testo integrale con note e bibliografia
1. Premessa. - Il dibattito – che non è mancato negli anni scorsi tra i giuslavoristi, anche in questa stessa rivista – sul salario minimo ha ricevuto da ultimo qualche elemento di novità rilevante, sui quali ci si concentrerà qui, avendo avuto occasioni precedenti di esprimermi sul tema.
Innanzitutto, quasi tutte le forze politiche che in Parlamento si sono collocate all’opposizione dell’attuale Governo hanno concordato una proposta comune, presentata il 4 luglio 2023 (C1275): il che, evidentemente, rappresenta in se stesso un evento di non scarso significato, vista la precedente divisione delle stesse forze in occasione delle elezioni politiche dell’anno scorso. Tuttavia, su questo chi scrive ha l’opinione di un cittadino qualunque, della quale perciò non vi è ragione di parlare in questa sede.
Successivamente, il Governo ha ritenuto, nella discussione svolta a Palazzo Chigi con i proponenti, di demandare al CNEL la discussione sulle soluzioni, che la stessa Presidente del Consiglio ha affermato andare oltre la questione del salario minimo , da dare alla questione del lavoro povero. Anche su questo si potrebbero svolgere molte considerazioni politiche, estranee a questa sede.
Il giurista può solo annotare che la scelta non appare difforme dalle previsioni dell’art. 99 Cost.
Ancora, si deve osservare che lo stesso CNEL (Commissione dell’informazione) ha prodotto, il 4 ottobre, un documento di “inquadramento e analisi del problema”, che merita un esame accurato.
Infine, il 2 ottobre sono state depositate alcune importanti sentenze della Cassazione, che investono l’argomento.
2. La proposta delle opposizioni. - Seguendo l’ordine indicato in premessa, si può cominciare dalla proposta delle opposizioni. Qui, per quanto riguarda i punti critici attorno ai quali ordinare l’idea di un intervento legislativo, che avevo già evidenziato su questa rivista , si può dire che sul punto più delicato, che è il rapporto tra le fonti di disciplina della retribuzione, C1275 si muove sulla stessa rotta sulla quale si era dall’inizio assestata la proposta di M5S (S658 della XVIII legislatura), e che del resto non faceva che riprendere la disciplina che il legislatore aveva dato al tema dei minimi retributivi per il lavoro in cooperativa .
Di conseguenza, si può dire che su questo, come diverse delle proposte della legislatura precedente, C1275 si caratterizza per appartenere alla via italiana al salario minimo, che lascia intatto (e anzi, come si avrà modo di argomentare ulteriormente, rafforza) il ruolo di autorità salariale che la contrattazione collettiva ha svolto sin dal regime corporativo e poi nell’età repubblicana, rinforzando il ruolo non solo attraverso l’estensione delle retribuzioni ivi previste come parametro di riferimento generale del trattamento economico, ma anche attraverso una soglia minima che, lungi dal potere essere occasione di schiacciamento al ribasso dei salari o di fuga dal contratto collettivo (che comunque dovrebbe continuare a essere osservato), come qualche sindacalista autorevole ma male informato ha sostenuto, opererebbe invece come sostegno alla contrattazione collettiva stessa njei settori più deboli sul piano negoziale.
Per quanto attiene al campo di applicazione, C1275, all’art. 1, appare prefigurarlo in modo assai largo, includendo sia le collaborazioni etero-organizzate, comprese quelle del co. 2 salvo solo quelle prestate nell’esercizio di professioni intellettuali e quelle degli amministratori di società, sia i contratti di agenzia o di rappresentanza commerciale, nonché le collaborazioni coordinate e continuative e persino i contratti d’opera, per i quali si dispone un “compenso proporzionato al risultato ottenuto, avuto riguardo al tempo normalmente necessario per conseguirlo”: il che apre lo spazio per riflessioni giuridiche sistematiche sulla struttura dell’obbligazione lavorativa, che non posso svolgere in questa sede.
C1275 scioglie un nodo oggetto di discussione assai vivace tra gli studiosi ma anche tra e nelle parti sociali, optando – anche qui sulla scia di S658 della XVIII legislatura – per un minimo fissato direttamente nella legge in nove euro come “trattamento minimo orario”, salvo che per il lavoro domestico.
Per quanto riguarda invece il tema dell’aggiornamento periodico, scartata l’ipotesi dell’indicizzazione contenuta in alcune proposte legislative precedenti, si affida il compito a una Commissione tripartita: con tutti i rischi che l’esperienza comparata ci ha mostrato, e che erano stati già messi in evidenza .
Singolare e palesemente illogica è infine la previsione di un beneficio economico transitorio riservato proprio ai datori di lavoro che abbiano sinora corrisposto una retribuzione che gli stessi proponenti giudicano insufficiente, e che si dovrebbero adeguare ai nove euro già ricordati.
Vi sono poi disposizioni, anch’esse rilevanti e che meriterebbero – se approvate – più ampia discussione, in tema di scelta del contratto collettivo nazionale di riferimento, di sua ultrattività, di istituzione di un procedimento apposito in sede giurisdizionale modellato su quello dell’art. 28 st.lav., e infine (ma perché?) di rinvio dell’applicazione delle disposizioni al 15 novembre 2024.
3. Il documento CNEL del 4 ottobre 2023. – Conformemente all’incaricato affidato dal Governo, il CNEL (Commissione dell’informazione) ha prodotto il 4 ottobre un documento di “inquadramento e analisi del problema”.
Il documento ha un contenuto che in parte può definirsi interlocutorio/dilatorio, quando lamenta non solo la mancanza di convergenze nel dibattito dottrinale, ma anche la carenza di informazioni quantitative sugli effetti di un possibile intervento legislativo; e nello stesso senso si può leggere la distinzione tra il documento analitico, di cui qui si discute, da quello propositivo, che lo stesso CNEL discuterà nei prossimi giorni.
Soprattutto, è implicito un improprio giudizio di valore (negativo) quando si sostiene che il CNEL “ha sempre sottolineato l’impossibilità” di risolvere il problema del lavoro povero, di cui sono richiamate le diverse cause, “con soluzioni semplicistiche” .
Analiticamente erronea, a mio giudizio, l’affermazione per la quale occorrerebbe “legare il tema del salario minimo alla più generale questione salariale e al nodo della produttività”: è vero che la Direttiva europea, sin dalla proposta della Commissione, contiene un riferimento, tra i parametri di determinazione del salario minimo legale, a “i livelli e l’andamento nazionali a lungo termine della produttività” . Ma va ricordato che la proposta originaria – prima dell’intervento nel Parlamento – prevedeva più seccamente “l’andamento della produttività del lavoro”.
Il punto è che la bassa produttività ha un legame causale con i livelli salariali un po’ differente: non è la bassa produttività a determinare i bassi salari, ma l’esiguità delle retribuzioni a contribuire alla bassa produttività .
Di particolare significato – e particolarmente criticabile alla luce della giurisprudenza di cui si parlerà nel prossimo paragrafo, che il documento cita solo genericamente e di passaggio – è l’attribuzione, assai impropria, alla Direttiva europea della conclusione che “il trattamento retributivo previsto da un contratto collettivo qualificato (cioè sottoscritto da soggetti realmente rappresentativi) sia adeguato” : il che, quanto meno, è del tutto inesatto nel nostro ordinamento nazionale.
Lo stesso CNEL, però, è costretto ad ammettere che esistano “settori o ambiti lavorativi (es. appalti di servizi) che, pur coperti dalla contrattazione collettiva, non sembrano tuttavia garantire trattamenti retributivi adeguati (almeno stando agli indicatori suggeriti dalla direttiva europea, e cioè il 60% del salario lordo mediano e il 50% del salario lordo medio, e come confermato da recenti interventi della magistratura” .
Ancora improprio pare il riferimento al fatto che sarebbe “imprescindibile attribuire alle sole parti contrattuali che sottoscrivono un contratto la funzione di determinare le voci che compongono i minimi contrattuali”: è evidente infatti che nel momento in cui vi fosse un intervento legislativo sui minimi stessi, sarebbe utile che lo stesso legislatore indicasse alla giurisprudenza quali siano le voci da considerare, come indicato opportunamente all’art. 2, co. 1, di C1275.
Per quanto riguarda il tasso di copertura dei contratti collettivi, tema che investe direttamente gli obblighi che la Direttiva europea pone in capo ai Paesi che non abbiano un salario minimo legale, se si può apprezzare la segnalazione di fenomeni elusivi come la parasubordinazione o i tirocini, va avanzata una riserva sull’acritica valutazione di attendibilità dei dati ricavati dal flusso di dichiarazioni Uniemens: consta direttamente a chi scrive che sono frequenti i casi nei quali alla dichiarazione datoriale del contratto collettivo applicato rivolta all’INPS non corrisponda affatto l’erogazione del relativo trattamento .
Può essere invece condivisa la constatazione che “il sistema di contrattazione collettiva italiano si muove dunque, nel complesso, in una direzione diversa da quella della tariffa oraria e del potenziamento minimo tabellare” : il che però appare proprio una delle ragioni per le quali un intervento legislativo in tema di salario minimo appare opportuno e urgente, in disparte ogni considerazione su Performance Related Pay e sulle disuguaglianze interne al mercato del lavoro.
E un’altra serie di ragioni che militano a favore di un sollecito intervento legislativo e nell’elenco di settori che presentano criticità offerto dallo stesso CNEL, che include agricoltura, lavoro domestico, multiservizi, servizi fiduciari, turismo, pubblici esercizi, logistica, lavoro sportivo, culturale e artistico, attività di cura e assistenza alla persona, appalti di servizi : milioni di persone, rispetto alle quali il documento CNEL, nella logica elusivo-dilatoria già indicata, si limita a richiedere “opportuni approfondimenti”.
Anche sulla contrattazione pirata il documento utilizza criteri non appropriati, giacché secondo i suoi stessi dati all’8,1% delle persone risultanti dai dati Uniemens (quindi esclusi agricoltura e lavoro domestico) si applicherebbe un CCNL non sottoscritto dalla tre confederazioni principali: giacché è ben noto che anche organizzazioni sindacali del lavoro presenti nel CNEL sottoscrivano contratti collettivi nazionali con interlocutori datoriali assai poco rappresentativi e attendibili, tanto da non poter essere affatto esclusi dall’ambito che giornalisticamente si definisce “contrattazione pirata”. Non vi è dubbio, a mia opinione, che la pur atecnica espressione non possa essere adoperata nei casi nei quali le organizzazioni più rappresentative di entrambe le parti concordino minimi retributivi insufficienti, e dunque in contrasto con le previsioni dell’art. 36, co. 1, Cost., per insufficiente capacità conflittuale delle organizzazioni dei lavoratori, per fragilità economica delle imprese interessate, o per una qualunque combinazione di entrambi i fattori ora citati.
Credo che una capacità descrittiva l’espressione l’abbia soltanto con riferimento ai contratti collettivi che organizzazioni sindacali minori (pur se presenti magari nel CNEL) stipulino con (che vuol dire in sostanza su richiesta di) associazioni datoriali anch’esse minori, quando non escogitate per lo scopo, con l’effetto – che è anche il mal recondito scopo – di applicare a chi lavora condizioni economiche e normative deteriori rispetto a quelle invece previste nei contratti collettivi nazionali ancor più impropriamente denominati gergalmente “leader”, e che meglio dovrebbero essere chiamati autentici.
In conclusione, si tratta di un documento che apporta davvero un contributo scarso alla discussione, pur contenendo anche parti che possono essere condivise, e che pertanto merita i commenti critici, se non sarcastici, che sono apparsi sulla stampa , oltre che la non condivisione da parte della Cgil e l’astensione della Uil .
4. La più recente giurisprudenza di legittimità – In questo dibattito politico e sociale si inserisce, con grande rilievo, una serie di pronunce coeve della giurisprudenza di legittimità .
Si tratta di pronunce riccamente argomentate, con amplissimi riferimenti alla giurisprudenza di legittimità e anche costituzionale (nonché al diritto europeo), con la quale queste sentenze intendono affermare una linea di continuità, sia pure “di fronte alla situazione di crisi in parte nuova che si è venuta determinando”, onde all’orientamento consolidato in legittimità si è inteso “apportare solo alcune limitate precisazioni per fugare taluni dubbi” .
E su queste, non sugli aspetti in continuità con gli approdi giurisprudenziali già consolidati, per quanto incide sul tema del salario minimo si proverà ad articolare qualche riflessione a caldo.
Il primo aspetto che desidero porre all’attenzione dell’eventuale lettore di queste righe è il fatto che il caso oggetto di Cass. n. 27711/2023 è un caso nel quale, trattandosi di lavoro in cooperativa, un salario minimo legale esiste , contenuto nelle disposizioni legislative già citate qui alla nt. 3. E la sentenza osserva correttamente che “proprio in quanto disposta in attuazione dell’art. 36 della Cost. (secondo l’importante pronuncia della Corte cost. del 2015) neppure tale determinazione per via legale del salario - attraverso la contrattazione collettiva sottoscritta dalle associazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative può portare a violare i contenuti sostanziali precettivi dell’art. 36 Cost. di cui dovrebbe garantire invece l’attuazione” .
Da questo punto di vista, si deve condividere la notazione per la quale è “evidente come l’aporia tra il trattamento retributivo previsto nella contrattazione collettiva e i contenuti precettivi dell’art. 36 Cost. […] possa prodursi anche per il tramite di una legge che rinvii alla contrattazione¸ e come tale contraddizione non sia del tutto idonea ad essere risolta con il solo sostegno alla contrattazione nazionale maggiormente rappresentativa” .
Se così non si ritenesse, se si affermasse – come ha fatto la pronuncia della Corte d’Appello di Torino qui cassata e che, letta attraverso la censura che muove la Corte di legittimità, appare straordinariamente mal motivata – che l’applicazione di CCNL propri dell’ambito di operatività dell’impresa e stipulati da organizzazioni comparativamente più rappresentative sottrarrebbe le retribuzioni ivi previste al sindacato giurisdizionale, si violerebbe, come giustamente afferma la sentenza in commento l’art. 39, co. 2-4, Cost.
Si tratta, all’evidenza, di affermazione che devono essere condivise, e che spiegano per quale ragione contemporaneamente sia indispensabile una legge, sia indispensabile una legge che preveda una cifra minima per legge e non sia utile, anzi sarebbe foriera di contenzioso che già si annuncia prossimo a gonfiare i ruoli della giustizia del lavoro da parte delle persone intrappolate nel lavoro povero, una legge che invece contenga un “rinvio in bianco alla contrattazione collettiva” , la quale sarebbe pur sempre “assoggettata ad una interpretazione conforme all’art. 36 e all’art. 39 Cost.” .
Appare dunque chiaro che chi sovrappone la questione dell’efficacia erga omnes dei contratti collettivi e la del tutto differente questione del salario minimo, se forse adotta una tattica utile a impedire o dilazionare un eventuale intervento legislativo, certamente compie un’operazione concettualmente scorretta.
Ancora, nell’ambito dell’auspicata “prudenza con cui bisogna approcciare la materia retributiva ed il rispetto della riserva di competenza attribuita normalmente alla autorità salariale massima, rappresentata dalla contrattazione collettiva, non può che ribadirsi perciò come i criteri di sufficienza e proporzionalità stabiliti nella Costituzione siano gerarchicamente sovraordinati alla legge e alla stessa contrattazione collettiva ed abbiano contenuti (anche attinenti alla dignità della persona) che preesistono e si impongono dall’esterno nella determinazione del salario” , la sentenza non pare aprire spazi a un incontrollato arbitrio giurisprudenziale, ma va alla ricerca dei parametri di determinazione della retribuzione proporzionata e sufficiente in una “griglia di criteri comparativi, avendo come punto di partenza la contrattazione collettiva, e potendo anche fare riferimento a contratti di settore e categorie affini relativamente alle analoghe mansioni in concreto svolte” .
E molto preziosa per la discussione sul salario minimo è anche la notazione per la quale “va da sé poi che nell’ambito dell’operazione di raffronto tra il salario di fatto e quello costituzionale il giudice è tenuto ad effettuare una valutazione coerente e funzionale allo scopo, rispettosa dei criteri giuridici della sufficienza e della proporzionalità; non potendo perciò assumere a riferimento un salario lordo (che non si riferisce ad un importo interamente spendibile da un lavoratore) e confrontarlo con l’indice ISTAT di povertà (che ha riguardo invece alla capacità di acquisto immediata di determinati beni essenziali)”.
E ancora sui parametri del salario minimo è tornata Cass. n. 27713/2023, che però non riguarda una cooperativa ma la retribuzione prevista dal CCNL per i servizi fiduciari, che aveva sostituito quella fissata dai CCNL precedentemente applicati allo stesso lavoratore per le stesse mansioni. Anche qui si ribalta un giudizio della Corte d’Appello di Torino, che si era spinta sino a giudicare non abbastanza rilevante lo scarto in peius della retribuzione prevista dalla soglia Istat di povertà: premesso che il giudice deve farsi carico sia del giudizio di proporzionalità sia di quello di sufficienza, che sono assunti come distinti, la Cassazione ha censurato il parametro adottato, osservando che “il livello Istat di povertà pur non costituendo un parametro diretto di determinazione della retribuzione sufficiente, può tuttavia aiutare ad individuare, sotto questo profilo, una soglia minima invalicabile. Esso non è di per sé indicativo del raggiungimento del livello del salario minimo costituzionale che, come già rilevato, deve essere proiettato ad una vita libera e dignitosa e non solo non povera, dovendo altresì rispettare l’altro profilo della proporzionalità” , e chiedendo al ricorrente l’indicazione dei parametri di raffronto, risultando altrimenti operante una presunzione semplice di adeguatezza dei livelli retributivi fissati dalla contrattazione collettiva.
Altresì di interesse, anche rispetto alle proposte legislative, l’affermazione , anche qui in censura della sentenza di secondo grado, che non possa tenersi conto dei compensi per lavoro straordinario, sia per la loro eventualità, sia perché equivarrebbe a costringere il lavoratore a svolgerne in quantità per raggiungere la retribuzione sufficiente.
Sempre in tema di parametri di determinazione, la stessa sentenza ha criticato l’uso di elementi quali l’importo della Naspi o della Cig, o la soglia di accesso alla pensione di inabilità o l’importo del reddito di cittadinanza: “somme minime utili a garantire al percettore una mera sopravvivenza ma non idonei a sostenere il giudizio di sufficienza e proporzionalità della retribuzione” .
I parametri, secondo la sentenza, che offre una ricca lettura delle fonti internazionali e di diritto eurounitario, andrebbero piuttosto trovate nella Direttiva europea, e in particolare nei riferimenti al salario medio e mediano (che però, come si è visto, sono dati di controversa configurazione in Italia).
E anche l’ultima di queste sentenze, la n, 27769/2023, pure in tema di retribuzione prevista dal CCNL per i servizi fiduciari, cassa la sentenza di appello milanese che aveva rigettato la domanda ritenendo che il superamento della soglia Istat di povertà rendesse la retribuzione conforme ai parametri costituzionali., di nuovo con riferimento a una cooperativa, riprendendo gli argomenti già contenuti nelle altre due.
In conclusione, è stato il c.d. formante giurisprudenziale ad averci offerto, con le tre sentenze di legittimità del 2 ottobre 2023 che qui solo sommariamente ho potuto esaminare, un contributo di straordinaria qualità e orientato all’attuazione delle disposizioni costituzionali: dalle quali né per inerzia né intervenendo il legislatore può discostarsi, e dalle quali le parti contrattuali possono ben discostarsi, come si sono talvolta discostate, ma con l’unico effetto di veder crescere gli elementi di contenzioso e di incertezza, a danno sia delle imprese sia delle persone che lavorano.