testo integrale con tabelle, note e bibliografia
Minimum wages in times of high inflation
I. Introduzione
Negli ultimi anni si è registrato un crescente interesse per i salari minimi legali a livello europeo e internazionale. La Germania e il Sud Africa hanno introdotto salari minimi rispettivamente nel 2015 e nel 2019, mentre nel 2022 l'Unione Europea ha approvato una nuova direttiva per promuovere salari minimi adeguati e migliorare l'accesso dei lavoratori alla protezione dei salari. Inoltre, anche prima della recente impennata dell'inflazione, molti Paesi dell'OCSE, come l'Ungheria, la Corea, la Spagna e il Regno Unito, nonché diversi Stati e città degli Stati Uniti, hanno aumentato significativamente i loro salari minimi. Storicamente, i salari minimi sono stati giustificati come misura per: i) garantire un'equa retribuzione; ii) controbilanciare gli effetti negativi del potere delle imprese sul mercato del lavoro; iii) rendere il lavoro proficuo; iv) incrementare il gettito fiscale e/o la conformità fiscale limitando la portata della sottodichiarazione dei salari.
In Italia, il tema del salario minimo è in discussione da almeno due decenni. Il tema, però, ha preso definitivamente piede nel dibattito pubblico (seppure a fasi alterne) a partire dal 2014 con l’inserimento nella legge delega del Jobs Act di un riferimento all’introduzione, in via sperimentale, di un “compenso orario minimo” limitato ai “settori non regolati da contratti collettivi”. Una formulazione che avrà molto fortuna nel dibattito perché appare come l’uovo di Colombo per introdurre lo strumento senza andare allo scontro con le parti sociali che restano opposte all’idea, ma come evidenziato fin da subito da numerosi commentatori, si tratta diuna formulazione ambigua che, infatti, non sarà attuata. Recentemente il tema è tornato in maniera prepotente nell’agenda parlamentare con la proposta dei partiti di opposizione di fissare un salario minimo a 9 euro all’ora.
In questo articolo, discutiamo prima il possibile impatto di un salario minimo a 9 euro sulla struttura salariale italiana per poi passare a discutere la presunta incompatibilità tra salario minimo per legge e contrattazione collettiva. In conclusione, proponiamo un metodo per fissare la cifra in linea con le migliori esperienze in altri paesi.
II. Il possibile impatto di un salario minimo a 9 euro sulla struttura salariale italiana
Per studiare quale possano essere le conseguenze dell’introduzione di un salario minimo fissato a 9 euro sulla struttura salariale italiana è necessario innanzitutto capire come la proposta si relazioni ai contratti collettivi vigenti e alla retribuzioni effettivamente erogate.
In particolare, il primo punto da chiarire è se 9 euro rappresentino di più o di meno di quanto oggi offrano i principali CCNL. Gli studi disponibili al riguardo sono pochi e non univoci. E il risultato dipende dal considerare il TEM (Trattamento Economico Minimo) dei contratti, cioè il minimo tabellare oppure il TEC (Trattamento Economico Complessivo), cioè il minimo tabellare aumentato del tfr e tredicesima.
Bisogna qui subito specificare che già la scelta di far riferimento al TEM o al TEC dei contratti è indice di come si interpreta la funzione del salario minimo legale. L’esperienza internazionale vorrebbe che il salario minimo legale fosse rapportato al TEM tanto è vero che il salario minimo dovrebbe innanzitutto essere applicato a chi non è coperto dai contratti collettivi o ha lavori o ore talmente saltuarie da non essere coperto da 13esima e TFR. Tuttavia chi oggi (ma non ieri, tempo in cui tutte le parti erano d’accordo nel confinare il salario minimo ai margini della contrattazione collettiva) intende il salario minimo come un modo per alzare il livello di retribuzione dei contratti collettivi si rapporta al TEC.
Damiano e Rotondi (2023) , analizzando i 154 CCNL delle principali categorie del settore privato, ricavano i minimi retributivi (TEM = paga base + contingenza) delle categorie più basse dei diversi inquadramenti professionali: il minimo retributivo in 15 CCNL su 154 è superiore a 9 euro, in 47 casi si colloca tra 8 e 9 euro, in 68 casi tra 7 e 8 euro, in 24 casi sotto i 7 euro. Il valore modale si colloca quindi tra 7 e 8 euro. Ovviamente si ottengono risultati diversi se si considera il TEC (TEM + ratei 13a, 14a e Tfr): in tal caso sono assai numerosi i CCNL per i quali si osserva il superamento della soglia dei 9 euro.
La Fondazione Studi dei Consulenti del Lavoro (2023) ha presentato una ricognizione su 61 CCNL particolarmente importanti per numero di dipendenti interessati (circa il 90%) ma si limita a calcolare il TEC: in 39 casi supera i 9 euro, in 22 casi si colloca al di sotto (superando comunque gli 8 euro in 18 casi).
Lombardo e Tiraboschi (2023) analizzano 11 CCNL tra i più importanti. Il TEC supera i 9 euro in 6 casi su 11. L’analisi del TEM è svolta solo “per i profili bassi più frequenti”: per essi il TEC supera sempre i 9 euro ma il TEM solo in cinque casi su 11. In conclusione sulla base degli studi finora noti, l’impatto di un TEM legale fissato a 9 euro sui minimi tabellari previsti dai CCNL risulta essere sicuramente consistente, interessando moltissimi CCNL.
La seconda questione da chiarire è come 9 euro si relazionino all’effettiva struttura salariale italiana. Al di là delle stime ufficiali sulla copertura dei contratti collettivi, è noto infatti che non vi sia una piena applicazione dei termini stabiliti dai CCNL. In particolare molte aziende dichiarano formalmente il rispetto dei CCNL e pagano i contributi minimi INPS ma poi le buste paga sono in pratica molto più leggere del dovuto per mille ragioni legate alle ore di lavoro o a veri e propri fenomeni illegali.
Per rispondere a questa seconda domanda è necessario individuare il numero di dipendenti per i quali il salario dovrebbe essere immediatamente innalzato - e di quanto - nel caso di introduzione del salario minimo legale. Dai dati INPS sotto la soglia TEM dei 9 euro all’ora si trovano nel 2022 4,2 milioni di dipendenti, pari al 26% del totale (circa 17 milioni di lavoratori): si tratta di 3,3 milioni di dipendenti privati (con addensamenti significativi tra i somministrati e tra i dipendenti di alberghi-ristorazione), quasi 300.00 operai agricoli e oltre 600.000 lavoratori domestici (l’87% di questa categoria). Questa incidenza però variava notevolmente a seconda della diversa intensità occupazionale:
- era pari al 6% (meno di 400.000) tra i dipendenti occupati l’intero anno a tempo pieno;
- saliva al 70% (oltre 3 milioni) per i dipendenti a tempo pieno ma discontinui, quindi con buchi occupazionali nel corso dell’anno;
- arrivava infine all’89% (quasi 5 milioni) tra i lavoratori a part time.
In termini monetari l’incremento della massa salariale dei 4,2 milioni sotto soglia dei 9 euro si aggirerebbe sui 7,6 miliardi di euro (di cui 1,8 miliardi a carico delle famiglie, per il lavoro domestico). Per Istat l’introduzione del reddito minimo comporterebbe un incremento medio annuo di 804 euro per rapporto per un totale di 2,8 miliardi di euro; la retribuzione media annuale dei rapporti interessati risulterebbe incrementata del 14,6%. Si tratta di un impatto nettamente inferiore a quello calcolato da Inps (2023) ma si spiega largamente sia con l’esclusione in Istat di domestici e operai agricoli sia con l’utilizzo di una nozione TEC piuttosto che TEM.
Inoltre, l’introduzione di un salario minimo a 9 euro avrebbe un effetto anche al di là di coloro che sono attualmente pagati meno di quella cifra: il salario minimo, infatti, ha ricadute (in inglese si parla di spillovers) anche a livelli più elevati della distribuzione salariale perché il minimo è utilizzato, formalmente o informalmente, come parametro di riferimento nella negoziazione dei salari collettivi e individuali. La magnitudo degli spillovers varia significativamente nei paesi per cui sono disponibili delle stime e dipende dal livello del salario minimo, dalla distribuzione dei salari e dal peso della contrattazione collettiva. È possibile immaginare che un minimo a 9 euro in un paese come l’Italia in cui la distribuzione salariale (oraria) è relativamente compressa e la contrattazione collettiva pervasiva possa avere effetti di spillovers importanti, coinvolgendo quindi un numero ben più ampio delle stime dei lavoratori attualmente sotto soglia.
In conclusione di questa rapida carrellata delle stime disponibili, è possibile concludere che il valore-soglia di 9 euro (TEM), se adottato, implicherebbe un impatto significativo sia sui minimi tabellari dei CCNL sia sulle retribuzioni effettive, come del resto ovvio se il salario minimo corrisponde a valori attorno al 75% del salario orario mediano (mentre nei paesi OCSE il salario minimo tende a variare tra il 40% e il 60% del mediano).
L’adozione di un salario minimo a 9 euro si configurerebbe, quindi, come un intervento atto a discriminare le posizioni di sfruttamento e, se pienamente applicato, a stroncare le retribuzioni troppo basse, ma anche a modificare sensibilimente la distribuzione salariale attuale.
Questo non significa affatto che il salario minimo non si debba introdurre nell’ordinamento italiano, quanto piuttosto che debba essere fissato ad un livello compatibile con la struttura economica e dei contratti collettivi. Del resto, nei paesi europei in cui è presente, il salario minimo copre sempre una percentuale di lavoratori inferiore al 10%, con le sole eccezioni di Francia e Slovenia.
III. (In)compatibilità tra salario minimo per legge e contrattazione collettiva
Le proposte di introduzione di un salario minimo legale in Italia hanno incontrato fin da subito la resistenza delle parti sociali e di numerosi studiosi i quali temono che esso porti a uno svuotamento della contrattazione collettiva. Il timore è che una volta stabilito un minimo per legge le imprese si limitino a pagare quel minimo, abbandonando il contratto collettivo e tutti gli istituti aggiuntivi ai minimi tabellari che questo garantisce. Oppure che se stabilito a un livello troppo elevato renda inutili i contratti collettivi. Meno presente in Italia, ma forte nel dibattito nei paesi nordici è anche la paura che la fissazione per legge del minimo salariale (come anche l’estensione per legge dei contratti) tolga un incentivo ai lavoratori a sindacalizzarsi (“perché pagare la quota di iscrizione se tanto ci pensa la legge?”), indebolendo il movimento dei lavoratori.
Sono paure che riflettono la natura profonda delle relazioni industriali italiani basata fondata su una bassa e debole regolazione legale per cui l’intervento del legislatore è spesso visto come un’indebita (e potenzialmente dannosa) interferenza nella libertà negoziale delle parti. Tuttavia, in Italia, esistono o sono esistite già varie determinazioni legali del salario, dall’indennità di disponibilità per il lavoro somministrato o intermittente ai c.d. voucher, il cui valore nominale era fissato con decreto del Ministro del lavoro o al libretto di famiglia per i piccoli lavori domestici.
Guardando all’esperienza degli altri paesi, si può dire che dove la contrattazione collettiva è assente o poco sviluppata, un salario minimo per legge è l’unico strumento per i lavoratori con una posizione contrattuale debole (Tabella 1). In molti paesi dell’est Europa o del mondo anglosassone dove la contrattazione collettiva è molto debole, solo il minimo per legge garantisce una base salariale inderogabile. All’estremo opposto, nei paesi nordici così come in Austria e Italia, la copertura della contrattazione è ampia a sufficienza per garantire la stragrande maggioranza di lavoratori dipendenti.
Tabella 1 – Copertura dei contratti collettivi e salario minimo legale nei Paesi dell’Unione europea
Copertura dei contratti bassa (<40%) Copertura media (>40%&<80%) Copertura alta (>80%)
Salari minimi nella contrattazione collettiva - Austria, Danimarca, Finlandia, Italia, Svezia
Salario minimo per legge Estonia, Grecia, Irlanda, Lettonia, Lituania, Bulgaria, Ungheria, Polonia, Romania, Rep. Ceca, Slovacchia Cipro, Croazia, Germania, Lussemburgo, Malta, Portogallo, Olanda, Slovenia Belgio, Francia, Spagna
Fonte: elaborazione su dati OECD/AIAS ICTWSS.
Ci sono, tuttavia, una serie di paesi in cui la contrattazione è forte, ma il salario minimo interviene comunque a complemento. In Belgio, Francia, Spagna, ma anche Germania, Portogallo e Olanda, per esempio, convivono una copertura dei contratti collettivi elevata o abbastanza elevata e il salario minimo legale (di valore elevato, almeno relativamente alla distribuzione dei salari, in Francia e Portogallo, più moderato in Belgio, Germania, Spagna e Olanda).
In Belgio, per esempio, i contratti collettivi sono estesi erga omnes e coprono praticamente tutti i lavoratori e il salario minimo, anch’esso negoziato dalle parti, è solo la protezione di ultima istanza e nei fatti copre un numero molto limitato di lavoratori.
Anche in Francia i contratti collettivi coprono praticamente tutti i lavoratori e i contratti collettivi sono estesi per legge con una procedura semi-automatica, ma il salario minimo che è fissato dal governo sulla base di una formula di rivalorizzazione automatica e l’opinione di un gruppo di esperti copre oltre un lavoratore su dieci e ha un forte effetto leva sui minimi tabellari. Nel caso francese, il salario minimo è un traino importante (alcuni dicono troppo importante) per la rinegoziazione dei contratti.
In Olanda dove l’estensione erga omnes è regolata con criteri abbastanza stringenti, invece, il salario minimo segue l’evoluzione dei salari della contrattazione collettiva. Si può dire che rappresenti come in Belgio una rete di protezione di ultima istanza, proteggendo chi esce dalle maglie e andando a rimorchio della contrattazione collettiva.
In Germania, infine, l’estensione erga omnes è ormai una rarità e il salario minimo è stato introdotto per proteggere quei settori dove la negoziazione collettiva non riesce più ad arrivare e, al netto dell’aumento a 12 euro deciso per l’autunno, è lasciato nelle mani di una commissione di parti datoriali e sindacali che come regola informale prende l’andamento dei salari negoziati come riferimento. Anche in questo caso il minimo svolge soprattutto una funzione di protezione per chi de jure o de facto sfugge alla contrattazione. In Germania, la questione è stata oggetto di due studi recenti di ricercatori affini ai sindacati (e quindi, supponiamo, non interessati a minimizzare la questione) : con un mix di metodi quantitativi e qualitativi questi studi sono giunti alla conclusione che “il salario minimo non ha avuto quasi alcun effetto sulla volontà di impegnarsi nella contrattazione collettiva. Anche la copertura della contrattazione collettiva è rimasta inalterata. [...] Al contrario, la contrattazione collettiva è stata spesso fortemente influenzata [dal salario minimo] nella fascia più bassa delle scale salariali e, a seconda del settore, ha portato a una compressione della struttura salariale o ha contribuito a uno spostamento verso l'alto dell'intera griglia salariale”. In Germania, inoltre, Ress e Spohr (2021) trovano un effetto positivo dell’introduzione del salario minimo sul tasso di adesione ai sindacati.
In sostanza, l’esperienza europea suggerisce che un salario minimo per legge non sia necessariamente alternativo o addirittura dannoso per la contrattazione collettiva. I due sistemi possono convivere e, anzi, rafforzarsi a vicenda. A differenza di altri paesi, però, in Italia non esiste un’estensione erga omnes dei contratti e la proliferazione dei CCNL mostra come il sistema di contrattazione collettiva italiano sia già su un crinale stretto. È comprensibile, quindi, che alcune parti sociali e alcuni studiosi chiedano di procedere con prudenza. Nel corso degli anni recenti, sono state diverse le proposte per evitare un intervento ex abrupto.
Come già richiamato, la legge delega del Jobs Act che nel 2014 aveva trovato un compromesso specificando che il salario minimo legale dovesse essere introdotto solo per i lavoratori non coperti dalla contrattazione collettiva. Tuttavia, fin da subito, si era capito che questa formulazione non aveva alcuna valenza pratica. Attraverso l’articolo 36 della Costituzione, tutti i lavoratori dipendenti in Italia sono o possono essere coperti da un contratto o direttamente o indirettamente come riferimento per il giudice. Non a caso, nonostante la delega a legiferare in materia, alla fine non se ne fece niente.
Più recentemente alcune convergenze sono state trovare sulla proposta di estendere l’applicazione dei contratti collettivi principali a tutti i lavoratori del settore in questione (il cosiddetto “erga omnes”). Se tutti i lavoratori dipendenti sono coperti da un contratto collettivo firmato da parti rappresentative, l’esigenza di un minimo per legge è molto limitata. E comunque la possibilità di uscire dai contratti per pagare il minimo non sarebbe più possibile. Questa opzione, però si scontra con alcuni problemi giuridico-politici di non secondaria importanza, quali la definizione di chi sono le parti rappresentative, in particolare tra le parti datoriali, e qual è il perimetro di applicazione dei contratti, cioè quale contratti si applica a chi. E in ogni caso resterebbe il problema di evitare un irrigidimento ulteriore del sistema di negoziazione salariale (e quindi una probabile inefficacia nel proteggere i lavoratori più deboli che in questi anni si è riflesso nel fenomeno dei “contratti pirata”) che non trova (più) alcuno spazio nel dibattito pubblico attuale. Tuttavia, l’erga omnes potrebbe essere utilizzato come strumento temporaneo e circoscritto a pochi settori in attesa dell’introduzione di un minimo di legge. Sempre in Germania, quando fu introdotto il salario minimo, sei settori che avevano salari inferiori al minimo furono coperti nel 2015 con un erga omnes temporaneo al livello inferiore alla soglia del minimo in modo che avessero tempo di adeguarsi.
L’ultima proposta in ordine di tempo, esposta nella Relazione sul lavoro povero che insieme ad altri colleghi uno degli autori di questo articolo ha predisposto nel gennaio 2022 su richiesta del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, è quella di procedere in maniera sperimentale, sia nel caso del salario minimo per legge sia in quello dell’erga omnes. Invece, di cercare la quadratura del cerchio a livello nazionale si potrebbe partire in alcuni limitati settori dove la situazione è particolarmente complessa ed esistono oggettive evidenze di fragilità dei lavoratori. Da tale esperienza si potrebbe poi procedere ad un monitoraggio e valutazione insieme alle parti sociali interessate sul modello di quanto avvenuto in Germania dove, a partire dal 1997, vennero introdotti salari minimi definiti per legge, ma sulla base di un accordo tra le parti, per singoli settori. Si iniziò con le costruzioni e si proseguì su questa strada. Nel caso italiano, la sperimentazione dovrebbe basarsi su un coinvolgimento diretto delle parti sociali, per esempio utilizzando il CNEL come istituzione di coordinamento, dando, però, indicazioni precise sui tempi entro i quali interverrebbe il Ministero in maniera autonoma, se le parti non dovessero arrivare ad un accordo relativamente agli ambiti della sperimentazione.
IV. Conclusioni
In conclusione, sulla base delle esperienze internazionali, appare difficile affermare che salario minimo e contrattazione collettiva siano due strumenti che non possono convivere. Tuttavia, la convivenza dipende dal disegno esatto dei due strumenti e ovviamente dalla soglia di salario minimo prescelta che non deve interferire con i contratti maggiori e deve riguardare una percentuale di lavoratori che non implichi una variazione eccessiva della distribuzione dei salari.
Stante la situazione attuale, la cifra attualmente in discussione implicherebbe un impatto significativo (al rialzo) sia sui minimi tabellari dei CCNL sia sulle retribuzioni effettive. Più che di compatibilità con il sistema di contrattazione collettiva, la domanda che si pone è la sostenibilità economica della cifra proposta per un sistema economico che, a parte la forte ripresa post Covid-19, sembra tornare su un cammino di crescita inferiore a quelli degli altri paesi europei.
Data la complessità tecnica e politica di identificare ex ante, la cifra “giusta”, riteniamo che la definizione della cifra dovrebbe essere il punto di arrivo del processo, dopo una più attenta analisi delle retribuzioni previste dai CCNL ed effettivamente in vigore, e non quello di partenza. E che idealmente la decisione sulla cifra sia affidata ad una commissione composta da rappresentani dei lavoratori, dei datori di lavoro e tecnici indipendenti. Sarebbe, inoltre, consigliabile di cominciare in maniera graduale e, poi, accellerare sulla base di adeguate e dettagliate valutazioni. Il modello delle commissioni indipendenti riscontra un successo crescente nei paesi europei, a partire dai casi scuola di Regno Unito e Germania, ma anche in Francia, Spagna e Grecia.
Le opinioni espresse nell’articolo sono esclusivamente personali.