testo integrale con note e bibliografia

Per parlare di salario minimo legale ( in acronimo smig) occorre fare una premessa. Vogliamo riferirci alla questione in sé come emerge da una ricca letteratura e come è disposto dalla Direttiva europea 2022/2041 del 19 ottobre 2022 oppure all’A.C. 1275 ovvero al testo unificato presentato, all’inizio di luglio, dalle opposizioni (con l’esclusione di Italia viva)? Poiché è quest’ultimo l’oggetto del dibattito è opportuno partire dal testo della proposta di legge, mettendo, di volta in volta, i suoi aspetti principali a confronto con le indicazioni della Direttiva.
L’A.C. 1275 è incostituzionale?
La proposta di legge, infatti, arriva a stabilire un salario minimo orario pari a 9 euro lordo orari, partendo da un assunto principale. L'articolo 2, infatti, definisce sufficiente e proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro prestato (evidentemente ai sensi dell’articolo 36 Cost., un trattamento economico complessivo non inferiore - ferme restando le pattuizioni di miglior favore - a quello previsto dal CCNL in vigore per il settore in cui il datore di lavoro opera e svolge la sua attività. In ogni caso, il trattamento economico minimo orario stabilito dal CCNL non può essere inferiore a 9 euro lordi. L’incostituzionalità deriva dal tentativo di estendere erga omnes i contratti collettivi negoziati e stipulati nell’ambito del diritto comune, eludendo così i criteri e le procedure previste dal Ghino di Tacco del sistema di relazioni industriali: l’articolo 39 Cost. ‘’messo lì nella vigna a far da palo’’, non attuato e divenuto ‘’straniero in patria’’ perché inattuabile, in un contesto che da decenni ha preso e praticato una strada diversa. E’ patetico che taluni dirigenti sindacali ne chiedano l’applicazione senza rendersi conto della violenza che sarebbe praticata al comma 1 dello stesso articolo 39, il solo applicato: ‘’l’organizzazione sindacale è libera’’ e ai principi su cui si è costituito l’ordinamento sindacale italiano: il reciproco riconoscimento e l’autonomia contrattuale, che significano anche libertà di scegliere i propri interlocutori.
E’ consentito avvalersi dell’articolo 36 al posto dell’articolo 39 Cost. ?
Questa era l’impostazione del ddl Catalfo, il testo base adottato in Commissione Lavoro del Senato all’inizio della scorsa legislatura. Recitava, infatti, l’art. 2: ‘’ Si considera retribuzione complessiva proporzionata e sufficiente ai sensi dell’articolo 1 (che si riferiva all’articolo 36 Cost., ndr) il trattamento economico complessivo, proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato, non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale in vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni di lavoro, stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro più rappresentative sul piano nazionale (omissis), il cui ambito di applicazione sia maggiormente connesso e obiettivamente vicino in senso qualitativo, anche considerato nel suo complesso, all’attività svolta dai lavoratori anche in maniera prevalente e comunque non inferiore a 9 euro all’ora al lordo degli oneri contributivi e previdenziali’’. Riassumendo, con un volo pindarico sul piano giuridico, il ddl Catalfo voleva attribuire efficacia erga omnes ‘’al trattamento economico complessivo’’ sancito nei contratti collettivi, attraverso l’applicazione dell’articolo 36 ed eludendo, così, il terreno minato dell’articolo 39 Cost. Come si vede non ha torto il M5S nel rivendicare una sorta di primogenitura per il salario minimo legale. L’impostazione, finanche le parole stesse sono desunte da quel ddl- base, ivi compreso l’importo magico dei 9 euro lordi, scelto, ora, per derivazione senza alcuna motivazione tecnico-economica. La Consulta non ha avuto modo di pronunciarsi in materia. Va segnalato, invece, un tentativo della magistratura inquirente di avvalersi del diritto penale per fornire un’interpretazione estensiva all’articolo 36 Cost.
Il caso delle aziende di vigilanza privata
Sappiamo che una giurisprudenza consolidata ha assicurato, sulla base dell’articolo 36 della Costituzione, la tutela di salari minimi anche in assenza di una estensione erga omnes dei contratti collettivi. Ciò in quanto – in caso di controversia – i giudici hanno sempre considerato “proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa’’ la retribuzione di un lavoratore corrispondente a quanto previsto dalle tabelle salariali dei contratti stipulati dalle organizzazioni più rappresentative. In sostanza, la magistratura si rimetteva a quanto le parti sociali avevano sottoscritto in base alla loro autonomia contrattuale.

Nel caso delle aziende di vigilanza privata (Mondialpol, Cosmopol, ecc.) l’intervento giudiziario, per iniziativa della procura di Milano deborda fino a giudicare la congruità del contratto nazionale (per altro rinnovato da poco dalle federazioni di categoria di Cgil, Cisl e Uil, dopo anni dalla scadenza di quello precedente e con decorrenza dal 1° giugno 2023 al 1° maggio 2026). Sui siti delle maggiori confederazioni sono pubblicati i contenuti di questo travagliato rinnovo che non si limitano alla cifra di 5,3 euro l’ora (pari a 930 euro lordi al mese) come ha denunciato la procura. Sulla parte economica l’ipotesi di accordo definisce un aumento a regime di 140 euro per il IV Livello GPG e per il Livello D dei Servizi Fiduciari. Più un’una tantum di 400 euro. Poi, chi ha deciso che i contratti devono stabilire – come unico elemento da prendere in considerazione per confermarne la correttezza – salari minimi al di sopra della soglia di povertà (un indicatore che di solito riguarda il nucleo familiare non il singolo individuo), ignorando la parte normativa e le misure di welfare aziendale? Queste discutibili iniziative aprono un nuovo capitolo per quanto riguarda il ruolo della magistratura inquirente nel campo del lavoro. La linea di condotta scelta dalla procura tende ad esaurire la questione a livello della indagine, senza arrivare alla sentenza di un giudice. Le aziende sono indotte, nei fatti, a seguire l’esempio della Mondialpol che ha deciso in modo unilaterale un congruo aumento - in pratica a pagare una sorta di riscatto - per liberarsi tramite la revoca del controllo giudiziario chiamato a verificare la presenza di fattispecie di reato. Così si completerà ciò a cui le procure aspirano: risolvere il contenzioso in fase di indagini, magari con l’aiuto della gogna mediatico-giudiziaria. Del resto, sappiamo come funzionano questi eventi: basta gonfiare un po’ la storia per indurre le importanti aziende, anche pubbliche (le quali si avvalgono di questi servizi) a dare disdetta ai contratti (magari stipulati in regime di massimo ribasso), con l’azienda accusata di caporalato e di sfruttamento dei lavoratori.
Se questa è un’ulteriore fattispecie di giurisprudenza creativa dovrebbero essere chiamate a rispondere di favoreggiamento anche le organizzazioni sindacali firmatarie.
Come altro dovrebbe comportarsi, poi, un’impresa iscritta ad una associazione a cui è affidato il mandato a contrattare con le controparti naturali se non applicare correttamente quanto da loro stabilito e sottoscritto nel contratto stesso? Tanto varrebbe, per coerenza, impugnare il contratto nazionale “fellone” anziché perseguitare le aziende che lo applicano. Nonché imputare di concorso in reato tutti gli appartenenti alle delegazioni che hanno preso parte al negoziato. Figurarsi che bella retata! Non ci sarà un po’ di nostalgia per il ruolo svolto dalla magistratura del lavoro durante il periodo corporativo?

Il grande imbroglio dei ‘’contratti pirata’’
Perché dopo che ben due leggi – l.n.92/2012 la riforma Fornero del mercato del lavoro e il jobs act del 2014-2015 - avevano previsto l’introduzioni di salari e compensi minimi, incontrando il sospetto e l’ostilità dei sindacati (e quindi il disinteresse della sinistra allora al governo – improvvisamente lo smig diventa una specie di Linea del Piave? Andiamo alle fonti ufficiali ovvero alla relazione illustrativa del pdl a prima firma Conte. Si fa riferimento alla direttiva europea (la quale non impone l’adozione dello smig se la copertura contrattuale è elevata come da noi e negli altri e paesi che non prevedono il salario legale), al numero dei lavoratori poveri rispetto a quanto accade in giro per l’Europa, ma il tocco di classe è ancora un altro: ‘’ Molteplici sono le ragioni che ostacolano il diritto a percepire una giusta retribuzione. Tra di esse – è scritto - , di particolare rilievo è il proliferare dei cosiddetti « contratti collettivi pirata », ossia i contratti collettivi, diffusi soprattutto in alcuni settori, stipulati da soggetti dotati di scarsa o inesistente forza rappresentativa, finalizzati a fissare condizioni normative ed economiche peggiorative per i lavoratori rispetto a quanto previsto dai contratti collettivi stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi, dando vita a dannosi fenomeni di distorsione della concorrenza. Il moltiplicarsi dei contratti collettivi, ivi compresi appunto i contratti collettivi pirata, oggi pari a 1.011, costituisce un’importante forma di dumping salariale’’. Il pretesto dei contratti pirata è una volgare falsificazione della realtà. Perché, come vedremo, al di là del loro numero, riguardano un’esigua minoranza di lavoratori.
I dati veri
Sostenere che tutti i contratti (più di 1000) non riconducibili a Cgil, Cisl e Uil sono ‘’pirati’’ è una menzogna. Il Cnel ha messo ordine nei numeri. Secondo l’ultima rilevazione (Report 17°) , a luglio erano ben 1037 i contratti depositati nell’Archivio nazionale, di cui 976 dei settori privati. Ma dei 434 CCNL applicati a 12.914.115 lavoratori, (sono esclusi i contratti agricoli e dei lavoratori domestici) sono 162 (37,3%) quelli firmati dalle maggiori organizzazioni sindacali confederali o comunque rappresentate nel Cnel e ‘’coprono’’ 12.517.049 lavoratori (97%); mentre 272 contratti (62,7%) firmati da organizzazioni sindacali diverse da quelle confederali e non rappresentate al Cnel (ma in una certa misura ‘’rappresentative’’) ‘’coprono’’ 387.066 lavoratori (3%). Questi contratti ‘’minori’’ poi non vanno meccanicamente annoverati come ‘’pirata’’. E’ prassi consolidata che i medesimi testi dei rinnovi contrattuali stipulati dalle federazioni di categoria di Cgil, Cisl e Uil con le rispettive controparti, siano sottoscritti, separatamente, da una pletora di altre organizzazioni sindacali minori, autonome o dall’UGL, non accettate al tavolo del negoziato insieme ai confederali storici. Va da sé che analoghe procedure si svolgano per tutti i contratti nazionali riconducibili ad un settore. I testi sono sempre gli stessi, cambiano solo le rappresentanze firmatarie. Per questi motivi si spiega che il numero dei contratti ‘’figli di un dio minore’’ sia maggiore di quelli di alto lignaggio. I medesimi contratti – in realtà- sono contati più volte come gli aerei di Mussolini e le vacche di Fanfani. I ‘’contratti pirata’’, invece, riguardano lo 0,3% del complesso dei lavoratori (in numero di 44mila). Dove sta il problema? La copertura ‘’ confederale’’ dei contratti collettivi riguarda il 97% dei lavoratori, ma il 57% dei contratti dei settori privati è scaduto, magari da anni, con ricadute (dati Cnel) su 7,7 milioni di lavoratori. Tutto ciò vuol dire che alla grande maggioranza dei lavoratori (oltre 3 milioni) al di sotto dei 9 euro l’ora sono applicati i contratti sottoscritti dei sindacati ‘’buoni’’, per l’occasione anch’essi un po’ pirati, perché, nelle dinamiche sociali, ‘’i fatti hanno la testa dura’’. Come quando i voucher venivano definiti ‘’pizzini’’ ma si scoprì che una parte del sindacato ne faceva ragionevolmente uso. Resta solo da porsi una domanda: se il 97% dei lavoratori è ‘’coperto’’ da contratti stipulati da Cgil, Cisl e Uil, che bisogno c’è di varare una complicata legge sulla rappresentanza, per andare a certificare ciò che sappiamo già? Bisogna essere dei masochisti per infilarsi dove nessuno è mai riuscito, cimentandosi con una legge siffatta, quando le c.d. parti sociali non sono state in grado neppure di avvalersi del c.d. Testo unico sulla rappresentanza (2018), benché solo di natura privato-contrattuale.
Perché 9 euro?
E’ una domanda lecita che si aspetta una risposta cortese. Se si consulta la relazione che accompagna il testo non vi sono delucidazioni su come i partiti sono arrivati a fissare quel livello minimo. Si è trattato forse di un algoritmo? La sinistra si è rassegnata a rivolgersi al ‘’grande nemico’’ contro il quale combatte da anni per le sue ingerenze nel determinare le condizioni di lavoro? Bontà sua, un tentativo di spiegazione è venuto da Maria Cecilia Guerra, responsabile del lavoro del Pd in occasione di un’intervista al QN. La cifra – ha assicurato - "non è per nulla magica, ma frutto di un calcolo economico preciso, che parte dai parametri europei. Il riferimento è al 50% della media dei salari comunitari, e tiene conto però del fatto che molti dei contratti a cui ci rifacciamo oggi sono scaduti e quindi non adeguati a un periodo, quello attuale, in cui l’inflazione ha eroso il 7% del valore reale dei compensi. A questo si aggiunge il dato Istat, secondo il quale i salari, senza il sovrapprezzo dei prodotti energetici, attualmente sarebbe superiore del 16,2%. Ponderati tutti questi valori, si arriva a una cifra di media, 9 euro lordi, che tenga conto di tutto ciò’’. Maria Cecilia Guerra è una valente economista, docente di scienze delle finanze, ma capita anche ai professori prestati alla politica di arrampicarsi sugli specchi quando non hanno a disposizione effettivi argomenti. La verità è che l’importo di 9 euro lordi era quello previsto all’inizio della passata legislatura dal disegno di legge – ne abbiamo già accennato - di cui al Senato era relatrice Nunzia Catalfo allora presidente della Commissione Lavoro. Non risulta che a monte vi fosse stato un approfondimento tecnico: i ‘’grillini’’ della prima ora non avrebbero perso del tempo e – convinti che ‘’uno vale uno’’ – non avrebbero neppure cercato gli strumenti per un calcolo fondato su elementi di fatto. Così il numero magico è stato preso da quel disegno di legge, senza alcun riferimento al contesto macroeconomico, allora molto diverso dall’attuale e immune dalle disgrazie poi piovute sul Paese: la pandemia, la guerra, la crisi energetica e l’inflazione. In sostanza si è proceduto a braccio, istaurando una logica destinata a ripetersi negli aggiornamenti affidati dall’articolo 5 ad una Commissione di netto carattere istituzionale e politico.
Un percorso in linea con la Direttiva
Infine, la direttiva europea fornisce delle indicazioni ‘’virtuose’’ per quanto riguarda l’importo dello smig: il 60% del salario mediano e il 50% di quello medio. L’indicazione è di attenersi a questo rapporto, non già di valutare la cifra di per sé paragonandola ad altre che magari sono più elevate in valore assoluto ma inferiori in proporzione al salario mediano o medio. In ambedue i casi del salario di riferimento, lo smig da noi dovrebbe essere di poco superiore ai 7 euro l’ora. Poi, ai tempi d’oro del RdC il beneficiario era obbligato ad accettare proposte di lavoro retribuite con almeno 858 euro mensili, giudicati “congrui”, anche se a full-time. Era quindi indirettamente indicata come equa una retribuzione di circa 5,5 euro all’ora, ben distante quindi dalla soglia dei 9 euro lordi. Per inciso, sembra evidente che per la sua incidenza sul trattamento complessivo e per le scadenze a breve termine della revisione, il salario minimo legale svolgerebbe la funzione di una scala mobile, con tutti i suoi effetti di sottrarre alle parti sociali il ruolo di autorità salariale.

 

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