testo integrale con note e bibliografia
Sono varie le cause della cocente questione salariale nel nostro paese, riconducibili a una serie di fattori sedimentati e convergenti: bassa crescita e innovazione, investimenti al palo , pressione fiscale eccessiva sui lavoratori, scarso incremento di produttività, frammentazione e polverizzazione del sistema produttivo, livelli ancora insufficienti di partecipazione. A tutto ciò si aggiunge da tempo anche la scure di una inflazione che continua a pesare negativamente sul valore d’acquisto di salari e pensioni. Un quadro del genere richiede un ventaglio di azioni che includono anche la definizione di un salario minimo, o meglio sarebbe dire un salario dignitoso, a patto che sia rigorosamente di natura contrattuale.
È positivo che il Governo abbia indicato nel Cnel , la casa delle Parti Sociali , il luogo autorevole e “terzo” per un buon lavoro istruttorio, dove ricercare un accordo ampio e bipartisan tra forze politiche e sociali. La via per noi resta quella dell’estensione, settore per settore, del trattamento economico complessivo dei contratti nazionali maggiormente diffusi e applicati. L’alternativa di un quantum orario indifferenziato stabilito direttamente dalla legge determinerebbe uno schiacciamento verso il basso dei salari medi, l’uscita dalle tutele dei CCNL di migliaia di imprese, il ritardo dei rinnovi per tutti quei contratti che sono ben al di sopra dei “fatidici” 9 o 10 euro.
Di base si sdoganerebbe poi l’arbitrio della politica (e dei partiti) su dinamiche delicatissime, che non possono essere orientate da demagogie, populismi, esigenze elettoralistiche, e restare flessibili, adattive, ancorate all’economia reale e all’autonomia negoziale-contrattuale delle parti sociali. Una soglia economica tutt’altro che secondaria, a cui si aggiunge un altro fattore, ancora più importante: l’apporti delle libere relazioni industriali alla democrazia economica del nostro Paese.
Per indicare soglie di decenza sotto le quali il lavoro diventa sfruttamento non serve una cifra direttamente indicata dalla legge, né una norma sulla rappresentanza: si faccia la mappatura dei contratti prevalenti settore per settore, si obblighino le aziende a stampare il codice del contratto applicato sulla busta paga, si prendano i dati già in possesso dell’Inps e del Cnel, si mettano insieme le risultanze e si indichino i contratti leader disponendo l’erga omnessettore per settore, includendo i comparti affini non ancora coperti o schiacciati da accordi pirata, che peraltro, come confermato recentemente dall’Inps, incidono pochissimo nell’economia generale del mercato del lavoro. Non c’è modo migliore e più veloce per dare riferimenti a ispettori e giudici.
Nessuna invadenza legislativa, insomma, se non a sostegno dei contratti a maggiore diffusione. È la stessa Commissione Europea a considerare le relazioni industriali ed il rafforzamento / estensione della contrattazione collettiva il miglior strumento per la tutela salariale e sociale dei lavoratori in Italia, dove la buona contrattazione confederale , unica in Europa , copre il 98 per centro della forza lavoro. Per dare un termine di paragone, la Germania è tuttora sotto il 60 per cento. Il salario minimo legale, inteso come “quantum” orario indifferenziato in Gazzetta Ufficiale, rischia di offrirsi come alternativa al sistema di relazioni industriali e alla contrattazione collettiva nazionale, senza risolvere le vere criticità presenti , che sono la povertà salariale derivante da lavori poco qualificati discontinui e ad orario ridotto, da part time involontario, un tessuto produttivo che vede un eccesso di microimprese, con bassissima produttività, larga diffusione di lavoro nero e irregolare, tantissimi stage, tirocini extracurriculari, false partite iva e cooperative spurie. È qui si annida tanto lavoro povero e precarietà che molti fingono di non vedere e che andrebbe combattuto con più ispezioni e controlli nei luoghi di lavoro per una stretta penale sullo sfruttamento e il lavoro irregolare.
Il rischio di un salario fissato per legge è inoltre quello di un avanzamento del processo di “aziendalizzazione” dei rapporti di lavoro, slegati dalla contrattazione nazionale. Tendenza che sarebbe ampiamente favorita da una legge che dovesse stabilire come unico obbligo quello di garantire una soglia minima di retribuzione. Paradossalmente, anche il tentativo di evitare la proliferazione dei contratti pirata potrebbe raggiungere un risultato inverso. Per le organizzazioni firmatarie di questi contratti, infatti, sarebbe sufficiente non debordare dalla soglia minima per avere piena legittimità. Inoltre in un contratto non c’è solo scambio lavoro-salario: ci sono premi e istituti contrattuali importanti che solo il contratto può assicurare : ferie , tredicesime, maggiorazioni, straordinari, welfare negoziato, sanità integrativa , previdenza complementare, formazione continua e tanto altro.
L’attestazione su minimi salariali legali cancellerebbe decenni di conquiste, stabilirebbe un arretramento in termini di tutele e diritti. Se c’è un terreno che bisogna rilanciare e’ quello di una nuova politica dei redditi che invoca misure articolate e non demagogiche. Primo:stimolare e promuovere i rinnovi contrattuali pubblici e privati, anche prevedendo penalizzazioni per le realtà che non lo fanno. Poi: rafforzare la crescita, attivare politiche di aggregazione per un rafforzamento dimensionale delle imprese, costruire un patto fiscale progressivo e redistributivo, incentivare la contrattazione di secondo livello azzerando il peso fiscale sui frutti degli accordi e allargando gli incentivi ai settori pubblici. E ancora: sostenere l’evoluzione delle relazioni industriali in senso partecipativo, indicando nella contrattazione il luogo di un rapporto nuovo tra capitale e lavoro.
Questa è la via da percorrere se si vuole combattere il lavoro povero e il dumping salariale. I contratti devono dettare i minimi dei settori e la contrattazione deve essere sostenuta e rafforzata dalla legge, non minata offrendo pericolose alternative. Per dirla con le parole di Ezio Tarantelli, c’è un nuovo “scambio politico” da costruire insieme. Governo, sindacati, mondo delle imprese devono trovarsi dalla stessa parte, ognuno esercitando la propria responsabilità. Su questa via la Cisl è pronta ad aprire subito il confronto con il governo e gli altri interlocutori sociali.