3 della proposta, al c. 1, per identificare il «contratto collettivo parametro», in «presenza di una pluralità di contratti collettivi nazionali applicabili ai sensi dell’art. 2», adotta il metodo già sperimentato per il settore della cooperazione, per la determinazione dell’imponibile contributivo minimo e per l’accesso ai benefici contributivi e normativi. Il suddetto contratto è quello «stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria merceologico-produttiva interessata». Tuttavia, va considerato che questo criterio di selezione va coordinato con quello in precedenza già menzionato e contenuto nell’art. 2, c. 1, della proposta. Infatti, l’art. 3 parte dal fatto di essere in presenza di «una pluralità di contratti collettivi nazionali applicabili ai sensi dell’art. 2». E quindi, in prima battuta, va verificato quali siano i contratti applicabili in forza dell’art. 2. Già qui sorge il problema della misurazione della rappresentatività degli agenti negoziali e del disegno del perimetro entro il quale va effettuata la suddetta misurazione. Quanto al perimetro di misurazione della rappresentatività, l’art. 2 della proposta parla di Ccnl «in vigore per il settore in cui il datore di lavoro opera…», siglato da organizzazioni «comparativamente più rappresentative a livello nazionale» tout court. Ciò induce a ritenere che la maggiore rappresentatività comparata di tali organizzazioni vada calcolata sull’intero territorio nazionale, con i metodi già sperimentati sul piano fattuale (ed escogitati dalla giurisprudenza ordinaria ed amministrativa e dalle istituzioni pubbliche), e prescindendo da ogni riferimento al «settore in cui il datore di lavoro opera». Sembra che la disposizione voglia riprendere il criterio selettivo di cui all’abrogata lettera a) dell’art. 19 dello Statuto dei lavoratori. E se fosse così, la maggiore rappresentatività comparata delle anzidette associazioni andrebbe accertata tenendo contro della loro intera struttura associativa: e quindi anche a livello confederale.
Beninteso, una volta effettuata la verifica indicata dall’art. 3, c. 1, qualora dovessero risultare potenzialmente applicabili più contratti collettivi nazionali (pertanto, sempre siglati da organizzazioni maggiori), allora si dovrebbe fare ricorso allo specifico criterio selettivo indicato dallo stesso art. 3, c. 1: cioè, bisognerebbe procedere a scegliere quel contratto collettivo «stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria merceologico-produttiva interessata». In buona sostanza, il coordinamento tra l’art. 2, c. 1, e l’art. 3, c. 1, dovrebbe, inoltre, implicare, da un lato, che la nozione di «settore», di cui parla la prima disposizione, dovrebbe essere più ampia di quella di «categoria merceologica-produttiva interessata», menzionata dall’art. 3, c. 1. E, dall’altro lato, che il cosiddetto conflitto di giurisdizione tra più contratti collettivi si porrebbe solo tra contratti collettivi siglati da organizzazioni comparativamente più rappresentative.
Inoltre, è significativo che il c. 2 dell’art. 3 della proposta sottolinei che «il trattamento economico minimo orario stabilito dal Ccnl non può essere in ogni caso inferiore all’importo previsto al c. 1 dell’art. 2»; che costituisce l’anzidetta soglia salaria minima inderogabile.
La lettura poc’anzi esposta permette, peraltro, di evitare che sorgano forti perplessità circa una esegesi razionale dei successivi c. 3 e 4 dell’art. 3 della proposta. Difatti, secondo il citato c. 3 «in mancanza di contratti collettivi nazionali per il settore di riferimento stipulati dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative a livello nazionale, la retribuzione di cui al c. 1 non può essere complessivamente inferiore a quella stabilita dal Ccnl che disciplina, nel medesimo settore, mansioni equiparabili». E il successivo c. 4 dice che «in mancanza di contratti collettivi nazionali specifici per il settore di riferimento la retribuzione di chi al c. 1 non può essere complessivamente inferiore a quella stabilita dal Ccnl per il settore maggiormente affine a quello di riferimento e che disciplina mansioni equiparabili a quelle svolte nel settore privo di contratti collettivi nazionali specifici».
Orbene, a parte il fatto che è difficilmente configurabile l’assenza, in un determinato settore, di un Ccnl stipulato dalle organizzazioni maggiori, il suddetto c. 3 sembra consentire l’uso, come «contratto collettivo parametro», di un qualunque Ccnl, prescindendo dalla maggiore rappresentatività comparata degli agenti negoziali. Il che non appare affatto logico. Ciò perché così si aprirebbe l’opportunità di mantenere in vita contratti collettivi con trattamenti economici non adeguati.
Da ultimo, infatti, l’importante sentenza della Cassazione n. 27711 del 2023 ha consolidato i principi, elaborati dalla giurisprudenza ex art. 36 Cost, che devono guidare l’applicazione di tale fondamentale norma costituzionale. In primo luogo, secondo la Suprema Corte, «nell’attuazione dell’art. 36 Cost. il giudice, in via preliminare, deve fare riferimento, quali parametri di commisurazione, alla retribuzione stabilita dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria, dalla quale può motivatamente discostarsi, anche ex officio, quando la stessa entri in contrasto con i criteri normativi di proporzionalità e sufficienza della retribuzione dettati dall’art. 36 Cost., anche se il rinvio alla contrattazione collettiva applicabile al caso concreto sia contemplato in una legge, di cui il giudice è tenuto a dare una interpretazione costituzionalmente orientata».
In secondo luogo, il Supremo collegio aggiunge che «ai fini della determinazione del giusto salario minimo costituzionale il giudice può servirsi a fini parametrici del trattamento retributivo stabilito in altri contratti collettivi di settori affini o per mansioni analoghe». In sintesi, in questi casi, il giudice può avvalersi anche di altri contratti collettivi rispetto a quello del settore in cui opera il datore; e questo indipendentemente dal fatto che lo stesso datore applichi o meno quest’ultimo contratto.
È probabile, quindi, che la presenza del c. 3 sia frutto di una vera e propria svista dell’estensore materiale della proposta di legge; anche perché, per risolvere il problema dell’individuazione del «contratto collettivo parametro» nel caso configurato proprio dallo stesso c. 3, basterebbe solo il c. 4, che, come s’è appena visto codificherebbe un preciso orientamento della giurisprudenza ex art. 36 Cost.
Che in alcuni elementi di dettaglio la proposta n. 1275 non sia del tutto lineare è confermato dal fatto che il c. 4 dell’art. 3 parla di Ccnl senza alcuna ulteriore qualificazione; mentre nella relazione alla proposta di legge si afferma che, nell’ipotesi prevista da tale disposizione, «si applica quello sottoscritto dalle associazioni comparativamente più rappresentative che disciplina mansioni equiparabili». È evidente che tale enunciato vada, perciò, riformulato aggiungendo il riferimento alle organizzazioni maggiori come indicato nella relazione illustrativa.
Ad ogni modo, se fosse approvata la suddetta proposta di legge (a seguito delle piccole e opportune integrazioni qui segnalate), per ogni settore troverebbe applicazione (quantomeno riguardo al trattamento economico complessivo), un unico «contratto collettivo parametro». È ovvio, infatti, che così l’unicità del «contratto collettivo parametro» garantirebbe (almeno in parte) la funzione storica della contrattazione collettiva di «sottrarre il costo del lavoro dal gioco della concorrenza»; nonché eviterebbe che la competizione tra le imprese si scarichi sul fattore lavoro. Il che avrebbe particolare importanza lungo la filiera degli appalti e dei subappalti, nel settore privato dell’economia, togliendo ossigeno al fenomeno delle cosiddette esternalizzazioni al ribasso; e quindi a qualunque possibilità di dumping salariale, attraverso l’applicazione (come ora si verifica) di contratti collettivi con costi del lavoro ridotti rispetto a quello dell’impresa leader. E così si diffonderebbe, lungo la catena, un sostanziale principio di parità di trattamento, quantomeno sul piano salariale.
4.Gli strumenti di enforcement pubblico e privato. Conclusioni. Estremamente rilevante è l’art. 6, della proposta n. 1275, dedicato alla «repressione di condotte elusive». Come si legge nella relazione alla proposta «quanto mai importante…è l’esplicito richiamo all’istituto della diffida accertativa di cui all’art. 12 del d.lgs. 23 aprile 2003, n. 124, che segna una vera rivoluzione nella lotta al sottosalario, perché grazie a quanto stabilito agli artt. 1 e 2 della presente proposta di legge diverrà possibile quantificare ex ante il trattamento minimo retributivo cui il lavoratore ha diritto ex art. 36 Cost e, dunque, procedere su base certa al suo recupero in via amministrativa attraverso l’Ispettorato nazionale del lavoro». In altri termini, l’applicazione della diffida accertativa assumerebbe il ruolo di strumento principale per il contrasto delle retribuzioni povere, perché il lavoratore non avrebbe più bisogno di intentare una causa ex art. 36 Cost., bensì si potrebbe limitare a rivolgersi all’Ispettorato del lavoro per ottenere il pagamento del differenziale retributivo calcolato sulla base del contratto collettivo leader.
A questo proposito, se il provvedimento dell’Ispettorato fosse contestato in giudizio, opererebbe comunque, sul piano probatorio, il principio, coniato dalla giurisprudenza quanto alla selezione sia del Ccnl da assumere come riferimento per individuare la retribuzione imponibile ai fini previdenziali sia del Ccnl da utilizzare come parametro per la determinazione del trattamento economico complessivo spettante ai lavoratori, nei casi in cui la legge, per effettuare tali operazioni (come s’è poc’anzi ricordato), rinvii ai prodotti dell’autonomia collettiva qualificata dalla maggiore rappresentatività comparata degli agenti negoziali. Infatti, di recente, la Cassazione, con la pronuncia n. 35796 del 2022, proprio con riferimento alla seconda ipotesi appena citata, ha affermato che «la disposizione individua esattamente il criterio da considerare al fine di individuare la minima retribuzione da attribuire ai soci lavoratori, non inferiore a quella prevista dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali con maggiore rappresentatività a livello nazionale». E, perciò, la Suprema corte ha aggiunto «che il datore di lavoro ha dunque l’obbligo di esatta applicazione del criterio in questione allorché stabilisce la retribuzione da attribuire al socio lavoratore»; e che «conseguenza diretta di tale obbligo è quella di dimostrare, in sede di eventuale contestazione, di aver correttamente adempiuto al dictum normativo e di farlo attraverso la dimostrazione concreta che quello applicato è un trattamento economico non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo stipulato dalla associazione maggiormente rappresentativa» (rectius, comparativamente più rappresentativa, come precisa la legge in materia).
Peraltro, l’art. 6 introduce, come sostanziale valvola di chiusura del sistema, un procedimento giudiziario per la repressione di condotte elusive della normativa in tema di garanzia del trattamento economico complessivo. La relazione alla proposta sottolinea che tali condotte «possono realizzarsi nelle modalità più varie, tra cui, ad esempio, mediante stipulazione di falsi contratti part-time», che mascherano rapporti ad orario pieno; oppure, attraverso forme di costrizione del lavoratore a restituire parte della retribuzione ricevuta. Tale procedimento giudiziario è ricalcato su quello in materia di repressione della condotta antisindacale di cui all’art. 28 dello Statuto dei diritti dei lavoratori che, come sottolinea la relazione (e su questo non v’è alcun dubbio), «ha dato luogo, in decenni, ad ottima prova».
Infine, va rimarcato con forza che l’approvazione di siffatta proposta di legge rappresenterebbe un passo importantissimo per debellare i bassi salari nell’area del lavoro subordinato e il lavoro povero, quantomeno con riferimento alle figure di lavoro autonomo prese in considerazione dal medesimo progetto. Ma è chiaro che occorrerebbe fare di più. Infatti, la garanzia di salari minimi adeguati ed equi costituisce solo un tassello della lotta al drammatico e crescente fenomeno della povertà lavorativa. Perché ciò richiede, come sottolineano gli esperti della materia, una strategia multidimensionale non solo limitata al mercato del lavoro. Per ciò che riguarda quest’ultimo, è comunque necessario affrontare, con decisione, le sue criticità: come la precarietà dei rapporti lavorativi e la discontinuità occupazionale, la sempre più diffusa offerta di lavori a scarsa intensità oraria, come il part-time involontario e le forme di lavoro intermittente.
È indispensabile, pertanto, avviare un grande progetto di riforma del mercato del lavoro che, alla luce dei fondamentali principi della Costituzione, abbia come stella polare il valore centrale della persona che lavora, indipendentemente dallo specifico schema contrattuale utilizzato. Vaste programme? Forse. Ma la forza della ragione e l’ottimismo della volontà inducono a non avere timore di perseguire un progetto di così alto valore ideale. D’altra parte, come disse Franklin Delano Roosevelt, in un famoso discorso, «l’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa».