testo integrale con note e bibliografia
Il focus che la rivista dedica alla questione del c.d. salario minimo nell’incrocio tra i diversi protagonisti chiamati ad intervenire (Il Parlamento, le organizzazioni sindacali, Il Cnel, i giudici), dopo un appassionato dibattito condotto nella stessa, appare estremamente opportuno per un tema, da tempo all’attenzione degli studiosi , approdato nelle aule parlamentari e ascritto, forse giocoforza, nell’agenda governativa.
Due vicende hanno, comunque, contribuito all’accelerazione del dibattito: il fenomeno del lavoro povero - che, sul piano economico innesca una spirale negativa, alla cui stregua la riduzione della domanda aggregata (formata, in gran parte, dai redditi dei lavoratori), determina una contrazione dei consumi, generando un basso livello di crescita economia, inferiore a quanto di potrebbe ritenere in presenza di redditi di lavoro più dignitosi e l’intervento dell’Unione europea con la direttiva n. 2041 del 19 ottobre 2022 .
Stante che la stessa direttiva comunitaria indica, agli Stati membri, il percorso della promozione della contrattazione collettiva nella determinazione dei salari (art. 4 della direttiva), deve essere riaffermata la “centralità” del contratto collettivo quale “autorità salariale” . Quest’ultimo può essere rivitalizzato attraverso le indicazioni del Patto per la fabbrica del 2018, in ordine ai principi regolatori del trattamento economico complessivo (TEC) e trattamento economico minimo (TEM), anche perché il contratto collettivo costituisce, comunque, un significativo veicolo di adattamento al mercato del lavoro (anche territoriale) circostante . Di rincalzo si deve prendere atto che l’orientamento di “supplenza” svolto dalla giurisprudenza, in applicazione del parametro della “sufficienza” (ex art. 36 Cost), è contrassegnato da un’inevitabile latitudine interpretativa ed offre, comunque, una “garanzia parziale” ed esclusivamente sul piano dell’iniziativa individuale.
Pertanto una prima linea di intervento, proprio in attuazione del precetto costituzionale, potrebbe riguardare un’estensione erga omnes del trattamento economico dei contratti collettivi stipulati da agenti collettivi qualificati, i sindacati più rappresentativi , misurati sulla scorta del Testo unico sulla rappresentanza del 2014 , nonché, per la misurazione della rappresentatività datoriale, alla stregua del percorso disegnato dal Patto per la fabbrica del 2018 .
In tal modo potrebbero essere raggiunti due obiettivi. Per un verso si porrebbe fine alle oscillazioni interpretative della giurisprudenza, con un intervento legale di rinvio alla contrattazione collettiva (che, peraltro, realizza integralmente lo stesso programma costituzionale), la quale si collocherà sul piano della garanzia dell’effettiva applicazione della legge. Per altro verso si potrà disinnescare il fenomeno dei c. d. contratti collettivi pirata (del quale, peraltro, è difficile valutarne l’estensione), mettendo ordine alla “giungla contrattuale” , con la possibilità di agganciare tutti i datori al rispetto delle tariffe collettive.
Si pone, comunque, il problema dell’ambito nel quale effettuare la misurazione della maggiore rappresentativa e, anche qui, per evitare le inevitabili oscillazioni interpretative, in una rinnovazione stagione di legislazione promozionale del sindacato (come è accaduto con lo Statuto dei lavoratori), si potrebbe aderire a quel diffuso orientamento che intende valutare la rappresentatività con riferimento all’intero territorio nazionale, con la misurazione (attraverso il mix di iscritti e voti conseguiti nell’elezione delle RSU) riferita alle confederazioni e federazioni di categoria stipulanti i contratti collettivi di lavoro .
Tale soluzione raggiunge l’importante risultato che, da un lato, tale misurazione prescinde dal “bacino categoriale”, suscettibile di modifiche e valutazioni (anche opportunistiche) delle stesse organizzazioni sindacali e, dall’altro, mira a favorire un processo di aggregazione di queste ultime, con un evidente disincentivo alla frammentazione e dispersione della rappresentanza sindacale. Va anche sottolineato
che tale impostazione recupera anche la filosofia originaria inaugurata dallo Statuto dei lavoratori, nella logica di conferire prerogative negoziali a quelle organizzazioni sindacali che possono vantare il maggior seguito sull’intero territorio nazionale.
Si dovrebbe, comunque, realizzare un rapporto sinergico tra legge e contrattazione collettiva, con la seconda che definisce nei diversi settori economici i livelli salariali per i diversi profili professionali (estesi erga omnes in attuazione dell’art. 36 Cost) e la prima che interviene ulteriormente nelle riconosciute aree di “debolezza contrattuale” del sindacato, con una soglia minima oraria .
Nel contempo l’intervento della legge dovrebbe coprire aree “marginali” non raggiunte dalla contrattazione collettiva ; in tale area possiamo rintracciare i lavori afferenti alla c.d. gig economy ovvero i lavoratori autonomi (economicamente dipendenti) per i quali si pone il problema di assicurare un equo compenso .
Anche nel caso dei lavoratori autonomi si tratta di verificare se si possa sviluppare una contrattazione collettiva, veicolata dalle organizzazioni rappresentative (sulla scorta, per i riders, dell’art. 47- quater del d.lgs. n. 81 del 2015) e sulla falsariga di quanto accade per i lavoratori dipendenti, sul presupposto che la fissazione per legge di un salario minimo (o equo compenso) implica, comunque, un coinvolgimento e costante monitoraggio delle parti sociali (come d’altronde indicato dall’art. 7 della direttiva comunitaria), con un passaggio, ove possibile, alla via contrattuale.
Infine si pone il problema, oggi del tutto carente (in presenza ora del solo orientamento giurisprudenziale), che può essere risolto esclusivamente dalla legge, di apprestare adeguate misure sanzionatorie per garantirne l’effettività, con la possibilità di utilizzare un rimedio, su iniziativa sindacale, disegnato sulla scia dell’art. 28 dello Statuto dei lavoratori .