testo integrale con note e bibliografia

a) La riforma Biagi e Fornero: regole diverse per lo stesso obiettivo

Fra i temi affrontati durante il Festival del Lavoro del 2023 a Bologna, all’interno dell’Aula del Diritto, il primo dibattito ha visto protagonista la riflessione sul ruolo della subordinazione al confronto della tendenza espansiva del diritto del lavoro.
Sui confini principali del lavoro subordinato nel nostro ordinamento, la tradizione della giurisprudenza ha acquisito ormai da tempo un orientamento solido, facilmente riassumibile in una delle massime, come quelle offerte dalla Sentenza della Cass. civ. Sez. lavoro, 11/07/2018, n. 18253, secondo cui “l’elemento essenziale di differenziazione tra lavoro autonomo e lavoro subordinato consiste nel vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, da ricercare in base ad un accertamento esclusivamente compiuto sulle concrete modalità di svolgimento della prestazione lavorativa”. L’impianto del nostro Codice Civile, anche alla luce di tale massima, appare teso a definire i due “generi” principali delle tipologie di lavoro in una dicotomia polarizzata fra lavoro subordinato e lavoro autonomo. In questa ottica, dove finisce una forma di lavoro comincia l’altra, con difficili interazioni e contaminazioni fra forme di lavoro. Parlare di una tendenza espansiva, tuttavia, equivale a individuare un trend diverso rispetto a quello più binario sopra descritto, orientato a una maggiore elasticità nelle definizioni e nelle aree di variabilità che i rapporti di lavoro possono osservare nelle diverse stagioni riformiste. In questo equilibrio risulta difficile non richiamare un documento programmatico per il policy making tutt’oggi fortemente attuale, ovvero il Libro Bianco sul mercato del lavoro in Italia dell’ottobre del 2001. Questo, ripercorrendo le linee guida comunitarie, esortava a tenere in considerazione la crescente diversificazione delle forme di lavoro, invitando a contemplare tipologie contrattuali più flessibili facendo in modo che coloro che lavorano con contratti di tipo flessibile godano di una sicurezza adeguata e di una posizione occupazionale più elevata. La Legge Biagi avrebbe di fatto tradotto questo input alla flessibilità in entrata nel mercato del lavoro, riunendo e codificando le forme di lavoro atipico, specialmente all’interno della famiglia del lavoro subordinato, dall’apprendistato al lavoro ripartito, dal lavoro intermittente a quello a tempo parziale fino alla somministrazione. La tendenza espansiva del lavoro subordinato aveva però già lasciato traccia in quel documento programmatico, ad esempio nell’idea promotrice del lavoro a progetto. Rispetto alle previgenti collaborazioni coordinate e continuative, di fatto prive di una definizione civilistica autonoma, fatte salve quelle ‘satellitari’ seminate nella disciplina della procedura civile (art. 409 c.p.c.) e fiscale (art. 50 T.U.I.R.), l’avvento del Co.co.pro. in questa ottica avrebbe reso cruciale la realizzazione di un progetto con precisi requisiti in termini di quantificazione temporale e qualità della prestazione; l’arrivo del progetto (concretizzato nell’articolo 61 del D.Lgs. 276/2003) avrebbe di fatto avuto l’obiettivo, esplicito, di bonificare il mercato del lavoro dalle collaborazioni coordinate e continuative, fonte, secondo il Libro Bianco, di “abusi frodatori”. Così, l’apparato sanzionatorio, con particolare riferimento all’articolo 69 del D.Lgs. 276/2003, al primo comma svelava quella tendenza espansiva che, senza l'individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase, trasformava i co.co.pro. in rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato ex tunc dalla data di costituzione del rapporto. Il comma 3 della medesima norma, al contempo, nel rispetto della libertà tutelata dall’articolo 41 della nostra Carta Costituzionale, limitava il controllo giudiziale all'accertamento della esistenza del progetto, programma di lavoro o fase, escludendo che in sede giudiziale fossero sindacabili nel merito le valutazioni e scelte tecniche, organizzative o produttive del committente. La tendenza espansiva del rapporto di lavoro subordinato, quindi, in questo particolare dettato della disciplina sanzionatoria veniva arginata direttamente dal legislatore in modo da limitare la ‘materia’ oggetto di verifica in sede giudiziale. L’inserimento nel nostro ordinamento di questa forma di lavoro così peculiare rivela la complessità dell’equilibrio di tutti gli attori (legislatore, prassi amministrativa, dottrina e prassi degli operatori del mercato del lavoro, giurisprudenza) in questi ‘argini’ pur se poderosamente eretti fin dalla norma costitutiva del contratto a progetto. Di particolare valore è la Circolare n. 4 del 29 gennaio 2008 emanata dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali che, rivolgendosi agli organi di vigilanza ministeriali, riesce a sintetizzare i due diversi approcci (“subordinato-centrico” e tertium genus della parasubordinazione) che convivono nel nostro ordinamento. La Circolare infatti premette “fermo restando il costante insegnamento della Corte di Cassazione, secondo cui ogni attività umana è di per sé riconducibile ad una prestazione lavorativa svolta in forma autonoma o subordinata, l'indagine degli organi di vigilanza va incentrata sulla compatibilità delle modalità di esecuzione della prestazione non con il lavoro autonomo tout court, ma con la fattispecie del lavoro coordinato e continuativo nella modalità a progetto, tenendo presente i seguenti indici sintomatici…”. La distinzione binaria fra subordinazione e autonomia diviene quasi la legge di gravitazione universale nella prassi ministeriale muove poi verso i limiti di investigazione posti dall’articolo 69, individuando alcune fattispecie di contratto di per sé considerabili illegittime. In particolare, il progetto descritto contrattualmente “non può totalmente coincidere con l'attività principale o accessoria dell'impresa come risultante dall'oggetto sociale e non può ad essa sovrapporsi ma potrà essere soltanto ad essa funzionalmente correlato […] non può limitarsi a descrivere il mero svolgimento della normale attività produttiva né può consistere nella semplice elencazione del contenuto tipico delle mansioni affidate al collaboratore”. Il Ministero forniva poi un elenco esemplificativo di attività di per sé incompatibili con il lavoro a progetto (i.e. pulizia, baby-sitting, custodia e portierato) deducendo il potere di “ricondurre dette fattispecie nell'ambito del lavoro subordinato ove non sia dimostrato l'elemento essenziale di un’autentica e concreta autonomia nella esecuzione della attività oggetto del contratto”. Queste indicazioni, dapprima unicamente di prassi, saranno tesaurizzate dallo stesso legislatore, in particolare nel 2012, con le modifiche apportate dalla riforma del Mercato del Lavoro operata dal Ministro Fornero al nuovo comma 1 dell’articolo 61 della Legge Biagi. La tendenza espansiva del lavoro subordinato brilla prepotentemente però soprattutto nelle modifiche, sostanziali, apportate all’articolo 63 che registra una vera e propria rivoluzione copernicana: se il metro del compenso del collaboratore era quello (art. 63 c. 1, D.Lgs. 276/2003) dei “compensi normalmente corrisposti per analoghe prestazioni di lavoro autonomo nel luogo di esecuzione del rapporto”, il nuovo tenore letterale della norma cambia drasticamente il paradigma retributivo, stabilendo che il compenso “non può essere inferiore ai minimi stabiliti in modo specifico per ciascun settore di attività, eventualmente articolati per i relativi profili professionali tipici e in ogni caso sulla base dei minimi salariali applicati nel settore medesimo alle mansioni equiparabili svolte dai lavoratori subordinati”. In tempi di dibattito politico fortemente incentrato sul salario minimo, tale modifica normativa (di oltre 10 anni fa) appare indicativa del ruolo principale rivestito dal lavoro subordinato nella metrica salariale e dei compensi, anche nei confronti di una forma contrattuale che civilisticamente resta afferente al lavoro autonomo. Ancora, anche nella disciplina sanzionatoria, l’articolo 69 del decreto legislativo 276 del 2003 al comma 2 aggiungeva alla mancanza del progetto una causa di trasformazione in rapporto di lavoro subordinato filiata rispetto al ruolo delle mansioni dei lavoratori subordinati: la trasformazione si basava sulla presunzione di subordinazione sostanziale per tutti i rapporti dove l’attività del collaboratore venisse svolta con modalità analoghe a quella svolta dai lavoratori dipendenti dell’impresa committente. Solo alcune fonti individuate dalla legge, come la contrattazione collettiva, avrebbero potuto individuare una serie di ‘prestazioni di elevata professionalità’ immuni da questa presunzione. Non va dimenticato come la riforma del 2012 aveva agito anche sulle cd. false partite iva, introducendo nel d.lgs. 276/2003 un ulteriore prova di genuinità del lavoro autonomo all’articolo 69-bis Tale dettato normativo stabiliva che, fatta salva la prova contraria a carico del committente, le prestazioni effettuate da soggetti titolari di partita IVA sarebbero state riqualificate come rapporti di lavoro parasubordinato al ricorrere di almeno due di tre condizioni: (a) se la collaborazione con il medesimo committente avesse avuto una durata complessiva a otto mesi annui per due anni consecutivi; (b) se il corrispettivo maturato da tale collaborazione avesse costituito più dell’80% dei corrispettivi annui complessivamente percepiti dal collaboratore nell’arco di due anni solari consecutivi o (c) se il collaboratore avesse disposto di una postazione fissa di lavoro presso una delle sedi del committente. Le conseguenze, per una partita iva che avesse posseduto almeno due di queste caratteristiche, non si sarebbero fermate alla trasformazione in co.co.pro.: infatti, applicandosi l’intero assetto regolatorio del Dlgs. 276/2003 sarebbe subentrato anche il criterio della presunzione assoluta di subordinazione per le collaborazioni prive della necessaria individuazione di un progetto: un doppio salto ‘mortale’ che conduceva, quindi, al lavoro subordinato vero e proprio.

b) La stagione riformista del Jobs Act e l’inversione della tendenza ‘pluriregolatoria’
L’impianto del D.Lgs. 276/2003 delle collaborazioni coordinate e continuative a progetto era destinato, dopo la stratificazione del governo Monti, a cambiare radicalmente struttura. Infatti, la legge delega alla base dei decreti legislativi del Jobs Act (legge 10 dicembre 2014 n. 183) avrebbe in due incisi nel suo unico articolo, menzionato il contratto di collaborazione coordinata e continuativa, in particolare nel campo delle indennità di disoccupazione e nel salario minimo applicabile, dettando le linee guida “fino al suo superamento”. Ma l’articolo 2 del decreto legislativo sul riordino delle tipologie contrattuali (decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81) più che una vera eliminazione di questa tipologia prevederà un nuovo regime di verifica della sua genuinità. Infatti, la norma stabilisce, nella sua prima versione, che, tranne gli specifici casi evidenziati al comma 2, dal 1° gennaio 2016, ai rapporti di collaborazione che consistano in una prestazione di lavoro esclusivamente personale, continuativa e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente (‘etero-organizzate’), si sarebbe applicata la disciplina del rapporto di lavoro subordinato. Viene meno dunque il più complesso sistema regolatorio legato al progetto, alle sue fasi e alla sua realizzazione cui si armonizzavano gli indici presuntivi della riforma Fornero, ma si introduce un sistema ‘binario’, legato all’esistenza o meno della etero-organizzazione quale modalità di realizzazione della prestazione che inibisce alla radice la genuinità del co.co.co. e determina, ove presente, l’applicazione delle caratteristiche del rapporto di lavoro subordinato. D’altra parte, il presupposto, programmatico, del primo articolo del decreto 81 restava che “il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro”. Questa regola, a mo’ di legge di gravitazione universale, porta a comprendere meglio, forse, la portata applicativa estensiva dell’art. 2 che si arresta solo di fronte a particolari fattispecie, enucleate dal secondo comma (collaborazioni regolamentate negli ambiti dei contratti collettivi nazionali come nel caso della contrattazione collettiva delle scuole private; le collaborazioni delle professioni intellettuali che prevedono l’iscrizione ad ordini e albi; le attività prestate nell’esercizio della loro funzione dai componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società e dai partecipanti a collegi e commissioni o, ancora, le prestazioni di lavoro rese a fini istituzionali in favore delle associazioni e società sportive dilettantistiche. In presenza della etero-organizzazione il personale ispettivo non trasformerebbe tale contratto in un ordinario rapporto di lavoro subordinato, ma si avrebbe un co.co.co. che resta formalmente tale, pur se con applicazione della disciplina del rapporto di lavoro dipendente. Occorrerà attendere la Circolare n. 3/2016 del Ministero del Lavoro per comprendere come la previsione sanzionatoria del comma 1 dell’articolo 2 del d.lgs. 81/2015 si traduca materialmente nell’applicazione di “qualsivoglia istituto, legale o contrattuale (ad es. trattamento retributivo, orario di lavoro, inquadramento previdenziale, tutele avverso i licenziamenti illegittimi ecc.), normalmente applicabile in forza di un rapporto di lavoro subordinato”, comportando anche “l’irrogazione delle sanzioni in materia di collocamento (comunicazioni di assunzione e dichiarazioni di assunzione) i cui obblighi, del resto, attengono anch’essi alla disciplina del rapporto di lavoro subordinato”. Secondo la prassi Ministeriale del 2016, che guida l’azione ispettiva “il legislatore, rispetto alle fattispecie indicate dall’art. 2, comma 1 ha inteso far derivare le medesime conseguenze legate ad una riqualificazione del rapporto, semplificando di fatto l’attività del personale ispettivo che, in tali ipotesi, potrà limitarsi ad accertare la sussistenza di una eterorganizzazione”, quasi a volere significare che le conseguenze finiscono per coincidere con una trasformazione del rapporto, semplificando di fatto l’operato degli organi ispettivi. In realtà, a leggerla con gli occhi di chi traduce le norme in fattispecie concrete , la portata di questo elemento del Jobs Act è molto più determinante di una mera agevolazione nella prassi ispettiva, ma appare quasi introdurre una forma atipica ibrida con un nomen iuris autonomo e una disciplina, non pura, subordinata con anche numerose incertezze a livello applicativo, ad esempio, a livello previdenziale e assicurativo (a un co.co.co. etero organizzato assimilabile a un dirigente del comparto industriale, andrà accesa una posizione presso il fondo di previdenza complementare di settore? E l’assicurazione sanitaria integrativa?). Ma dal 2015 in avanti, la materia si sarebbe rivelata enormemente tormentata. Infatti, sarà una norma (art. 15, lett. a) del cd. Jobs Act del Lavoro Autonomo (L. 81/2017) a novellare l’art. 409 c.p.c. aggiungendo un ulteriore periodo a norma del quale “la collaborazione si intende coordinata quando, nel rispetto delle modalità di coordinamento stabilite di comune accordo dalle parti, il collaboratore organizza autonomamente l'attività lavorativa”. Secondo dottrina , tale ulteriore modifica confermerebbe la volontà del legislatore di sancire la “sopravvivenza” di co.co.co. genuine e dunque al riparo dalla disciplina del lavoro subordinato. Un nuovo esecutivo non potrà che tornare sull’argomento delle collaborazioni, specie dato il diffondersi del fenomeno del lavoro dei cd. riders nel contesto delle consegne di pietanze a domicilio, con numeri destinati ad ingigantirsi, al pari del rilievo mediatico. Così il decreto legge n.101/2019 interviene ancora nel d.lgs. n. 81/2015 all’articolo 2. Sarà previsto che la disciplina del rapporto di lavoro subordinato si applicherà anche ai rapporti che consistono in prestazioni di lavoro "prevalentemente" personali (e non più "esclusivamente" personali). La condotta illegittima si estende in quanto viene meno il riferimento "ai tempi e ai luoghi di lavoro", relativo al modo in cui il committente può organizzare le modalità di esecuzione della prestazione del co.co.co. Come poi chiarito dalla Circolare dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro del 30 ottobre 2020 n. 7, per attivare la disciplina del lavoro subordinato i tre requisiti (personalità prevalente, continuità ed etero-organizzazione) dovranno essere presenti contemporaneamente. Il nuovo comma 1 si arricchisce di una precisazione che ne tradisce la fonte ideologica per il policy-maker: tali regole si applicano anche se le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme, comprese quelle digitali. La Circolare dell’Ispettorato del 2020, nel compiere una ricognizione sulla giurisprudenza apparsa sulla materia, commenta in particolare la sentenza n. 1663/2020 a proposito della portata delle conseguenze dell’applicazione della disciplina del rapporto subordinato ex art. 2 piano dell’individuazione degli istituti del rapporto di lavoro subordinato da applicare, rilevando l’assenza di disposizioni normative esplicite con la conseguenza che deve ritenersi applicabile l’intera disciplina del rapporto di lavoro subordinato con l’unico limite delle disposizioni “ontologicamente incompatibili con le fattispecie da regolare che per definizione non sono comprese nell’ambito dell’art. 2094 cod. civ.”. Il rinvio alla “disciplina del rapporto di lavoro subordinato” secondo l’ispettorato, quindi, va inteso come rinvio alla relativa disciplina legale e contrattuale concretamente applicabile, senza coinvolgere elementi incompatibili in modo genetico con la prestazione di lavoro parasubordinata (sul tema, Martelloni fornisce l’utile e realistico esempio del vincolo di obbedienza, così come quello dell’esercizio del potere disciplinare).

C) Il lavoro sportivo: lo strano caso di presunzione di parasubordinazione

Rispetto al quadro diacronico sopra ricostruito che ha, di fatto, mutato gli strumenti per pervenire a un medesimo fine (ovvero stabilire la prevalenza del rapporto di lavoro subordinato mutuandone la disciplina anche senza mutare la forma scelta dalle parti) non va al contempo trascurata una tendenza, apparentemente opposta, del policy maker in un ambito di attività già presente nell’elenco delle eccezioni dell’art. 2 c. 2 del D.Lgs. 81/2015: il lavoro sportivo dilettantistico. In tempi recenti, la legge n. 86/2019 ha predisposto una vera e propria struttura riformista all’interno del lavoro sportivo nel ns. ordinamento: come sintetizzato da Biasi tale riforma ha sancito “la definitiva entrata del lavoro sportivo all’interno della ‘casa’ del diritto del lavoro ed il suo affrancamento dal polo originario di attrazione del lavoro sportivo”. In particolare, se il decreto legislativo 36/2021 definisce quale lavoratore sportivo l’atleta, l’allenatore, l’istruttore, il direttore tecnico, il direttore sportivo, il preparatore atletico e il direttore di gara, che, senza alcuna distinzione di genere e indipendentemente dal settore professionistico o dilettantistico, esercita l’attività a fronte di un corrispettivo, tale definizione include secondo lo stesso articolo 25 del decreto legislativo 36 citato anche ogni tesserato che svolge, a fronte di un corrispettivo, le mansioni rientranti, sulla base dei regolamenti degli enti affilianti, tra quelle necessarie per lo svolgimento di attività sportiva, con esclusione delle mansioni di carattere amministrativo-gestionale. La norma individua, quindi, il lavoratore sportivo, indipendentemente dal settore professionistico o dilettantistico, se il soggetto è tesserato e svolge a fronte di un corrispettivo le mansioni tipizzate dalla norma centrale o giudicate necessarie dai regolamenti dei singoli enti affiliati. In particolare, è all’interno dell’area del dilettantismo che il decreto legislativo 36, all’articolo 28, introduce una presunzione di lavoro autonomo (al contrario del settore professionistico, dove la presunzione è quella di lavoro subordinato), nella forma della collaborazione coordinata e continuativa. Tale presunzione opera se ricorrono i seguenti requisiti nei confronti dello stesso committente (comma 2): a) la durata delle prestazioni sportive contrattualizzate, anche se a carattere continuativo, non supera le 18 ore settimanali, escluso il tempo dedicato alla partecipazione a manifestazioni sportive; b) le prestazioni oggetto del contratto risultano coordinate sotto il profilo tecnico-sportivo, in osservanza dei regolamenti delle Federazioni sportive nazionali, delle Discipline sportive associate e degli Enti di promozione sportiva.
Va ricordato come il decreto correttivo varato nell’estate del 2023 (decreto legislativo 29 agosto 2023, n. 120) ha innalzato tale limite orario settimanale portandolo a 24 ore per settimana, allargando così ulteriormente l’area di operatività di questa presunzione. Tale presunzione si svela come relativa , quindi valida fino a prova contraria, perdendo efficacia in presenza delle caratteristiche del lavoro subordinato su cui si è aperto questo contributo e che non potrebbero esimere gli organi ispettivi alla riconduzione della forma contrattuale nel lavoro subordinato. La sua ratio, come sintetizzato da Anastasio, appare proprio nel solco dell’intera riforma, ovvero quella di conciliare il vincolo contrattuale lavoristico con la libertà della pratica sportiva. Il sistema di monitoraggio di tale forma contrattuale appare di non poco conto e soprattutto, legato a uno scenario lavoristico di per sé moderno e destinato a continuare a far riflettere. Per potere operare, tale presunzione non si lega soltanto a un metro meramente quantitativo (un numero massimo di ore settimanali) che, in realtà, apparirebbe anche poco fisiologico rispetto alla teorica autonomia del nomen iuris del lavoro autonomo o comunque parasubordinato, ma anche a un sistema di regole solo rimandato dal contratto di lavoro, ovvero quello dei regolamenti degli enti sportivi cui lo sportivo nell’area del dilettantismo deve risultare tesserato. Il monitoraggio di questa ultima condizione (tesseramento e quindi legame oggettivo con una realtà datoriale che riconosce il regolamento, da cui dipendono le modalità di coordinamento) passa attraverso gli adempimenti cui il datore di lavoro sportivo è obbligato, in particolare la comunicazione ai centri per l’impiego dell’instaurazione del rapporto di lavoro (ex art. 9- bis, co. 2 e 2-bis D.Lgs. 510/1996) anche attraverso quella svolta al Registro telematico delle attività sportive dilettantistiche che consentirà così un monitoraggio dei lavoratori tesserati. La presunzione opera, dunque, anche grazie a quelle modalità di coordinamento genuinamente autonome che la L. 81/2017 aveva in modo forse troppo generico descritto come “stabilite di comune accordo dalle parti”, lasciando spazio agli ulteriori interventi che avevano finito di fatto per rendere ancora più complesso il ricorso alla collaborazione coordinata e continuativa.
Alla luce del quadro qui ricostruito, il ruolo della subordinazione nella tendenza espansiva del diritto del lavoro vede, senza ombra di dubbio, una centralità cruciale del rapporto di lavoro subordinato rispetto alla forma ibrida della parasubordinazione, con una tendenza centrifuga verso la subordinazione resa ancora più evidente, ad esempio, dall’incremento progressivo dei costi indiretti dei committenti, ad esempio sotto il profilo della sicurezza sociale, considerando come l’aliquota della Gestione separata per un co.co.co. sia passata dal 10% al 35,03% con un apparentamento sempre più forte rispetto ai costi indiretti del datore di lavoro subordinato. Il mondo del lavoro sportivo e la riforma del settore dilettantistico introducono, in questo quadro, un elemento innovativo nella sua portata: la possibilità di un rovesciamento dei meccanismi di verifica della genuinità di queste forme atipiche dalla regola invasiva dell’art. 2 del D.Lgs. 81/2015 alla presunzione di lavoro autonomo in forma parasubordinata per i lavoratori del dilettantismo. La differenza si gioca non solo sul limite orario (cresciuto di sei ore settimanali, da 18 a 24, in un anno e dunque senza esclusione di possibili nuovi incrementi), ma anche e soprattutto nella presenza di regole certe e oggettive nelle modalità di coordinamento e ricorso a tali figure, oggettivate dai Regolamenti degli enti sportivi, cui le comunicazioni obbligatorie, attraverso il tesseramento, associano il lavoratore sportivo nel dilettantismo. Questo input potrebbe essere tradotto nella necessità di avverare in modo molto più capillare e ramificato quanto a oggi già previsto dall’articolo 2 c. 2 lett. A del Dlgs. 81/2015. I contratti collettivi nazionali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale potrebbero tradurre la necessità, propria specialmente di alcuni settori, di forme genuinamente flessibili di ingresso nel mercato del lavoro, azzerando i comprensibili timori che a oggi qualsiasi datore di lavoro e operatore del mercato del lavoro provano nell’avvicinarsi a una collaborazione coordinata e continuativa. Un segnale latente già nella prima versione del testo unico delle tipologie contrattuali di stimolo alla contrattazione collettiva e che trova rispondenze in molte altre materie del nostro mercato del lavoro, come, in tempi recentissimi, anche nella definizione delle causali di ricorso al contratto a termine grazie alla riforma introdotta dal D.l. 48/2023. Il rimedio all’incertezza, agli abusi, al contenzioso giudiziario e alla necessità di interventi normativi forse anche fin troppi frequenti resterebbe, a parere di chi scrive, la contrattazione collettiva.

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