testo integrale con note e bibliografia

È certamente più facile immaginare l'azienda nell'ottica dell'imprenditore o dell'aziendalista che secondo quella del giurista.
Il termine nel linguaggio corrente è univoco e del tutto sovrapponibili ne sono le definizioni offerte dai vari vocabolari della lingua italiana. Si veda, tra tutti, l'Enciclopedia Treccani, la quale alla relativa voce così recita: "ażiènda s. f. [dallo spagn. ant. hazienda, oggi hacienda, che è, come l’ital. faccenda, il lat. facienda «cose da farsi»]. – 1. In generale, organismo economico composto di persone e di beni rivolti al raggiungimento di uno scopo determinato ..." .
Il termine “azienda” evoca dunque chiaramente, fin dalla sua etimologia, due concetti.
In primo luogo, l'azienda è qualcosa che c'è, ma che non potrebbe essere così qualificata (e quindi come tale esistere) se non ve ne fosse uno specifico utilizzo, ovvero delle "azioni ancora da fare". L'azienda presuppone dunque un'attività dinamica, svolta attraverso la stessa e sulla stessa, con tendenziale trasformazione o consumo dei fattori che la costituiscono.
In secondo luogo l'azienda presuppone che le "cose da farsi" riguardino l'ambito economico e siano realizzate da parte di un soggetto che le "intraprenda", iniziando per l'appunto un' "impresa" (di per sè etimologicamente "difficile" e "rischiosa") al fine di perseguire lo scopo per il quale quell'organizzazione di fattori è stata predisposta.
Ciò a dire che l'azienda è lo strumento di lavoro dell'imprenditore, ovvero “chi esercita professionalmente una attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi” (art. 2082 c.c.).

Anche dal punto di vista aziendalistico il fenomeno appare agli studiosi piuttosto chiaro.
In questa prospettiva, i singoli beni e fattori produttivi che compongono l'azienda, in virtù del legame funzionale che viene loro impresso dall' "essere organizzati" ai "fini produttivi" dall'imprenditore, perdono rilievo atomistico per essere considerati principalmente nel loro complesso.
Nel fenomeno aziendale, tuttavia, v'è qualcosa di più, ovvero il particolare vincolo di destinazione impresso ai beni; i beni sono organizzati all'esclusivo scopo di esercitare un'attività in ambito economico finalizzata alla produzione di ricchezza nel mercato. Sicchè, la natura dell'azienda dipende non tanto dalla semplice addizione dei singoli fattori che debbono essere unitariamente considerati, ma da due ulteriori aspetti: il primo è quello del loro unitario utilizzo secondo un preciso ed esplicito vincolo di destinazione, ed il secondo è quello costituito da quel quid pluris che deriva dall'utilizzo sinergico dei beni secondo tale vincolo di destinazione, che diviene esso stesso parte dell'azienda, ovvero l'avviamento.
Il primo aspetto si riconnette dunque al fatto che l'azienda è lo strumento per l'esercizio dell'attività d'impresa, ovvero l'attività di colui che organizza e poi gestisce i fattori produttivi.
Il secondo aspetto si riconnette al valore aggiunto (l'avviamento) impresso al complesso dei beni dall'attitudine a produrre nuova ricchezza, nuova ricchezza che non sarebbe generata se questi beni fossero sfruttati singolarmente o fossero utilizzati per attività diverse da quelle dell'impresa.
La concreta composizione di quella universitas di beni, a cui è impresso il vincolo di destinazione alla produzione per il mercato di beni o servizi, può essere eterogenea. Possono far parte del complesso aziendale cose mobili ed immobili, materiali ed immateriali, fungibili ed infungibili, crediti, qualsiasi elemento valutabile economicamente. Tratto comune è la sostanziale inscindibilità dei principali fattori senza la disgregazione della potenzialità produttiva, salvo per quelli che possano essere utilizzati, consumati e sostituiti nell'ambito dell'esercizio dell'impresa.
L'azienda potrà anche essere composta da una serie di rami, che, seppur autonomi sotto il profilo dell'organizzazione materiale, non sono tra di loro indipendenti sotto il profilo della gestione, che viene svolta in modo unitario da parte del medesimo imprenditore. Egli esercita in tale ipotesi l'attività d'impresa secondo una visione interdipendente dei diversi rami di azienda, coordinandoli secondo una visione ed uno scopo unitario. Ciascun ramo di azienda si caratterizza per l'autonomia funzionale, essendo isolabile dagli altri rami senza perdere gli elementi materiali essenziali e necessari all'esercizio di quella specifica attività che ne caratterizza la destinazione. Sicchè per l'economista parlare di azienda o di ramo di azienda, al netto del fenomeno della gestione dei rami secondo una strategia ed uno scopo unitario, è la stessa cosa.

Per il giurista la questione è assai più complessa.
Per comprendere tale complessità è necessaria una premessa sulla tecnica legislativa adottata.
Essa procede, secondo il c.d. “metodo logico”, anzitutto con l'individuazione di una "nozione" che non ha mero scopo definitorio, ma rappresenta la pietra di paragone per poter individuare quali fenomeni concreti (detti fattispecie concrete) possano collocarsi all'interno del suo perimetro e quindi essere assoggettati alle norme che in seconda battuta vengono dettate per disciplinare la fattispecie astratta.
Tale nozione, come noto, è dettata identificando con assoluta chiarezza e precisione una serie di elementi definitori. A tal fine nel nostro ordinamento il legislatore procede esaminando le caratteristiche dei vari fenomeni economici per come si presentano nel loro concreto ed articolato declinarsi nella realtà, ed individuando all'esito tra le varie caratteristiche degli stessi, quelle tendenzialmente comuni e di particolare rilievo. Esse identificano così l'esatto perimetro del concetto (fattispecie astratta) che si voglia disciplinare, assumendo ciascuno di esse carattere di "essenzialità" come elementi della nozione.
Sicchè, il legislatore individua una nozione composta da più elementi, ciascuno dei quali deve necessariamente ricorrere nel fenomeno concreto affinchè la fattispecie concreta possa essere ricondotta alla fattispecie astratta attraverso un procedimento sussuntivo. Tali elementi sono stati per l'appunto definiti dalla dottrina "essenziali", e la presenza di ciascuno e tutti nella fattispecie concreta è necessaria affinchè essa possa essere ricondotta alla fattispecie astratta.
L'ordinamento, tuttavia, non trascura completamente altri elementi che ricorrono nei fenomeni concreti in modo statisticamente rilevante, ma che sono stati esclusi dal novero di quelli che compongono la definizione. Poichè il Legislatore tende a consegnare ai soggetti di diritto una disciplina quanto più possibile coerente ed aderente alla realtà da regolare, per farlo tiene conto e valorizza non solo gli indefettibili elementi essenziali, ma anche gli altri aspetti (non utilizzati come elementi definitori della fattispecie astratta), che tuttavia rappresentano il quod plerumque accidit, ricorrendo di frequente in quei fenomeni che possiedono le caratteristiche essenziali della nozione. L'ordinamento contempla dunque anche una serie di norme che trovano la loro ratio in elementi esclusi dalla nozione legislativa, ma statisticamente frequenti nei fenomeni concreti e che la dottrina ha pertanto definito "caratterizzanti" e che arricchiscono gli elementi del concetto in questione, che per tal via si amplia. Tali norme non saranno pertanto di natura derogabile, in ragione del fatto che quegli elementi potrebbero non ricorrere nel caso concreto, e che quindi sia più opportuna la loro disapplicazione/sostituzione con regole più adatte.
Tali premesse teoriche, ampiamente approfondite da taluna dottrina , appaiono necessarie per comprendere il problema che qui si affronta, in quanto il problema della complessità nell'individuare una nozione unitaria di azienda dipende proprio dal fatto che il Legislatore ha indicato nell'ambito delle diverse discipline specialistiche nozioni diverse formate dalla somma di elementi tipologici apparentemente non uniformi.
Da qui la coesistenza nel nostro ordinamento di fattispecie astratte di azienda tra di loro diverse.
Di tale coesistenza da atto, nel dibattito giurisprudenziale e dottrinale, l'evocazione di nozioni "commercialistiche" , nozioni "lavoristiche" , nozioni "eurounitarie" , nozioni tributaristiche, e per qualcuno anche “amministrativistiche” di azienda.
Parrebbe dunque che l'ordinamento, nella prospettiva del cd "metodo logico", non abbia individuato un concetto univoco, ma abbia valorizzato nelle diverse discipline elementi essenziali non identici, con la conseguenza di individuare nozioni diverse e per l'effetto diversi perimetri applicativi.
In proposito è indubbiamente vero che, almeno per le prime tre definizioni, gli elementi essenziali contenuti nei riferimenti normativi non non siano identici. Basti l'esame delle norme per chiarirlo.

Quanto alla legislazione giuscommercialistica, l'azienda viene definita dall'art. 2555 c.c. come "il complesso dei beni organizzati dall'imprenditore per l'esercizio dell'impresa" . Il legislatore in questo contesto non sente l'esigenza di definire i concetti di ramo d'azienda e di cessione di azienda, per la quale fa riferimento generico nell'art. 2556 c.c. ai "contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà o il godimento" solo per assoggettare tali contratti all'obbligo di iscrizione nel registro delle imprese. Da tale norma definitoria emergono come elementi essenziali della definizione: a) l'esistenza di una moltiplicità di beni materiali, b) la loro organizzazione in un complesso funzionale, c) il vincolo di destinazione per l'esclusivo esercizio di una attività di impresa, così come definita dall'art. 2082 c.c.
Poichè, come detto, la mancanza di anche di uno solo tra questi elementi comporta l'impossibilità di qualificare un fenomeno come azienda, non vi è dunque azienda senza fattori sufficienti per poter esercitare un'attività economica (e pertanto non vi è azienda se il titolare non possiede e ha organizzato tutti i fattori produttivi necessari); non vi è azienda se i fattori, pur astrattamente sufficienti, non sono organizzati in modo da consentire l'esercizio di un'attività d'impresa, come definita dall'art. 2082 c.c.; non vi è azienda se i beni, pur astrattamente organizzati e sufficienti per l'esercizio di una attività d'impresa, sono utilizzati per attività non imprenditoriali.

A livello giuslavoristico le fonti (art. 2112 c.c., comma quinto, c.c.) definiscono anzitutto in modo diretto il concetto di trasferimento di azienda con riferimento alla disciplina lavoristica applicabile ad esso: ("Ai fini e per gli effetti di cui al presente articolo si intende per trasferimento d'azienda qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella titolarità di un'attività economica organizzata [...], a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base del quale il trasferimento è attuato ivi compresi l'usufrutto o l'affitto di azienda" ). In secondo luogo il medesimo art. 2112, comma quinto, c.c. richiama il concetto di impresa, definendola, rispetto all'art. 2082 c.c., come "attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità", evocando attraverso l'elemento della sua identità pre e post trasferimento un ulteriore aspetto della materiale consistenza. La norma introduce poi nel suo ultimo inciso il concetto di "ramo di azienda", definito come "parte dell'azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento", evocando la necessità che il perimetro della consistenza del ramo di l'azienda (e quindi della azienda) sia necessariamente identificato dall'imprenditore stesso per distinguere i beni aziendali da quelli esclusi da tale vincolo di scopo. In questa prospettiva parrebbe che il legislatore evidenzi come elementi essenziali della definizione di (ramo di) azienda ulteriori elementi, sui quali ci si deve interrogare se non siano comuni anche al generale concetto giuslavoristico, ovvero: a) l'identificazione univoca di quel complesso di beni come facenti parti di un'entità unitaria, sia da parte del cedente che del cessionario, b) l'autonomia dei beni aziendali rispetto a quelli che possono essere destinati ad altre attività.

Le fonti del diritto eurounitario definiscono poi il trasferimento di azienda o ramo di azienda come "trasferimento di un'entità economica che conserva la propria identità, intesa come insieme dei mezzi organizzati al fine di svolgere un'attività economica, sia essa essenziale o accessoria" (art. 1 Dir. 2001/23/CE del Consiglio del 12 marzo 2001, concernente il riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti) . In tale definizione non ricorrono altri elementi propri delle nozioni giuscommercialistiche e giuslavoristiche, ricorrendo solo: a) l'esistenza di una moltiplicità di beni materiali, b) la loro organizzazione in un complesso funzionale, c) il vincolo di destinazione per l'esercizio di una attività economica in genere, specificando che essa possa essere essenziale o accessoria; d) la conservazione dell'identità dell'azienda post cessione.

Vi è poi la definizione di azienda contenuta nella disciplina tributaria, la quale è stata espressamente ritenuta diversa da quella civilistica dalla Cassazione (si veda Sentenza n. 27605 del 28 settembre 2005, depositata il 14 dicembre 2005), la quale ha chiarito come anche laddove il Giudice civile non qualificasse come d' "impresa" una determinata attività (quindi escludendo la qualifica dei beni utilizzati per detta attività come beni “aziendali”, l'Amministrazione tributaria può correttamente, ai fini fiscali, considerarla tale, assoggettando il reddito prodotto alle regole del reddito d'impresa . Il legislatore fiscale tende infatti ad ampliare la nozione del Codice Civile per determinare le attività che generano quella particolare tipologia di reddito, detta appunto d'impresa, la cui determinazione e tassazione segue peculiarità specifiche. L'articolo 55 del Tuir esordisce considerando redditi d'impresa quelli derivanti dall'esercizio d'imprese commerciali, ma elencando poi le caratteristiche che fiscalmente le qualificano, così disponendo: "l'esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività indicate nell'articolo 2195 del codice civile e delle attività indicate alle lettere b) e c) del comma 2 dell'articolo 29 che eccedono i limiti ivi stabiliti, anche se non organizzate in forma di impresa". Non rileva dunque l'esistenza di un'organizzazione più o meno complessa o del fatto che lo scopo sia quello di svolgere attività d'impresa. Nell'ambito tributario poi la stessa definizione di “azienda” come sopra individuata non ha una latitudine definitoria stabile, come testimonia molta giurisprudenza ed alcuni recenti atti di prassi dell’Amministrazione finanziaria .

A fronte di indicazioni normative eterogenee e dell'oggettivo conflitto che ne deriva, sul piano interpretativo e applicativo si riscontra una tendenza ad armonizzare le diverse definizioni, semplicemente glissando sugli specifici elementi differenziali o alternativamente presumendo la presenza dei medesimi diversi elementi in tutte le nozioni, secondo una precisa direttrice.
La linea principale è dettata, in ossequio al rango delle fonti, dalla norma eurounitaria, così come interpretata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, ampliando dunque in quella direzione l'ambito dell'attività per la quale l'azienda può configurarsi e glissando, ad esempio, sulla necessità di specifica individuazione dell'azienda da parte delle parti del negozio di trasferimento.
Peraltro, la Corte di Giustizia ha sempre incentrato la sua esegesi sulla nozione di azienda avendo a riferimento le specifiche Direttive di ambito giuslavoristico succedutesi in materia di trasferimento di azienda ed orientate alla tutela dei diritti del lavoratore. E poichè nel tempo le esigenze di tutela del lavoratore si sono modificate al modificarsi delle prassi, anche tale esegesi si è modificata. Ed infatti, se l'esigenza del lavoratore fu dapprima quella di vedere ampliata la nozione di cessione d'azienda (così da garantirsi il mantenimento dell'occupazione e dei propri diritti anche di fronte a ipotesi di cessione dissimulata), successivamente, poichè tale interpretazione aveva dato inizio alla prassi di trasferimenti di azienda simulati e finalizzati ad evitare i tempi ed i rischi di un licenziamento collettivo attraverso la cessione dell'azienda a scatole vuote, l'esigenza del lavoratore divenne quella di evitare la prosecuzione ex lege del rapporto nei confronti di un nuovo soggetto giuridico tramite una lettura restrittiva del dato normativo e quindi della nozione di azienda , al punto che di recente si è parlato di "eterogenesi dei fini" .
L'esperienza di cui sopra dimostra l'opportunità che al medesimo fenomeno sia applicata (o disapplicata) nel suo complesso la disciplina dell'azienda, evitando le conseguenze connesse all'applicazione alla medesima fattispecie concreta di alcune norme (ad esempio tributarie) e la disapplicazione di altre (ad esempio concorsuali), come avvenuto nel caso sopra richiamato.
Per far ciò l'applicazione del c.d. “metodo logico” crea come visto notevoli ostacoli, mentre potrebbe essere interessante sperimentare l'applicazione del cd “metodo tipologico”. Esso riconduce la fattispecie concreta alla fattispecie astratta sulla base del noto criterio di “prevalenza”, ovvero verificando la presenza o meno nella fattispecie concreta della principalità degli elementi che compongono in “concetto” come sopra identificato (somma degli elementi essenziali e di quelli caratterizzanti). Tale approccio è già stato utilizzato in materia giuscommercialistica per identificare il concetto di s.r.l. o di società di persone , nonché in ambito giuslavoristico per identificare la nozione di lavoro subordinato .
Questo approccio, sebbene in modo non espresso, emerge anche in alcune pronunce in materia di azienda .
Tale metodo ci porta ad accantonare, almeno provvisoriamente, il piano della definizione normativa e l'individuazione dei (diversi) elementi definitori che la compongono per verificare l'applicazione della disciplina connessa a quella nozione alla fattispecie concreta.
L'applicabilità della disciplina secondo il metodo tipologico dipenderà invece dalla presenza nella fattispecie concreta di un significativo numero di elementi che compongono il concetto così come individuato dal legislatore sulla base sia degli elementi essenziali che di quelli caratterizzanti, senza che la mancanza di un elemento c.d. “essenziale” impedisca l'applicazione (quantomeno analogica) della disciplina dell'azienda a quel fenomeno.
In questa prospettiva dovrà considerarsi “azienda”, o fenomeno riconducibile a quello di azienda, ogni fattispecie concreta nella quale siano presenti in modo prevalente gli elementi descrittivi del concetto aziendale rispetto ad elementi propri di altri fenomeni (e quindi concetti).
Al fine dell'applicazione della disciplina della azienda (relativa ai diversi settori), non si tratterà dunque più di verificare la presenza nella fattispecie concreta di TUTTI gli elementi della (o delle) nozioni legislative, ma, sulla base del complesso degli elementi che descrivono il fenomeno aziendale sulla base del quod prerumque accidit, verificare se nella fattispecie concreta ricorra la principalità di tali elementi.
In questa prospettiva l'approccio tipologico consentirebbe l'applicazione della disciplina dell'azienda, del ramo di azienda e del loro trasferimento dettata nei diversi settori a fenomeni che, pur presentando tutti gli elementi essenziali di una o più delle nozioni, non ne presentino alcuni ricorrenti in altre.
In tal modo l'interprete sarà in grado di applicare (o disapplicare) la complessiva disciplina connessa ad una fattispecie astratta in modo più aderente al tipo concreto, e pertanto con maggiore flessibilità, evitando di incorrere in ciò che sopra si definiva come "eterogenesi dei fini" o in soluzioni decisamente aberranti.

Chiarita la premessa teorica, pare interessante richiamare un esempio per comprendere come sia possibile applicare il metodo tipologico, al fine di dare una corretta regolamentazione (non espressamente dettata dal legislatore) al fenomeno della retrocessione dell'azienda affittata in relazione ai debiti esistenti; fenomeno "speculare" rispetto a quello della cessione, intesa come trasferimento della proprietà dell'azienda, espressamente disciplinata dall'art. 2560 c.c..
Sul punto si è assistito ad una recente pronuncia della Cassazione nella quale la Corte, assimilando le nozioni commercialistica e lavoristica di trasferimento di ramo d'azienda -e conseguentemente i relativi effetti-, ha ritenuto applicabile al caso della retrocessione non solo tutta la disciplina lavoristica, ma anche quella giuscommercialistica, che invece è stata espressamente prevista per il (diverso) caso della cessione di azienda.
Com'è noto, una delle differenze più rilevanti sul piano della disciplina tra diritto commerciale e diritto del lavoro riguarda proprio il caso dell'affitto di azienda e della successiva retrocessione.
Se nell'art. 2112 c.c. l'affitto è assimilato ad ogni ipotesi di trasferimento sul piano dei diritti dei lavoratori, così non è nel diritto commerciale rispetto alla generalità dei rapporti, per i quali dottrina e giurisprudenza consolidate escludono la responsabilità dell'affittuario per i debiti contratti dall'affittante, e viceversa, nel caso di retrocessione, ritenendo che la fattispecie esuli da quelle disciplinate dall'art. 2560 c.c. .
La Corte di Cassazione con la sentenza del 9 ottobre 2017, n. 23581, ha invece stabilito che "A seguito della retrocessione al proprietario dell'azienda affittata, dei meri debiti contratti dall'affittuario - ossia dei debiti non collegati a posizioni contrattuali non ancora definite - risponde, ai sensi dell'art. 2560, comma 2, c.c., anche il proprietario dell'azienda, se essi risultano dai registri contabili obbligatori, realizzandosi un'ipotesi di accollo cumulativo "ex lege" ".
Argomentando le ragioni di tale soluzione interpretativa, che applica l'art. 2560 comma II c.c. anche al caso (non indicato dal legislatore) della retrocessione della azienda affittata, la Cassazione afferma che "questa interpretazione trova conferma nel disposto di cui all'art. 104 bis L. Fall., il quale espressamente esclude che la retrocessione al fallimento di aziende, o rami di aziende, comporti la responsabilità della procedura per i debiti maturati, diversamente da quanto disposto dall'art. 2560 c.c., prevedendo, pertanto, una espressa deroga alla disciplina ordinaria" (Cassazione civile 9 ottobre 2017, n. 23581).
In altre parole la Cassazione, ha applicato la disposizione della Legge Fallimentare a contrario e anche al di fuori dell'ambito giuslavoristico/concorsuale per il quale era stata probabilmente dettata.
Sicchè, per gli effetti del principio sostenuto, l'imprenditore che abbia concesso in affitto un'azienda, poi riconsegnata dal conduttore per qualsivoglia ragione (si pensi al caso di risoluzione del contratto di affitto per inadempimento o addirittura intervenuto fallimento del conduttore), dovrà rispondere in solido con il conduttore per i debiti che egli ha contratto nel corso dell'affitto.
Ciò, come si immagina, dovrebbe implicare, prima della stipula dell'affitto, una verifica da parte dell'imprenditore sulle capacità professionali del conduttore, nonché significativi poteri di controllo ed intervento sull'attività del conduttore affinchè la responsabilità solidale del proprietario non si riconduca ad una mera responsabilità oggettiva da posizione, escludendo la rilevanza della colpa.
La dottrina, come c'era da aspettarsi, a fronte delle abnormi conseguenze applicative del principio di diritto, ha ampiamente criticato la decisione , giungendo ad affermare che il consolidarsi del nuovo orientamento "porterebbe ad una sostanziale inutilizzabilità di detto contratto quale strumento di risanamento dell'impresa in crisi, in aperto contrasto con la prassi sino ad oggi invalsa e l'intento del legislatore" . Tale critica è stata sostenuta, oltre per il fatto che l'art. 2560 c.c. è dettato espressamente per la sola cessione dell'azienda (e in ragione della specifica ratio di tutela dei creditori), anche argomentando a contrario attraverso il richiamo all'art. 2558 c.c.. Detta norma (interna al sistema del codice) in materia di cessione dei contratti, si applica infatti per il caso di affitto di azienda in ragione di un espresso richiamo , a differenza del successivo art. 2560 c.c., che nulla dice al proposito.
Tali argomentazioni interpretative paiono tuttavia non risolutive.
Risolutiva potrebbe invece essere la ricostruzione tipologica del fenomeno. L'individuazione del concetto di azienda in questa prospettiva condurrebbe infatti dell'inapplicabilità dell'art. 2560 c.c. alla retrocessione di azienda data in godimento in tutte le ipotesi in cui la retrocessione riguardasse un complesso di fattori produttivi che non fosse più un'entità adeguatamente strutturata e patrimonializzata, pienamente organizzata al fine di poter consentire lo svolgimento efficiente dell'attività d'impresa.
A concorrere alla verifica della sussistenza di questa fattispecie nel caso concreto si aggiungerebbero infatti agli elementi propri della definizione di cui all'art. 2555 c.c. anche quello dell'art. 2112 c.c. relativo alla conservazione nel trasferimento della propria identità, nonché quello eurunitario della sussistenza di un “complesso funzionale”. In questo caso, la solidarietà per le obbligazioni assunte dal conduttore sarebbe di per sé sterilizzata dal fatto che, anche al netto di tali obbligazioni, l'azienda dovrebbe mantenere la propria funzionalità ed identità (e quindi un patrimonio netto attivo), riducendo la questione della solidarietà delle obbligazioni ad una tutela dei creditori adeguatamente controbilanciata dalla tutela del proprietario nei diritti verso l'affittuario. Sicchè la solidarietà si potrebbe al limite applicaree solo laddove il conduttore sia stato in grado di retrocedere un'azienda che, al netto delle passività, conservi la medesima identità dell'azienda a suo tempo oggetto di affitto.
Sull'applicazione dell'art. 2112 c.c. alla retrocessione dell'azienda affittata si è già espressa una consolidata giurisprudenza del lavoro, che ne ha elaborato taluni limiti analoghi a quelli sopra indicati rispetto ai rapporti con i creditori. Ci si riferisce in particolare alla giurisprudenza di legittimità, secondo la quale: ”Gli effetti dell'art. 2112 c.c., che regola i rapporti di lavoro in caso di trasferimento d'azienda, si applicano anche nell'ipotesi di retrocessione dell'azienda affittata, nel senso che il cedente assume, a sua volta, gli obblighi di mantenimento dell'occupazione derivanti dalla predetta norma, ma ciò presuppone che l'impresa retrocessionaria (cioè originariamente cedente) prosegua, mediante la immutata organizzazione dei beni aziendali, l'attività già esercitata in precedenza, vanificandosi, altrimenti, l'intento perseguito dal legislatore [grassetto ndr]” .
Tale giurisprudenza subordina dunque in ultima analisi l'effetto della successione nei rapporti di lavoro all'effettiva sussistenza al momento della retrocessione di una "azienda" secondo la nozione giuslavoristica, ovvero una realtà in grado di funzionare, sia sotto il profilo della integrità dei fattori produttivi, sia sotto il profilo della integrità finanziaria.
Ciò che esclude la continuità del rapporto di lavoro, escluderebbe a maggior ragione la solidarietà nei debiti pregressi del titolare dell'azienda nel caso di retrocessione di aziende dove i fattori della produzione sono stati, per le più diverse ragioni, disgregati o l'organizzazione dei fattori della produzione, anche finanziari, non sia più in grado di sostenere l'attività d'impresa.
A questo fenomeno si potrebbero ricondurre tutte le realtà dove, a livello tipologico, siano venuti meno la principalità degli elementi caratterizzanti il fenomeno aziendale, ed alle quali i generali principi della disciplina della azienda non possano più essere applicati .

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