testo integrale con note e bibliografia
1. Introduzione al tema: agricoltura, struttura del mercato e cause giuridiche del caporalato e dello sfruttamento lavorativo.
Sfruttamento lavorativo e caporalato interessano ormai diversi settori produttivi, tutti prevalentemente accomunati da una domanda di manodopera poco qualificata, deputata allo svolgimento di mansioni tendenzialmente manuali, ripetitive e di norma anche assai faticose. A fronte della scarsità dell’offerta di lavoro e della nota gracilità dei canali pubblici/istituzionali di intermediazione legale, il ricorso a forme illecite di reclutamento, organizzazione e impiego della forza lavoro consente di fatto di rimediare alle carenze di personale proprie di alcuni ambiti produttivi, facendo leva sulla vulnerabilità socio-economica dei lavoratori impiegati. Una condizione di debolezza, peraltro, non meramente ascrivibile allo stato di dipendenza tipico della subordinazione , ma che deriva più spesso dalla provenienza geografica e dalla condizione sociale della manodopera sfruttata .
Se quanto precede è vero per molti settori, è però in agricoltura che tali fenomeni si manifestano ancora con una certa persistenza . Le cause strutturali di tale permeabilità sono state ormai ampiamente indagate e sono, in parte, immediatamente riconducibili alle peculiari caratteristiche dell’attività e del mercato del lavoro agricolo; in parte, sono invece imputabili alle scelte operate dal legislatore nella regolamentazione di taluni istituti giuridici, che incidono più o meno direttamente sull’efficacia dell’azione di contrasto dei fenomeni in discorso. Rilevanti sono poi i piani su cui tali cause insistono: da un lato, esse interessano le dinamiche interne alla relazione contrattuale tra datore e lavoratore; dall’altro, si collocano nella dimensione più articolata, oltre che esterna al rapporto di lavoro, della filiera agroalimentare e agroindustriale, nell’ambito della quale l’impresa agricola spesso si trova ad operare .
L’intreccio di questi profili vale già di per sé a restituire la complessità del tema, che tuttavia si accentua quando si scelga di analizzarlo dalla prospettiva del diritto del lavoro. Rispetto a tali fenomeni, infatti, l’ordinamento ha per lungo tempo privilegiato una strategia di intervento di tipo repressivo, affidando essenzialmente alla norma penale il compito di contrastare il caporalato e lo sfruttamento del lavoro. Senza naturalmente poter dubitare dell’opportunità di punire penalmente condotte così odiose e degradanti, non si può tuttavia non rilevare la parzialità di un simile approccio che, in mancanza di efficaci strumenti di prevenzione, ha finito per addossare al diritto penale funzioni regolative a tratti improprie . Ciò a maggior ragione se si considera che gli illeciti descritti all’art. 603-bis c.p. trascendono la dimensione squisitamente individuale del rapporto di lavoro, per radicarsi anche nel contesto più ampio della filiera produttiva, nell’ambito della quale i produttori agricoli (specie se di dimensioni contenute) sono spesso esposti alle pressioni competitive provenienti dalle imprese poste a valle della catena di approvvigionamento, le quali, sfruttando la propria posizione dominante, non di rado impongono consistenti riduzioni del prezzo dei prodotti agricoli e quindi dei margini di profitto dei produttori agricoli. L’iniqua distribuzione del valore all’interno della filiera, unitamente alla diffusione in seno alla stessa di pratiche di concorrenza sleale, impone una inevitabile compressione dei costi di produzione da parte dell’impresa agricola, che si riversa in prevalenza sulle condizioni lavorative della manodopera impiegata. In questo quadro, il ricorso al caporalato e allo sfruttamento del lavoro acquisisce quindi una rilevanza sistemica, non riconducibile alla mera attitudine criminale del singolo imprenditore agricolo , ma che deriva piuttosto dal funzionamento del mercato, capace di soffocare il piccolo produttore per piegarlo alle pretese (quantitative e qualitative ) delle imprese acquirenti. Ciò che di questo sistema colpisce è soprattutto la simmetria tra le dinamiche di potere esistenti all’interno della relazione commerciale tra i soggetti della filiera e quelle cui è assoggettato il lavoratore nel rapporto con il datore di lavoro-produttore agricolo ovvero con il caporale. La debolezza contrattuale che – sia pure in termini e con sfumature molto diverse – accomuna il produttore e il bracciante, è infatti influenzata dalla struttura e dalla dimensione della filiera e si acutizza quanto più è elevata la segmentazione del processo produttivo e maggiore è l’integrazione tra le imprese coinvolte. È in particolare nell’ambito di catene di approvvigionamento lunghe, caratterizzate da un cospicuo numero di intermediari e generalmente sottoposte all’influenza dominante delle imprese della Grande distribuzione organizzata, che la posizione marginale del produttore si riverbera negativamente sulle condizioni di impiego dei lavoratori, dando più facilmente adito a comportamenti illeciti. L’impresa agricola tende cioè a replicare nei confronti della manodopera impiegata la dinamica di potere di cui lei stessa è vittima, nel tentativo di ridurre quanto più possibile gli oneri connessi al rapporto di lavoro e così assicurarsi i pochi margini di utile residui.
Il meccanismo di contenimento a cascata dei costi lungo la filiera, che determina l’impoverimento dei soggetti collocati a monte e consente invece la massimizzazione dei profitti per le imprese dedite alla commercializzazione dei beni agricoli presso il consumatore finale, è reso possibile grazie al ricorso pressoché sistematico a processi di esternalizzazione di parti del ciclo produttivo e a strumenti di acquisizione indiretta della manodopera, che – come noto – prestano il fianco a forme di interposizione e intermediazione illecita .
Assecondare tale prospettiva di indagine, che ravvisa nello sfruttamento del lavoro e nel caporalato (anche) una palese manifestazione delle criticità strutturali interne alla filiera, permette non solo di cogliere le molteplici implicazioni di questi fenomeni, ma anche di disvelare più agevolmente i limiti dell’approccio incentrato sulla norma penale, alla quale non si può addossare il compito di governare e rimuovere le storture di un interno sistema di produzione.
L’insorgenza di gravi forme di sfruttamento in agricoltura non è, però, imputabile soltanto a fattori – per così dire – “esterni” al rapporto di lavoro. Ormai da tempo, infatti, gli studi in materia evidenziano come, all’origine di tali fenomeni, si celino anche ragioni per così dire “giuridiche”, cioè ascrivibili alla fattura delle norme o comunque al modo in cui è costruita la disciplina di alcuni istituti. In questo senso, oltre alle criticità poste dalla stessa formulazione dell’art. 603-bis c.p. , a sollecitare la riflessione sono, in particolare, l’evoluzione della disciplina in materia di intermediazione e interposizione di manodopera e le regole che presidiano l’ingresso e la permanenza sul territorio degli immigrati provenienti da paesi extra-europei, contenute nel d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286. Si tratta, per vero, di profili assai noti, a più riprese evidenziati dalla dottrina intervenuta sul tema, ai quali tuttavia il legislatore non sempre ha offerto risposte soddisfacenti e soprattutto coerenti con l’obiettivo di costruire una strategia efficace di contrasto ai fenomeni in discorso.
2. L’evoluzione normativa in materia di interposizione e intermediazione di manodopera.
Come noto, a scandire l’evoluzione legislativa in materia di intermediazione e interposizione nelle prestazioni di lavoro è stata dapprima la l. 29 aprile 1949, n. 264, il cui art. 11 poneva un divieto generale di esercizio dell’attività di mediazione di manodopera, anche a titolo gratuito, punendone la violazione perpetrata dall’intermediario e dal datore di lavoro con un’ammenda e con il sequestro del mezzo di trasporto utilizzato a fini illeciti . Ad esso è stato successivamente affiancato il divieto assoluto di interposizione nelle prestazioni di lavoro, introdotto dalla l. 23 ottobre 1960, n. 1369, e a sua volta presidiato, oltreché dalle sanzioni penali previste per il mancato rispetto della l. n. 264/1949 e delle altre leggi in materia, con una pena pecuniaria calcolata per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di occupazione.
Agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, sotto la spinta delle trasformazioni economiche nel frattempo intervenute e delle sollecitazioni provenienti dalla giurisprudenza sovranazionale , la preclusione a qualsivoglia forma di esternalizzazione della manodopera è stata drasticamente ridimensionata per effetto della l. 24 giugno 1998, n. 196, sul lavoro temporaneo tramite agenzie interinali, e poi del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, con il quale il legislatore ha rimodulato gli strumenti di contrasto al fenomeno, segnando peraltro il definitivo superamento delle riserve poste alla somministrazione in agricoltura. Vale la pena infatti di ricordare come, in questo ambito, l’apertura al lavoro interinale si sia a lungo scontrata con le peculiari caratteristiche dell’attività e del mercato del lavoro agricolo e, dunque, con la più frequente manifestazione di fenomeni di interposizione illecita, obbligando il legislatore a circondare di maggiori cautele la deroga al divieto posto dalla l. n. 1369/1960. La tensione tra il rischio di “istituzionalizzare” la presenza dei caporali e le più pressanti esigenze di flessibilità nel reperimento di manodopera si è quindi tradotta nella previsione dell’art. 1, c. 3, l. n. 196/1997, che ammetteva il ricorso ai contratti di fornitura di lavoro temporaneo solo in via sperimentale e previa intesa tra le organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale .
Con l’entrata in vigore del d.lgs. n. 276/2003 il legislatore, oltre ad allentare i vincoli alla somministrazione in agricoltura e ad abrogare tutte le disposizioni di legge con esso incompatibili, introduce sul piano sanzionatorio un sistema di tutele penali e amministrative, variamente graduate in relazione all’antigiuridicità delle condotte punite, che prevede da un lato la configurazione di un mero illecito amministrativo per la somministrazione irregolare (art. 27, c. 1) e dall’altro conferma la sussistenza di ipotesi contravvenzionali per le fattispecie più gravi di somministrazione abusiva (art. 18, c. 1), di somministrazione illecita (art. 18, c. 2) e di somministrazione fraudolenta (art. 28) . L’impianto sanzionatorio così delineato dalla disciplina lavoristica del 2003 – e invero solo in parte mutato dalla legislazione successiva – ha sollecitato in dottrina un duplice ordine di considerazioni, che attengono tanto al momento della prevenzione del caporalato e dello sfruttamento lavorativo quanto a quello della sua repressione. Sotto il primo profilo, a destare particolare interesse è stato il percorso evolutivo relativo alla somministrazione fraudolenta, che, inizialmente abrogata con l’art. 55, c. 1, lett. d), d.lgs. n. 81/2015 , è stata poi reintrodotta dal d.l. n. 87/2018, conv. con modif. da l. n. 96/2018. Come è stato osservato, pur nella sua “ontologica” inidoneità a contrastare fenomeni complessi come il caporalato e lo sfruttamento lavorativo, la scelta di abrogare tale fattispecie aveva, di fatto, contribuito a depotenziare il già esiguo apparato sanzionatorio, privando soprattutto gli organismi di vigilanza della possibilità di azionare la prescrizione obbligatoria di cui all’art. 15, d.lgs. n. 124/2004 . Ad aggravare ulteriormente il quadro delle tutele è stata poi la depenalizzazione intervenuta con l’art. 1, c. 1, d.lgs. n. 8/2016, per effetto della quale la somministrazione abusiva e l’utilizzazione illecita risultano ora punite con una mera sanzione amministrativa di carattere pecuniario. In questo scenario, nonostante le perduranti difficoltà applicative, dovute essenzialmente alla faticosa individuazione del crinale tra la finalità propria della somministrazione illecita e di quella fraudolenta, il ripristino di quest’ultima ad opera dell’art. 38-bis, d.lgs. n. 81/2015, può essere senz’altro giudicato positivamente, dal momento che importa comunque una maggiore estensione dell’area di punibilità delle condotte ad essa sottese, ripristinando tra l’altro l’adozione della prescrizione obbligatoria a carico di utilizzatore e di somministratore .
Più delicate sono, invece, le implicazioni di tale assetto di tutele sotto il secondo profilo menzionato. Se si confronta il quadro sanzionatorio qui brevemente tratteggiato con quello delineato dalle disposizioni penali preesistenti all’entrata in vigore dell’art. 603-bis c.p., si è immediatamente avvertiti dello iato allora esistente tra le forme c.d. “di schiavitù contrattualizzata” , regolate dal diritto penale, e quelle di intermediazione e interposizione illecita previste dagli artt. 4 e 18, d.lgs. n. 276/2003. Come si è poc’anzi accennato, anche nella sua massima espressione di antigiuridicità , la disciplina dettata in materia di somministrazione non visualizza fenomeni così complessi quali il caporalato e lo sfruttamento lavorativo. Questo emerge del resto con chiarezza sia sotto il profilo assiologico, stante il mancato riferimento ai profili di lesione dei diritti fondamentali dei lavoratori , sia sul piano sanzionatorio per la natura originariamente contravvenzionale di tutti i reati introdotti dal d.lgs. n. 276/2003, che, come tali, risultavano perciò estinguibili mediante ricorso all’oblazione (artt. 162 e 162-bis c.p.) .
Nella prassi applicativa, la necessità di apprestare adeguate tutele quantomeno alle forme più gravi e strutturate di sfruttamento è stata talora soddisfatta ricorrendo alla fattispecie descritta dal 600 c.p. per la riduzione e il mantenimento in schiavitù, che, insieme ai reati di tratta di persone (art. 601 c.p.) e di acquisto e alienazione di schiavi (art. 603 c.p.), componeva il quadro dei delitti contro la personalità individuale . Dalle maglie di tale tutela restavano, pertanto, escluse tutte quelle ipotesi di sfruttamento che, seppur gravi e quindi non passibili di una mera contravvenzione, risultavano comunque connotate da un minor grado di antigiuridicità rispetto a quelle previste dal diritto penale .
In questa prospettiva, non sembra allora errato domandarsi se l’introduzione dell’art. 603-bis c.p. e i successivi perfezionamenti ad esso apportati dalla l. n. 199/2016 siano valsi a colmare lo spazio vuoto tra il regime sanzionatorio light previsto dalle norme del diritto del lavoro e quello più severo proprio del diritto penale, ripristinando così una migliore gradualità delle tutele. L’impressione, meritevole tuttavia di un più adeguato approfondimento, è che la risposta a tale quesito si giochi essenzialmente, da un lato, sul versante della (mancata) definizione di sfruttamento o comunque della scarsa pregnanza qualificatoria dell’art. 603-bis c.p. e, dall’altro, sulla complessa e non sempre rigorosa interpretazione dello stato di bisogno postulato dalla fattispecie .
3. Il ruolo della disciplina migratoria nella causazione dello stato di precarietà giuridica dello straniero.
Quanto al secondo profilo in esame, occorre in prima battuta evidenziare come la più facile esposizione della manodopera straniera, specie se di provenienza extraeuropea, al rischio di sfruttamento lavorativo non rappresenti una mera evidenza di carattere quantitativo, dipendente cioè dalla prevalenza del numero di migranti sul totale dei lavoratori occupati in agricoltura , ma sia piuttosto manifesta espressione dello stato di maggiore vulnerabilità in cui di norma versano molti degli stranieri presenti nel nostro Paese.
La propensione dei migranti, soprattutto nel primo periodo di soggiorno in Italia, ad accettare condizioni di lavoro assai poco dignitose non deriva però soltanto da fattori soggettivi di debolezza (si pensi alla mancata conoscenza della lingua o alla scarsa qualificazione professionale o al più marcato stato di bisogno), ma è pure in larga parte imputabile alla precarietà della loro posizione giuridica, che dipende semmai dal modo in cui l’ordinamento sceglie di regolare l’accesso e la permanenza entro i confini nazionali .
Sotto questo profilo, la disciplina italiana dell’immigrazione rivela i propri limiti, che di fatto originano dalla tendenza del legislatore a privilegiare l’esigenza di tutela dell’ordine pubblico rispetto a quella opposta di protezione, inclusione e integrazione dello straniero nel tessuto sociale del paese di accoglienza . Emblematico in tal senso è il ruolo assegnato al lavoro che, nell’economia gestoria del fenomeno migratorio, più che un momento irrinunciabile del processo di integrazione effettiva del migrante è inteso quale principale strumento di controllo delle migrazioni e di governo del fabbisogno nazionale di manodopera . Di questo si ha, del resto, immediata evidenza allorché ci si confronti sia con il complesso di disposizioni dedicate all’«ingresso nel territorio dello Stato per motivi di lavoro subordinato, anche stagionale, e di lavoro autonomo» (artt. 21-27, d.lgs. n. 286/1998), ove l’obiettivo della legislazione sembra essere quello di condizionare a priori l’occupabilità dei lavoratori stranieri, “nei limiti e in funzione della sua utilità a colmare un eccesso di domanda nel contesto del mercato del lavoro nazionale” ; sia con la tormentata regolazione delle forme di protezione internazionale, nel cui ambito la finalità di inserimento lavorativo è quantomeno cedevole dinnanzi alle esigenze di contenimento che ormai da tempo animano l’intervento normativo . Nel primo caso, infatti, il rilascio del titolo di soggiorno per accedere e rimanere regolarmente nel territorio nazionale è subordinato alla (pre)esistenza di un rapporto di lavoro e al rispetto del meccanismo di limitazione dei flussi, compendiato nel sistema delle c.d. quote e dell’autorizzazione individuale; nel secondo caso, a condizionare la regolarità della posizione giuridica dello straniero è invece la stessa procedura di riconoscimento della protezione internazionale, il cui esito è in grado di precludere anche in via definitiva la permanenza (lecita) in Italia .
Per apprezzare l’incidenza dello status giuridico nella causazione della condizione di maggiore vulnerabilità ascrivibile ai migranti, occorre allora indagare meglio la relazione tracciata dal legislatore tra titolo di soggiorno e lavoro, poiché – rispetto al tema dello sfruttamento – è qui che sembrano annidarsi molti dei principali fattori di rischio.
3.1. La disciplina degli ingressi per motivi di lavoro stagionale.
Nella prospettiva poc’anzi delineata, stante la natura dell’attività agricola, a venire in rilievo è anzitutto la previsione dettata dall’art. 24, d.lgs. n. 286/1998, per consentire l’ingresso degli stranieri per motivi di lavoro stagionale. Tale disciplina è affetta, in particolare, da un duplice vizio di origine: da un lato, essa risente delle scelte operate dal legislatore europeo con la dir. 2014/36/Ue, che considera la migrazione stagionale ontologicamente temporanea, al più reiterabile nel tempo; dall’altro, sconta le rigidità del sistema italiano di accesso degli stranieri al mercato del lavoro, che, oltre alla scarsa effettività e alla limitata capienza delle quote (oggi solo parzialmente attutite dalle previsioni del d.l. n. 10/2023), postula – come si è detto – anche la necessaria preesistenza del contratto di lavoro ai fini del rilascio del permesso di soggiorno .
Al di là delle semplificazioni procedurali e di alcuni temperamenti introdotti in sede di attuazione della direttiva europea, è il carattere in sé transitorio della migrazione stagionale a determinare la maggiore precarietà della posizione giuridica degli stranieri. Sotto questo profilo, occorre infatti considerare la durata limitata del titolo di soggiorno, che, ai sensi del combinato disposto degli artt. 5, c. 3-bis, lett. a), e 24, c. 7, d.lgs. n. 286/1998, non può essere superiore a nove mesi in un periodo di dodici mesi, e la ristretta possibilità di stabilizzazione della propria permanenza in Italia, posto che la conversione del permesso di soggiorno in lavoro subordinato è ammessa, nei limiti delle quote disponibili, solo nei riguardi di coloro che abbiano svolto regolare attività lavorativa sul territorio nazionale per almeno tre mesi e ai quali sia offerto un contratto di lavoro subordinato a tempo determinato o indeterminato (art. 24, c. 10). Requisiti, questi, che alla luce delle peculiarità del settore agricolo si rivelano di non immediata integrazione.
A ciò si può aggiungere la scelta di sottrarre i migranti stagionali dall’ambito di applicazione delle regole sull’indennità di disoccupazione , che soprattutto in agricoltura rischia di alimentare la spirale delle irregolarità riconducibili all’improprio utilizzo di tale forma di tutela previdenziale .
In questo senso, sebbene non siano del tutto risolutivi delle criticità insite nel sistema di accesso al lavoro, sono comunque da apprezzare gli sforzi compiuti di recente dal legislatore per rafforzare la capienza dei canali legali di accesso al mercato del lavoro e così attenuare le inefficienze ascrivibili al meccanismo di programmazione degli ingressi . A destare perplessità è semmai la perdurante esclusione del comparto agricolo dai settori destinatari dei flussi di ingresso (non stagionali): se è vero, infatti, che il ricorso alla logica c.d. incrementale delle quote permette ora di ampliare in corso d’anno il numero degli accessi consentiti per motivi di lavoro stagionale, non si è tuttavia mancato di rilevare come “la progressiva destagionalizzazione delle colture richiederebbe l’introduzione di quote a tempo indeterminato” anche per il settore agricolo .
3.2. Le migrazioni per ragioni umanitarie.
Fuori dall’area delle migrazioni lato sensu economiche, la maggiore precarietà dello status giuridico degli stranieri è invece riconducibile alle opzioni regolative adottate nell’ambito delle c.d. migrazioni forzate. Qui, infatti, si sono riversate molte delle inefficienze imputabili al mal funzionamento del sistema delle quote e, più in generale, alla ristrettezza delle vie di ingresso per motivi di lavoro, che hanno finito per deviare la domanda di soggiorno verso la protezione internazionale .
Sebbene la complessità della materia non consenta di esaurirne in poche battute l’ampiezza, né di evidenziarne le molteplici criticità, frutto anche del continuo avvicendarsi di interventi normativi animati da rationes non sempre tra loro coerenti, è comunque possibile dare almeno conto degli aspetti che più incidono sulla condizione di vulnerabilità dello straniero. A questo proposito, l’attenzione è rivolta soprattutto ai richiedenti asilo, considerata la provvisorietà che caratterizza il loro status giuridico sino alla definizione del procedimento di riconoscimento della protezione internazionale. La condizione già di per sé precaria è però aggravata dai tempi di rilascio e dalla durata iniziale del permesso di soggiorno (limitata a sei mesi) che, pur se compatibile con lo svolgimento di attività lavorativa e rinnovabile sino all’esaurimento dei rimedi contro il diniego della protezione internazionale, spesso non consente l’avvio di veri e propri percorsi di inserimento lavorativo .
A limitare ulteriormente l’integrazione dei richiedenti asilo è anche lo stesso sistema di accoglienza, sul quale pesano le modifiche introdotte dagli interventi legislativi più recenti. Il d.l. n. 20/2023 (c.d. decreto Cutro), sulla scia del precedente d.l. n. 113/2018 (c.d. decreto sicurezza), ha infatti sensibilmente ridotto l’accesso alle strutture del Sistema di Accoglienza e Integrazione (c.d. SAI, ex SPRAR), relegando la gran parte dei richiedenti asilo presso i Centri di Prima Accoglienza (CPA), i Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS) ovvero, nelle more dell’individuazione di tali strutture, presso i centri provvisori di nuova istituzione e di competenza prefettizia, compromettendone di fatto le chances di inserimento.
Se a questo si aggiungono la mancanza di un meccanismo che consenta la conversione del titolo di soggiorno da richiesta di asilo a lavoro e le ristrette possibilità di conversione in permesso di soggiorno per motivi di lavoro di gran parte dei titoli riconoscibili allo straniero privo dei requisiti per accedere alla protezione internazionale, ben si comprende come il quadro sin qui brevemente rappresentato non solo non costituisca una valida alternativa all’irregolarità, ma si muova in direzione opposta e contraria anche alla migliore delle strategie di prevenzione del rischio di sfruttamento lavorativo e caporalato.
4. Quali soluzioni, dunque, per un fenomeno multidimensionale?
Le criticità evidenziate in relazione ai profili esaminati risultano solo in parte incise dalle più recenti iniziative di prevenzione e di contrasto adottate dall’ordinamento. A livello nazionale, in particolare, la consapevolezza della multidimensionalità dei fenomeni in discorso ha orientato l’azione pubblica verso la costituzione di Tavoli e attività di natura programmatica, sfociate nella redazione di accordi e protocolli di intesa tra le diverse istituzioni presenti sul territorio, il cui maggior pregio è forse quello di aver messo in un certo senso a sistema le principali aree di sofferenza, prospettando almeno in astratto un approccio di intervento integrato e multilivello . In questo contesto si colloca, infatti, il Piano triennale di contrasto allo sfruttamento lavorativo in agricoltura e al caporalato (2020-2022) , adottato nell’ambito del Tavolo operativo per la definizione di una nuova strategia di contrasto al caporalato e allo sfruttamento lavorativo in agricoltura, nonché il Piano nazionale per la lotta al lavoro sommerso, all’interno del quale pure si prevedono politiche mirate al contrasto del lavoro nero in agricoltura. Pur se apprezzabili negli intenti, gli esiti ancora poco palpabili di tali iniziative finiscono per disvelarne anche i limiti, che derivano non solo dalla ridondante moltiplicazione dei protocolli e dei Tavoli periodicamente istituiti, ma spesso anche dal difettoso coordinamento delle azioni intraprese tra i diversi livelli istituzionali di azione .
Accanto a tali iniziative, a suscitare un certo interesse per le sue possibili ricadute (anche) in agricoltura, è poi l’introduzione dell’applicativo Inps denominato Mo.C.O.A. (Monitoraggio Congruità Occupazionale Appalti), che permette di verificare la congruità degli adempimenti contributivi delle imprese appaltatrici e subappaltatrici, in relazione alla manodopera regolarmente denunciata. In questo modo, superando i limiti intrinseci del Durc, l’implementazione di tale strumento consente infatti al committente di identificare in maniera più agevole e puntuale tutte le controparti contrattuali e di estromettere gli operatori economici che adottano comportamenti elusivi o fraudolenti, concorrendo così ad indirizzare anche l’attività normativa e amministrativa dei soggetti pubblici deputati a prevenire e contrastare gli illeciti . Più specificamente, l’applicativo si basa su un processo di data crossing tra le denunce contributive (Uniemens) trasmesse da appaltatori e subappaltatori e i dati presenti nell’applicativo di monitoraggio Mo.C.O.A., all’esito del quale viene elaborato un report mensile che dà evidenza di eventuali anomalie, discordanze o incoerenze. Tra i dati che il committente deve indicare vi è pure la percentuale d’impiego del singolo lavoratore in relazione alle giornate di lavoro complessive nell’arco del mese, la cui mancanza determina una presunzione di impiego del lavoratore nel singolo appalto pari al 100% . Alla luce delle peculiarità del settore agricolo, v’è da chiedersi se e quanto una simile previsione possa incidere, oltre che sul profilo di affidabilità delle imprese della filiera legate da appalti e subappalti, almeno indirettamente su altri aspetti cruciali come, per esempio, la disciplina previdenziale della disoccupazione agricola.
A tale tipologia di interventi, se ne affiancano altri, che mirano ad una più equa distribuzione del valore all’interno della filiera agroalimentare e agroindustriale. Tra questi, in particolare, l’istituzione presso l’Inps della Rete del lavoro agricolo di qualità, attraverso la quale il legislatore si propone “di improntare la domanda di prodotti agricoli all’eticità dei metodi produttivi” e, facendo leva su meccanismi di tipo premiale/reputazionale, di incentivare i datori di lavoro a comportamenti virtuosi e socialmente sostenibili . Ciò nondimeno, l’esperienza della Rete stenta ancora a decollare e molte delle sue potenzialità sono rimaste largamente inespresse. In primo luogo, essa sconta la tendenza dell’ordinamento a realizzare riforme “a costo zero”, che in questo caso importa il mancato investimento in termini di risorse umane, strumentali e finanziarie e si scontra con la scelta di affidarne la gestione ad un istituto già di per sé carico di funzioni . Quanto ai benefici, poi, l’unico reale vantaggio conseguibile dalle imprese agricole con l’iscrizione alla Rete consiste nell’esenzione delle stesse dai controlli ispettivi, salvo che l’intervento non sia richiesto dal lavoratore, dalle organizzazioni sindacali, dall’autorità giudiziaria o amministrativa. Si tratta peraltro di una previsione assai discutibile, che finisce per ammantare di mera formalità l’adesione alla Rete, specie ove si consideri che essa può spesso dipendere dalle richieste in tal senso provenienti dai vertici della filiera (in particolare, Gdo e imprese della trasformazione) ovvero anche dalla volontà di accedere ai sistemi di condizionalità e di premialità talora previsti dalla normativa regionale .
4.1. La direttiva n. 2019/633/Ue in materia di pratiche commerciali sleali e la sua attuazione nell’ordinamento italiano.
La centralità delle dinamiche interne alla filiera agroalimentare ai fini del discorso sulla prevenzione e sul contrasto del caporalato e dello sfruttamento lavorativo, impone di considerare anche le più recenti misure adottate in sede europea per attenuare le distorsioni del mercato, ristabilire l’equilibrio delle relazioni negoziali e tutelare la libera concorrenza tra imprese.
A venire in rilievo è anzitutto la direttiva del 17 aprile 2019, n. 633, con la quale l’Unione costruisce un quadro normativo comune in materia di pratiche commerciali sleali, che si inserisce e completa il panorama già ampio di provvedimenti intervenuti nel tempo per regolare i rapporti interni alla food chain .
Nel mettere a punto la propria politica di regolazione del mercato agroalimentare, il legislatore europeo ha inizialmente privilegiato, da un lato, il ricorso a strumenti di soft law, incoraggiando l’implementazione di codici di condotta e lo sviluppo di buone prassi, dall’altro ha cercato di rafforzare il ruolo dei produttori agricoli nelle trattative per la formazione del prezzo, promuovendone l’associazionismo e definendo al contempo regole per la trasparenza dei contratti di prima vendita di prodotti agricoli . L’efficacia di questa strategia basata essenzialmente su meccanismi volontaristici, come tali rimessi alle scelte dell’autonomia privata, è stata invero piuttosto debole, limitandosi peraltro a intervenire solo sul primo tratto dei rapporti di filiera, senza coinvolgere i soggetti che nell’ambito di essa detengono un potere contrattuale ed economico assai più consistente . Da questo punto di vista, dunque, la direttiva innova sensibilmente l’approccio fino a quel momento perseguito dall’ordinamento sovranazionale, affiancando a strumenti normativi quali contratti di filiera, accordi e protocolli d’intesa un livello minimo di tutela, rafforzato dalla previsione di misure sanzionatorie ed esteso a tutte le imprese della catena di approvvigionamento agroalimentare.
A livello nazionale, a dare attuazione alla direttiva n. 633/2019/Ue è stato il d.lgs. 8 novembre 2021, che invero abbraccia una prospettiva più ampia rispetto a quella sottesa al provvedimento europeo. Ciò emerge sia dalla struttura del decreto, che, oltre a recepire le previsioni dettate in materia di pratiche commerciali sleali, accoglie anche le disposizioni sui contratti di cessione precedentemente disciplinati dall’art. 62, d.l. n. 1/2012, conv. da l. 27/2012; sia in relazione all’individuazione dei soggetti protetti e delle stesse fattispecie vietate. Rispetto a tale ultimo profilo, in linea con quanto previsto dall’art. 9 della direttiva e sulla scorta dell’art. 7, c.1, lett. h) e l), della legge delega n. 53/2021, il legislatore italiano ha introdotto una disciplina più rigorosa di quella prevista dall’Unione europea. Accanto all’elenco delle pratiche necessariamente vietate, che si conforma a quello contenuto all’art. 3 della direttiva, l’art. 5 del d.lgs. n. 198/2021 ne individua infatti di ulteriori, tra le quali in particolare si segnalano “l’acquisto di prodotti agricoli e alimentari attraverso il ricorso a gare e aste elettroniche a doppio ribasso” (lett. a) e “l’imposizione di condizioni contrattuali eccessivamente gravose per il venditore, ivi compresa quella di vendere prodotti agricoli e alimentari a prezzi al di sotto dei costi di produzione” (lett. b) .
Accanto alla regolazione di tali aspetti, il cui rilievo ben si coglie ove se ne consideri l’impatto sull’equa distribuzione del valore all’interno della filiera, l’art. 6 del d.lgs. n. 198/2021 si preoccupa comunque di promuovere la diffusione di “buone pratiche commerciali” quale componente essenziale della strategia integrata di regolamentazione del mercato agricolo, individuando le caratteristiche essenziali per l’adozione di accordi e contratti di filiera. In proposito, merita in particolare di essere evidenziata la previsione posta dal c. 3 dell’art. 6, per il tramite della quale si consente di pubblicizzare, ai fini della vendita dei prodotti agricoli e alimentari oggetto dei contratti e degli accordi di cui al c. 1, l’adozione di buone prassi, ponendo così l’accento sugli strumenti utili a valorizzare l’eticità della filiera e a garantire un consumo sostenibile e responsabile.
Nel suo complesso, la disciplina dettata dal d.lgs. n. 198/2021 sembra cogliere molte delle sollecitazioni provenienti dal Piano triennale contro lo sfruttamento lavorativo e il caporalato, se si tiene conto della crescente attenzione riservata all’incidenza dei costi di produzione nella determinazione del prezzo dei prodotti agricoli, alla promozione della responsabilità sociale attraverso i contratti di filiera e alla partecipazione delle imprese agricole a sistemi di certificazione etica dei prodotti . A ben guardare, tuttavia, si può comunque riscontrare un certo disallineamento con agli obiettivi di tutela del lavoro, a tratti cedevoli rispetto a quelli che presidiano l’equilibrio delle relazioni contrattuali. Emblematica, in tal senso, è da una parte la mancata sinergia tra le attività assegnate all’Ispettorato centrale della tutela della qualità e della repressione delle fronti (ICQRF), quale autorità nazionale deputata a contrastare le pratiche commerciali sleali , e quelle tipicamente riconosciute agli enti che assicurano il rispetto dei diritti dei lavoratori (in primis l’Ispettorato del lavoro); dall’altra, la mancata menzione dei profili di tutela del lavoro all’interno delle norme che individuano i caratteri essenziali delle buone pratiche commerciali, nonché il mancato coordinamento con gli strumenti istituzionali individuati per il contrasto allo sfruttamento lavorativo, tra i quali soprattutto la Rete del lavoro agricolo di qualità .
4.2. La nuova politica agricola comune e le clausole di condizionalità sociale.
A completare il quadro delle misure europee è l’inserimento, all’interno della Politica Agricola Comune 2023-2027 , della c.d. condizionalità sociale, destinata a rafforzare – sia pure indirettamente – la tutela del lavoro nelle imprese agricole . Con essa, il legislatore europeo allinea dunque gli obiettivi dettati dall’art. 39 TFUE in materia di politica agricola a quelli, più generali, sottesi all’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, consolidando al contempo il proprio impegno nella costruzione di “un sistema alimentare sostenibile” .
Nel declinare la c.d. condizionalità sociale, che senz’altro rappresenta uno dei profili regolativi di sicura novità della nuova PAC, l’art. 14, par. 1, del regolamento n. 2021/2115 del Parlamento europeo e del Consiglio pone in capo agli Stati membri l’obbligo di prevedere nei propri piani strategici una sanzione amministrativa da applicare ad agricoltori e agli altri beneficiari di pagamenti diretti o di pagamenti annuali, che non rispettino “i requisiti relativi alle condizioni di lavoro e di impiego applicabili o agli obblighi del datore di lavoro derivanti dagli atti giuridici di cui all’allegato IV”. Il successivo par. 3 ha poi cura di precisare le caratteristiche dell'apparato di sanzioni amministrative introdotte in forza di tale disposizione, che deve essere infatti “efficace e proporzionato”, sì da preservarne la reale capacità dissuasiva .
L’effettiva incidenza di tale strumento sul livello di tutela dei lavoratori impiegati in agricoltura non dipende però soltanto dall’adeguatezza del sistema sanzionatorio, ma è influenzata altresì dal novero di disposizioni presidiate dal meccanismo della condizionalità, che vengono qui individuate nell’allegato IV al regolamento n. 2021/2115. Si tratta, in particolare, della direttiva n. 2019/1152/Ue in materia di “Condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili”; della direttiva n. 89/391/Cee sulle “Misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori”; e da ultimo, della direttiva n. 2009/104/Ce sui “Requisiti minimi di sicurezza e di salute per l’uso delle attrezzature di lavoro da parte dei lavoratori” .
Pur senza disconoscerne la rilevanza e le sue possibili ricadute in termini di contrasto allo sfruttamento lavorativo e al caporalato in ambito agricolo, non si possono tuttavia non notare le criticità sottese alla disciplina europea qui sommariamente descritta. In questo senso, a destare maggiore perplessità è, da un lato, la selezione operata dal legislatore europeo con riguardo alle disposizioni di tutela da garantire attraverso la condizionalità, e, dall’altro, la mancata valorizzazione della funzione sociale e di regolazione della contrattazione collettiva nazionale . In particolare, sotto il primo profilo, a pesare è ad esempio l’assenza di qualsivoglia riferimento alla normativa in materia di lavoro stagionale e di immigrazione , nonché la mancata menzione di quelle aree di tutela attorno alle quali sono stati costruiti gli stessi indici dello sfruttamento lavorativo ex art. 603-bis c.p. (si pensi, ad esempio, alla disciplina dell’orario di lavoro). A questo può aggiungersi, da ultimo, la stessa scelta di declinare la condizionalità sociale sotto forma di decurtazione degli aiuti e di punirne la violazione con una sanzione amministrativa, senza tuttavia precluderne del tutto l’accesso .
4.3. La responsabilità da reato degli enti e possibili spunti di riflessione a partire dall’art. 2086, c. 2, c.c.
Nell’indagare i possibili strumenti di prevenzione del fenomeno del caporalato e dello sfruttamento lavorativo nell’ambito della filiera agroalimentare, merita infine di essere menzionata l’inclusione dell’art. 603-bis c.p. fra i reati presupposto della responsabilità amministrativa degli enti ex d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 .
La scelta di attrarre la fattispecie delittuosa all’interno della criminalità economica, nel tentativo di responsabilizzare la società nell’interesse o a vantaggio della quale abbia luogo la commissione del reato , induce a domandarsi se - per il tramite di questa disciplina - sia possibile spingersi sino al punto di pretendere che il vertice della filiera controlli pure la compliance delle imprese produttrici. In proposito, se è vero, infatti, che l’adozione del modello di organizzazione, gestione, controllo (c.d. MOG) non è obbligatoria, occorre tuttavia considerare come, nella dottrina giuscommercialistica, sia stata da tempo affermata l’esistenza di un dovere generale delle società di organizzarsi in modo da rispettare la legge – dovere che sorge perciò a prescindere dall’implementazione di un sistema sofisticato come quello delineato dal decreto n. 231/2001 . Tale conclusione, in particolare, è stata più di recente ancorata all’art. 2086, c. 2, c.c. nella parte in cui prevede che gli imprenditori (collettivi) si dotino di assetti organizzativi adeguati, funzionali, oltre che alla rilevazione tempestiva della crisi (aspetto qui, naturalmente, del tutto inconferente) anche ad altri fini, tra i quali la dottrina ha individuato appunto il rispetto della legge . Ciò consente, dunque, di ritenere che le società debbano sempre dotarsi di misure che impediscano al proprio interno la commissione del reato di caporalato e sfruttamento lavorativo. Il vero limite dello strumento previsto dal d.lgs n. 231/2001 (e per conseguenza dell’obbligo di adeguatezza degli assetti) è, semmai, rappresentato dal confine invalicabile della personalità giuridica, che impedisce di estenderne gli effetti oltre la singola società . Il che significa, ai nostri fini, che tali previsioni non possono valere ad imporre all’impresa collocata al vertice della filiera produttiva l’obbligo di controllare le modalità di reclutamento dei lavoratori seguite dalle imprese a valle.
Rispetto a tale ultimo profilo, si potrebbe tuttavia sostenere che il citato obbligo di adeguatezza degli assetti a garantire la legalità dell’azione della società di vertice includa anche la prevenzione di fenomeni di abuso della dipendenza economica dei produttori e, conseguentemente, il divieto di imporre agli stessi prezzi eccessivamente bassi capaci di annullare ogni margine di profitto. Ciò nondimeno resta il problema, invero di non poco momento, di far valere in giudizio l’omissione di simili misure organizzative interne da parte dei produttori. Aspetto, questo, che rende tale soluzione difficilmente percorribile in concreto.
Ci si potrebbe allora domandare, ma la risposta esula dalle competenze di chi scrive, se un’opzione interpretativa ulteriore possa essere quella di trarre dal rapporto di dipendenza economica tra un’impresa di vertice della filiera e quella immediatamente subordinata, la sussistenza di un controllo contrattuale ex art. 2359, n. 3, c.c. e, conseguentemente, la presunzione di esistenza di un gruppo ex art. 2497-sexies. Questo potrebbe fondare, secondo quanto ritenuto dalla dottrina giuscommercialistica, un obbligo in capo alla società posta al vertice (quale capogruppo) di verificare che le sue eterodirette abbiano adottato degli assetti organizzativi adeguati e, dunque, che siano strutturate per evitare a propria volta il reato di caporalato . Ma, ad ogni modo, ciò non basterebbe comunque a fondare l’esistenza di un obbligo giuridico in capo alla società al vertice della filiera di controllare l’adeguatezza degli assetti lungo tutta la catena di approvvigionamento.
Se così è, pare allora più utile provare ad affinare soluzioni giuridiche che possano condurre a una maggiore responsabilizzazione delle imprese dominanti all’interno della food chain. In questo senso, si può pensare ad esempio alla previsione dei c.d. indici di congruità, ai quali subordinare la concessione di benefici e agevolazioni pubbliche , oppure all’opportunità di incentivare l’allargamento del perimetro della contrattazione collettiva, al fine di coinvolgere anche quei soggetti terzi che, per il tramite di contratti commerciali (appalti, subappalti, fornitura, affiliazione commerciale) stipulati con le imprese formalmente datrici di lavoro, sono in grado di esercitare un’influenza determinante sulle condizioni di lavoro e sul livello dei salari dei lavoratori dipendenti da queste ultime .