testo integrale con note e bibliografia
1.-Solo un marziano potrebbe stupirsi del vespaio sollevato dalla proposta di legge AC 1275/2023. E non solo perché l’Italia va avanti da settant’anni con un sistema di determinazione generale dei salari magari a lungo efficace ma sempre precario e comunque giuridicamente bislacco; ma anche perché quel sistema è incentrato su un sistema di contrattazione collettiva ormai in crisi seria da almeno trent’anni, una crisi da molti negata fino all’inverosimile e solo oggi forse più riconosciuta e giunta a un punto di necessaria svolta. Casomai stupisce che questa svolta la si pretenda da un Governo dichiaratamente di destra che dovrebbe essere in una materia così delicata ostile sia a vincoli in capo alle imprese sia a un rafforzamento di una contrattazione collettiva libera.
La questione politica, pure importantissima (come sempre quando parliamo de lege ferenda), però preferirei qui tenerla da parte per privilegiare alcuni aspetti tecnici interessanti che stanno comunque emergendo da questa “accelerazione del dibattito”.
Il primo è che sia la determinazione del salario sia gli equilibri della contrattazione collettiva non possono essere mantenuti nell’assetto ordinamentale al quale siamo da tempo abituati. E non tanto per ragioni politiche o di equità, ma perché due aree cruciali di un moderno diritto del lavoro e sindacale si stanno rapidamente trasformando in una terra di nessuno in cui però tutti hanno da dire la loro e non esitano a fare incursioni più o meno meditate.
Anzitutto il legislatore che è intervenuto più volte in materia retributiva, con tecniche diverse, e ambisce a intervenire ancora; e che inoltre è chiamato in causa anche dal legislatore di rango superiore, cioè l’UE. È vero infatti che la direttiva 2022/2041 non obbliga al salario minimo legale, ma di certo rende ancor più anomalo nel panorama europeo un legislatore che lasci il sistema di determinazione dei salari in una sorta di lassaiz faire fuori tempo massimo.
In secondo luogo organismi costituzionali come il CNEL alla finestra da mezzo secolo, che, istruendo la pratica (o patata) bollente scaricatagli dal Governo, riconosce che abbiamo un sistema che sembra funzionare ma di cui non conosciamo moltissimi aspetti cruciali (v. il documento del 4 ottobre scorso intitolato “Elementi di riflessione sul salario minimo in Italia”, in www.CNEL.it). Soprattutto in ordine alla contrattazione collettiva, comunque individuata come un perno insostituibile per realizzare una qualche forma di equità salariale davvero generalizzata.
In terzo luogo dall’Alta magistratura che, dopo sessant’anni di rinvii alla contrattazione, ci dice, con una sentenza inusitatamente sistematica in materia (n. 27713 del 2 ottobre 2023), che né la legge né la contrattazione collettiva possono esimere il giudice dal pronunciarsi sul salario adeguato all’art. 36 Cost. Anche se con massimo riguardo per la contrattazione collettiva e forse lasciando in ombra che se ci fosse una legge sul salario minimo a pronunciarsi dovrebbe essere semmai la Corte Costituzionale. Però nella sentenza n. 27713 io vedo per la prima volta l’affermazione netta di un principio giuridico che mi è molto caro: l’art. 36 sottrae la retribuzione ad una determinazione puramente mercantile (o se preferite interamente rimessa al negoziato) e costringe l’ordinamento a fissare un livello, pur minimo, sotto il quale il compenso non è dignitoso. Oltre trent’anni fa la chiamai “retribuzione obbligazione sociale” e provai anche a quantificarla.
2. Comunque le cose, seppure in modo confuso, sono molto cambiate rispetto a 30 anni fa (per non dire 60 o 70). E, anche se spesso arrancando appresso ai cambiamenti, bisogna riconoscere che la contrattazione collettiva ha dimostrato una incredibile capacità di resistenza e anche di diffusione. Non solo o non tanto quantitativa. A quest’ultimo riguardo infatti continuo a ritenere che il tasso di copertura contrattuale del 100%, o quasi – sbandierato pur tra mille dubbi e passaggi apodittici anche dal recentissimo già citato rapporto CNEL - sia un dato ossimorico se la domanda viene posta nei termini: qual è la percentuale di lavoratori ai quali si applica il contratto collettivo in rapporto ai lavoratori ai quali quel contratto collettivo è applicabile? Ma l’ossimoro mi pare derivi soprattutto dalla suddetta direttiva - alla quale il CNEL pedissequamente si richiama - che utilizza un singolare tasso di copertura definito come il “rapporto tra il numero di lavoratori coperti da contratti collettivi e il numero di lavoratori le cui condizioni di lavoro possono essere disciplinate da contratti collettivi conformemente al diritto e alle prassi nazionali” (art. 3). In questa indicazione ci sono varie cose che restano troppo vaghe per fondare un monitoraggio convincente. La prima è il riferimento alle “condizioni di lavoro”, che dovrebbe rinviare ad una applicazione integrale dei contratti collettivi, mentre a me pare che in Italia al più si disponga di (o si conteggino) dati sull’applicazione dei trattamenti economici (integrali?) previsti dai contratti collettivi (lo ammette anche il CNEL, sottolineandone varie lacune). La seconda è che il tasso di copertura dovrebbe risultare da un nominatore forse quantificabile in base ad una rilevazione fattuale (non necessariamente omogenea: da quale contratto sono coperti i lavoratori?) e un denominatore definibile solo in base a un dato squisitamente giuridico (“possono essere disciplinate”) da quantificare in base al regime giuridico (“diritto”) o alle prassi nazionali: cioè a due riferimenti che in Italia sono complicatissimi da decifrare (e qui il rapporto del CNEL non aiuta). In questo scenario ognuno fornisce i numeri che vuole o che riesce a fornire giustificando un qualche sistema di calcolo appena appena coerente. Cosicché si può oscillare tra un tasso di copertura dell’80% - quale era in tante statistiche e ricerche di pochi anni fa, pure per me poco convincenti (lo scrissi in un quaderno di ADL, 2015, n. 13) - e un tasso del 95% che ha indicato generosamente da ultimo il CNEL.
Quel che però è innegabile è che il sistema di contrattazione collettiva italiano – pur rimanendo nelle coordinate di fondo uguale a se stesso (fatta eccezione per il lavoro nelle pubbliche amministrazioni) – ha cambiato profondamente pelle adattandosi a tante trasformazioni e inventandosi una moltiplicazione di contratti e di livelli contrattuali, nonché di regimi giuridici, che ha consentito la sua sopravvivenza in apparente buona salute. Tanto buona che oggi coesistono livelli salariali contrattuali di tutto rispetto con bassi o bassissimi salari; tassi ufficiali di applicazione altissima delle retribuzioni contrattuali e zone in cui i lavoratori manco sanno cosa è un contratto collettivo; paghe formalmente ineccepibili su cui però aleggia il dubbio che una parte venga in qualche modo restituita sotto banco al padrone (fenomeno riconosciuto anche dal CNEL). In breve si potrebbe dire che la contrattazione collettiva sarà pure in buona salute, ma molti lavoratori italiani (difficile dire quanti) lo sono assai meno, proprio riguardo ai loro redditi da lavoro.
Cosicché abbiamo il paradosso di una contrattazione diffusa e rassicurante con un sistema economico in cui i salari perdono terreno da trent’anni (dato certissimo). E c’è sempre più lavoro povero (anche questo dato certo). Che però, come pure dice il Cnel, è un fenomeno complesso non riducibile all’entità della retribuzione minima oraria, ma spiegabile con le irrazionalità dello Stato sociale italiano, la diseguale distribuzione quantitativa del lavoro (peraltro in diminuzione globale forse dovuta alla transizione tecnologica) e il ristagno della produttività. Sebbene queste complessità non siano tali da rendere inutile introdurre, come nella maggioranza degli Stati UE, un salario minimo legale soprattutto perché - per ragioni tanto economiche quanto logiche - il suo differimento non può essere rinviato al momento in cui risalirà la produttività del sistema economico italiano per il semplice motivo che altrimenti non parleremmo della necessità di introdurre dei minimi. Ma nemmeno una legislazione solo sui minimi può essere introdotta senza correre il rischio che non danneggi anziché favorire quei tanti lavoratori ai quali tante imprese applicano tanti buoni contratti collettivi.
Se la domanda allora è: i complessi fenomeni - distinti, ma connessi - dei bassi salari e del lavoro povero si sradicano con una legge sul salario minimo che stabilisca soprattutto un livello di paga oraria da chiunque invalicabile? Io rispondo di no e in questo credo anche che il Cnel abbia dato un parere abbastanza equilibrato, seppure avvolto in un labirinto numerologico.
Però nemmeno so dar torto ai giudici. In questa Babele deve sempre essere consentito ad ogni lavoratore di verificare l’adeguatezza della retribuzione percepita nel caso specifico, dal momento che è venuta meno quella situazione in cui ci si poteva affidare ad un’unica autorità salariale indiscussa perché a valenza ampiamente generale: cioè la contrattazione collettiva. Che pure aveva debolezze e difetti, ma che nessun giudice avrebbe mai pensato di poter mettere sul banco degli imputati per venir meno alla sua funzione primaria di tutelare le condizioni minime di sussistenza dei lavoratori. Oggi invece ne dubita la Cassazione: e non si può pensare che lo faccia solo perché deve affermare la primazia dei giudici su ogni altro potere. E non lo si può pensare anzitutto perché, come dicevo prima, è proprio quello che c’è scritto nella nostra Costituzione dove si afferma che “in ogni caso” la retribuzione deve essere in grado di garantire al lavoratore un’esistenza libera e dignitosa.
3. Allora forse è vero che una legge sul salario minimo non risolve i problemi nella loro ampiezza e complessità. Però questo non vuol dire che si possa rinviare ancora alle calende greche un serio intervento di riordino che parta dalla contrattazione collettiva e riguardi l’intero assetto delle relazioni industriali, ivi compreso il rapporto che deve esserci tra una chiara tutela offerta da seri contratti collettivi e individuali e la garanzia di un diritto sociale di cittadinanza come quello a una retribuzione sufficiente ex art. 36. Quest’ultima deve assicurare un reddito che – come ricorda la più volte citata direttiva UE, richiamata per la sua pregnanza valoriale anche dall’ultima Cassazione – garantisca una vita dignitosa ai lavoratori (non solo subordinati) a prescindere dal valore di mercato del lavoro che un povero disgraziato riesce a trovare in un mercato (sempre del lavoro) che evolve a velocità e secondo direzioni poco conoscibili persino da parte delle nostre massime istituzioni che lo governano o, più o meno comodamente, lo osservano.
In fondo non è tanto difficile conciliare tutto. Basterebbe definire un sistema contrattuale più ordinato, in cui un numero ragionevole di contratti collettivi nazionali (non certo gli attuali 977 e forse nemmeno i 211 stipulati dai maggiori sindacati), rinnovati alle giuste scadenze (oggi il 54% risultano non rinnovati tempestivamente ), fissano le scale di equivalenza professionali (ovvero il salario rapportato in astratto alle diverse skill dei lavoratori) a cui le imprese devono attingere (in mancanza ogni lavoratore andrà dal giudice per verificare il rispetto del parametro della proporzionalità), salva la possibilità di incrementi di produttività/qualità da definire sul territorio, in azienda o ad personam. E, per non dimenticare la natura di diritto fondamentale del salario, definire per legge anche un livello orario minimo – da fissare, con un significativo intervento consultivo delle parti sociali, magari anche un po’ al di sotto dei 9 euro se si attribuisce ai contratti collettivi efficacia erga omnes - sotto il quale nessuna negoziazione può andare, fatti salvi i minimi già fissati a un livello superiore dai contratti collettivi già applicati al momento dell’entrata in vigore della ipotetica legge. Certo c’è uno scoglio da superare, segnalato in maniera costante e talora troppo rassegnata dalla migliore dottrina, inchiodata da letture dell’art. 39 ferme a mezzo secolo fa, e non risolto nemmeno dal ddl AC 1275/2023: definire il “perimetro” delle categorie su cui tarare i contratti nazionali. Ma molti possono essere gli espedienti tecnici, pur sostanzialmente rispettosi di una libertà sindacale presa sul serio, per una perimetrazione ragionevole, cioè non arbitraria, che coniughi trasparenza e aderenza ai mercati delle professionalità e superi le contingenze, le rivalità associative, le furbizie piratesche, gli opportunismi di giornata. Forse basterebbe un congruo termine da lasciare ad un’ampia e autorevole commissione istruttoria, magari costituita presso il CNEL, che oggi più che mai sembra sul pezzo (per qualche proposta avanzata già in passato v. DLM, 2014, n. 1; Delfino-L. Zoppoli, in Lavoro & Welfare, 2019, n. 35). E, in alternativa, lasciare a un decreto legislativo la possibilità di fissare una perimetrazione cedevole, cioè definita in via transitoria ma sempre modificabile dinanzi ad un risultato bipartisan raggiunto in tempi più lunghi dalla suddetta commissione. Ci sarebbe da attendere qualche mese per avere un sistema contrattuale migliore e una chiara garanzia contro lo sfruttamento salariale eccessivo? Mi sembra poca cosa rispetto ai settant’anni in cui abbiamo costretto giudici, parti sociali, Parlamento e, da ultimo, Cnel ad un equilibrismo a rischio di continui sfracelli.