testo integrale con note e bibliografia

Il tema è stato approfondito ampiamente dalla dottrina che lo ha analizzato nelle sue molteplici sfaccettature . Lo scorso anno, in questa rivista, nel contesto di un ampio dibattito, si è già sostenuta la tesi della necessità di un intervento legislativo che garantisca “salari minimi adeguati”. Non si può che ribadire tale opzione. Lo strumento – beninteso non unico – è comunque strategico nel contrastare il lavoro povero, le disuguaglianze sociali nei confronti di categorie svantaggiate di lavoratori (donne, giovani, migranti, genitori soli, lavoratori scarsamente qualificati, persone con disabilità, persone che subiscono molteplici forme di discriminazione ) e in particolare il gender pay gap, e inoltre consente di realizzare, nei minimi termini, la parità retributiva a parità di lavoro, implicita nell’art. 36 Cost. e di contribuire alla trasparenza retributiva (anche se nel frattempo sono state varate altre importanti normative ). La necessità dell’intervento legislativo si può confermare pur se i calcoli dei lavoratori poveri siano rivisti al ribasso (v. la recente retromarcia dell’INPS nel XXII rapporto annuale) e il lavoro povero dipenda anche dalla scarsa intensità del lavoro. Sarebbe un progresso notevole per il nostro Paese che si aggiungerebbe all’ampia lista degli Stati (quasi tutti quelli europei, 21 su 27, compresi quelli nei quali il contratto collettivo è efficace erga omnes) in cui è presente un sistema di salario minimo adeguato . Tutti hanno diritto – nessuno escluso – ad un lavoro adeguatamente retribuito, se equo “rispetto alla distribuzione salariale dello Stato membro pertinente e se consente un tenore di vita dignitoso ai lavoratori sulla base di un rapporto di lavoro a tempo pieno” .
Il diritto alla retribuzione in ogni caso sufficiente deve garantire la vita libera e dignitosa del lavoratore e della sua famiglia, come recita l’art. 36 Cost.

Si legge – nel dibattito recente, più politico che dottrinale, successivo alla proposta di legge (A.C. n. 1275) dell’opposizione in questa legislatura (XIX) presentata il 4 luglio 2023 – che il sistema sindacale italiano non ha bisogno di interventi legislativi perché è in grado di garantire trattamenti retributivi coerenti con la disposizione costituzionale e che comunque i trattamenti retributivi della contrattazione collettiva, per giurisprudenza, hanno un’applicazione generalizzata verso tutti i datori di lavoro . Si è detto anche che la materia non deve essere oggetto di interventi legislativi perché si mina il fondamento dell’autonomia privata, come se si vivesse in un regime autoritario.
Ma le cose non stanno così.
Sembra paradossale ritenere che il sistema sindacale garantisca tale obiettivo e poi si sottolinei, sopravvalutandolo, l’intervento giudiziario. Se fosse vera la prima, a cosa servirebbe l’intervento giudiziario che estenda erga omnes (ammesso e non concesso!) i trattamenti retributivi dei contratti collettivi?
Le verità sono altre: a) il sistema sindacale non vi riesce autonomamente perché il contratto collettivo non ha efficacia erga omnes; b) non è detto che i contratti collettivi riescano ad assicurare sempre un trattamento retributivo “adeguato”; c) non è vero che la giurisprudenza assicura erga omnes i trattamenti retributivi dei contratti collettivi.
E infine risulta ammissibile un intervento legislativo sulla retribuzione purché si rispetti il ruolo della contrattazione collettiva (la libertà sindacale ex art. 39, co. 1, Cost. che comprende tutte le attività sindacali). Basti ricordare l’art. 3, co. 1, l. n. 142/2001 come modificato dal d.l. n. 248/2007, conv. in l. n. 31/2008, con il quale si è imposto alle società cooperative “di corrispondere al socio lavoratore un trattamento economico complessivo proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato e comunque non inferiore ai minimi previsti, per prestazioni analoghe, dalla contrattazione collettiva nazionale del settore o della categoria affine, ovvero, per i rapporti di lavoro diversi da quello subordinato, in assenza di contratti o accordi collettivi specifici, ai compensi medi in uso per prestazioni analoghe rese in forma di lavoro autonomo”. A cui si aggiunge l’art. 7, co. 4, del d.l. n. 248 del 2007, secondo cui “Fino alla completa attuazione della normativa in materia di socio lavoratore di società cooperative, in presenza di un pluralità di contratti collettivi della medesima categoria, le società cooperative che svolgono attività ricomprese nell'ambito di applicazione di quei contratti di categoria applicano ai propri soci lavoratori, ai sensi dell'articolo 3, comma 1, della l. n. 142 del 2001, i trattamenti economici complessivi non inferiori a quelli dettati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria”. Su tale disposizione è intervenuta la Corte costituzionale (sent. n. 51 del 26 marzo 2015) che respinge la censura di incostituzionalità, perché “la disposizione (…), lungi dall'assegnare ai predetti contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, efficacia erga omnes, in contrasto con quanto statuito dall’art. 39 Cost., mediante un recepimento normativo degli stessi, richiama i predetti contratti, e più precisamente i trattamenti economici complessivi minimi ivi previsti, quale parametro esterno di commisurazione, da parte del giudice, nel definire la proporzionalità e la sufficienza del trattamento economico da corrispondere al socio lavoratore, ai sensi dell’art. 36 Cost.”.

I contratti collettivi nazionali non hanno efficacia erga omnes. Sembra impossibile affermare il contrario. Va anche detto poi che la contrattazione collettiva si è notevolmente ingrossata con la presenza di contratti stipulati da sindacati niente affatto rappresentativi e che fissano retribuzioni molto più basse rispetto a quelli stipulati da sindacati comparativamente più rappresentativi; ma il fenomeno sindacale è caratterizzato anche da contratti scaduti e non rinnovati e da contratti che, seppure stipulati da sindacati rappresentativi, sono considerati, nella parte dei minimi retributivi, con riguardo a determinate qualifiche professionali, al di sotto della soglia di povertà.
Forse un equivoco al riguardo è costituito dal fatto che il nostro sistema contrattuale è considerato avere una copertura dei lavoratori superiore all’80%. Pertanto quest’elemento – nell’immaginario prevalentemente politico – è significativo della superfluità di un intervento legislativo.
Se pure fosse così, in ogni caso ci sarebbe una percentuale di lavoratori non coperti dal contratto collettivo.
Il discorso poi è quello di osservare sia la copertura sostanziale della contrattazione collettiva, essendo necessario verificare a quale platea di lavoratori si applichi effettivamente il contratto, sia le condizioni economiche fissate dal contratto collettivo. Esemplare al riguardo è proprio la vicenda emersa dinnanzi ai giudici milanesi: il contratto collettivo contempla retribuzioni per certe figure professionali al di sotto della soglia di povertà .

È vero che la giurisprudenza compie in materia un’interpretazione creativa per determinare la retribuzione minima. Il meccanismo è noto .
Primo passo: si parte dalla precettività dell’art. 36 Cost. dalla quale si fa derivare la nullità delle clausole dei contratti individuali che non prevedono una retribuzione conforme ai requisiti della proporzionalità e della sufficienza. La nullità è quella “di protezione”, che così impedisce la nullità dell’intero contratto, in quanto si tradurrebbe in danno del soggetto protetto. Secondo passo: s’interpreta estensivamente l’art. 2099 c.c., “ritenendo che tale disposizione, pur affidando al giudice il compito di determinare la retribuzione “in mancanza di accordo tra le parti”, sia applicabile anche all’ipotesi in cui le parti abbiano stipulato un accordo, ma questo sia nullo per ché in contrasto con l’art. 36 Cost.” . Terzo passo: s’individua, in base al potere equitativo conferito dalla disposizione codicistica al giudice, in relazione al singolo rapporto oggetto della controversia, l’importo della retribuzione conforme ai requisiti costituzionali, facendo riferimento alla retribuzione prevista dai contratti collettivi nazionali nel cui perimetro sia riconducibile il rapporto di lavoro in questione, ma tenendo conto che i contratti siano utilizzabili solo come parametri di riferimento e non già come fonti vincolanti (perché non hanno efficacia generale).
In effetti, senza togliere meriti all’operazione giudiziale, la scelta operata dai giudici si è prevalentemente orientata nel privilegiare la proporzionalità rispetto alla sufficienza – su cui si fonda il salario minimo adeguato - perché le retribuzioni previste dai contratti collettivi sono radicate in tale parametro. E poi è emersa una disomogeneità delle soluzioni giudiziarie non essendo i giudici tenuti ad applicare ogni singola voce retributiva del contratto collettivo di lavoro. Quindi in modo prevalente si sono orientati verso la retribuzione base, ma talvolta se ne sono distaccati, facendo riferimento agli scatti di anzianità e alla quattordicesima mensilità o alle condizioni ambientali o alle particolari caratteristiche dell’impresa o del lavoro svolto ovvero ritenendo legittime le riduzioni stabilite dai contratti collettivi territoriali o aziendali. Ad un certo punto poi la giurisprudenza distingue tra retribuzione proporzionata e retribuzione sufficiente, scoprendo che i minimi di alcuni contratti collettivi stipulati da sindacati rappresentativi sono al di sotto della soglia di povertà . Quindi capita che, nel meccanismo giurisprudenziale, è il contratto collettivo applicato, sottoscritto da sindacati sicuramente rappresentativi, in contrasto con l’art. 36 Cost. fissando una retribuzione al di sotto della soglia di povertà, che il giudice ritiene essere idoneo a dimostrare l’insufficienza della retribuzione, e il giudice utilizza come parametro un contratto diverso per corrispondenti livelli di inquadramento.
In definitiva la via giudiziale alla retribuzione sufficiente è improponibile: le sentenze, si sa, non sono efficaci erga omnes, non tutti percorrono la via giudiziale (costosa e lunga), specie in costanza del rapporto di lavoro – e quindi si interviene quando il rapporto è cessato -, e, il giudizio di tipo equitativo ex art. 2099 c.c., è caratterizzato da differenze e disomogeneità su criteri e risultati.

Nel dibattito attuale sembra che la copertura della contrattazione, valutata in Italia superiore all’80%, serva da esimente rispetto a quella parte della Direttiva europea finalizzata a promuovere la contrattazione collettiva allo scopo di perseguire l’obiettivo di determinare i salari e di garantire una retribuzione minima adeguata, che assicuri un tenore di vita dignitoso, strumento di riduzione della povertà lavorativa. Nella direttiva emerge la consapevolezza che non tutti i lavoratori, anche se coperti dalla contrattazione collettiva, ricevano di fatto una retribuzione non inferiore al salario minimo legale a causa dell’inosservanza delle regole vigenti. Perciò la direttiva punta l’attenzione sulla promozione della contrattazione collettiva ma richiede un piano di azione, che sia contrattato anche con le parti sociali, che sia monitorato e riesaminato, per valutarne i risultati, dalla Commissione europea. Forse vi sono due modi diversi d’intendere la copertura. Il primo, di tipo formale, censisce gli ambiti di applicazione scelti dai contratti collettivi; il secondo invece considera il dato fattuale. La direttiva europea fa della copertura una questione sostanziale e non formale. Essa, infatti, stabilisce che ogni Stato membro, “qualora il tasso di copertura della contrattazione collettiva sia inferiore a una soglia dell’80%, prevede un quadro di condizioni favorevoli alla contrattazione collettiva, per legge a seguito della consultazione delle parti sociali o mediante un accordo con queste ultime. Tale Stato membro definisce altresì un piano di azione per programmare la contrattazione collettiva”. La finalità della direttiva è quindi quella di accrescere il grado di competenza della contrattazione collettiva, definendo la copertura come “la percentuale di lavoratori a livello nazionale a cui si applica un contratto collettivo, calcolata come rapporto tra il numero dei lavoratori coperti da contratti collettivi e il numero di lavoratori le cui condizioni di lavoro possono essere disciplinati da contratti collettivi conformemente al diritto e alla prassi nazionale” (art. 3, co. 1, num. 5).
In Italia meccanismi che consentano di verificare la reale applicazione del contratto collettivo sono stati da poco varati (l’art. 16-quater del d.l. n. 76/2020 conv. dalla l. n. 120/2020, ha istituito il codice alfanumerico per indicare i contratti nazionali di lavoro, da inserire nelle comunicazioni istituzionali dei contratti di lavoro ). Si tratta di discipline che non frutteranno a breve termine e non è detto che i risultati siano in linea con l’aspettativa. Poiché il problema del lavoro povero richiede risposte immediate – e si è già in ritardo – la strada di un intervento legislativo sul salario minimo legale è quella più tempestiva e sicura. La proposta dell’opposizione sembra, del resto, attenta e rispettosa nei confronti della contrattazione collettiva. Stabilisce comunque una rete di protezione, fissando il trattamento economico minimo orario e prevedendo l’istituzione di una Commissione per l’aggiornamento del valore soglia del trattamento in questione. Sono previsioni ragionevoli alla luce del variegato fenomeno contrattuale e non sempre in linea con la garanzia della retribuzione sufficiente del lavoro.

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