testo integrale con note e bibliografia
1. L’ordine del discorso dopo le sentenze della cassazione. Nel suo commento “ a caldo” sulla Voce.info sulle sentenze (ad oggi 4) della Suprema Corte emesse nella stessa data del 2.20.2023, con motivazioni sostanzialmente identiche, dalla Corte di cassazione sul tema del “salario minimo costituzionale” Pietro Ichino, a ragione, sottolinea il carattere fortemente innovativo di tali decisioni ,“ una vera e propria svolta giurisprudenziale . Ichino segnala, però, che il ”ruolo di supplenza giudiziaria che in esse si delinea appare eccessivo. Il singolo giudice ordinario non può assumersi il compito- costituzionalmente proprio della politica e del ruolo delle relazioni sindacali- di stabilire il bilanciamento migliore tra il valore della piena occupazione e quello del necessario sostegno ai livelli salariali più bassi”. Conclude con una proposta di fissazione del salario minimo legale a livello territoriale, sulla base di determinazioni dell’Istat, che moduli gli standard minimi da rispettare (ed aggiornare) da parte della contrattazione collettiva . Torneremo su quest’ultima proposta operativa molto problematica che ha, tuttavia, il merito di indicare una via legislativa per rispondere alle sollecitazioni ed alla “messa in mora “ del legislatore da parte delle decisioni della Corte di cassazione onde “superare conservando”, volendo usare una nota espressione hegeliana, soluzioni meramente giudiziarie che, senza alternative percorribili , rimarrebbero doverose secondo il primario messaggio lanciato dalla Corte ,in linea con la conclamata (da più di settant’anni, come ricorda anche Ichino) natura precettiva dell’art. 36 Cost . La necessità di salvaguardare retribuzioni “adeguate” trova un sostegno etico e politico-istituzionale di rilievo continentale nella direttiva UE 2022/2041 e nell’art. 6 dell’European Social Pillar, anche se – come si dirà- non di applicazione diretta sul punto della determinazione di un salario minimo decoroso nella deprimente situazione italiana.
Tornando alla decisioni della cassazione effettivamente ne va rimarcato il coraggioso carattere innovativo: la Corte infatti ha richiamato i suoi precedenti e la lunga marcia compiuta per l’attuazione del precetto costituzionale sulla “ giusta retribuzione” (in armonia con le fonti internazionali- dalla Dichiarazione del 48, al Patto ONU del 1966, alle Convenzioni ILO) ma aggiornandone l’ethos e l’impostazione di fondo per adattarla allo stato di cose presenti . Si vedano i punti 33-38 (dalla sentenza 27771/23):
“Quello appena richiamato integra un orientamento già consolidato a cui questo Collegio intende dare continuità nella decisione di questa causa, in quanto conforme alle regole ed allo spirito della nostra Costituzione, ed a cui occorre apportare solo alcune limitate precisazioni per fugare taluni dubbi e chiarire il consolidato orientamento di legittimità a fronte della realtà di fatto che si è venuta a determinare negli ultimi tempi nel nostro Paese, e dentro la quale si colloca oggi la questione della sindacabilità del contratto collettivo nazionale di categoria sottoscritto da OO.SS. maggiormente rappresentative, che è oggetto della controversia.
Si tratta di una realtà che è già stata posta più volte all’attenzione della magistratura del lavoro, della magistratura amministrativa e persino della magistratura penale, chiamate ad interloquire in diverso modo sulla misura dei salari fissati in sede collettiva, anche ad opera di organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative .Ciò ha creato una rinnovata attenzione dialettica sul tema anche da parte della dottrina, sollecitata da ultimo dall’intervento della Direttiva già in precedenza richiamata, in materia di salari adeguati all’interno dell’Unione Europea, n. 2022/2041 del 19 ottobre scorso”.
Sino a pochi anni orsono l’art. 36 era il grimaldello per una estensione dei contratti anche nei rapporti non contrattualizzati oppure per il richiamo di un contratto diverso da quello applicato dal datore di lavoro ritenuto più appropriato a raggiungere l’obiettivo costituzionale della “ sufficienza“ retributiva : il CCNL ( allora pacificamente quello nazionale) era visto come il motore privilegiato per raggiungere condizioni di lavoro più eque ed equilibrate ( ). Oggi invece sono proprio i contratti, anche quelli firmati dai sindacati confederali, ad essere chiamati in causa ed a richiedere la complessa, doppia, operazione di “dichiarazione di nullità /integrazione del contenuto” svolta dai giudici ordinari. Sebbene la vasta giurisprudenza richiamata dalla sentenze ultime della cassazione già consentisse questa delicata operazione (sia pure “con la massima prudenza e rispetto per l’azione sindacale” come precisato dalla cassazione nella sentenza 2245/2006 ) c’è qualcosa nelle nuove decisioni che assomiglia ad una sorta di “salto evolutivo” in senso garantista: il problema giudiziario che rischia di affollare gli armadi degli uffici giudiziari (che solo da poco sono stati alleggeriti del contenzioso sul contratti a termine) è infatti l’inadeguatezza drammatica (ed a mio avviso strutturale) della contrattazione collettiva nel proteggere il singolo che viene travolto da atti di eterodeterminazione delle sue condizioni retributive che possono gettarlo in uno stato di povertà ; c’è poco da girarci intorno. Non è certamente un caso che il RDC, pensato per soggetti socialmente esclusi, abbia in modo significativo dovuto integrare il sub-salario dei lavoratori poveri (oggi molto meno dopo l’abolizione dell’istituto). E’ quanto emerge obiettivamente dalle istanze di giustizia portate all’attenzione della Magistratura del lavoro la quale certamente non poteva cavarsela con un “non liquet” , rimettendosi alle determinazioni delle parti sociali, perché avrebbe sconfessato la natura precettiva dell’art. 36 sull’altare di una sacralità del negoziato sindacale ormai antistorica e in linea di rottura con le trasformazioni dei processi produttivi ed anche delle forme di partecipazione collettiva oggi egemoni. Inutile ricordare che anche un Maestro come Gino Giugni seppe coniugare l’idea di un “ordinamento intersindacale” autonomo e dotato di principi propri di regolazione e di capacità evolutive specifiche con quella di uno Statuto dei lavoratori fondato in primis su inaggirabili garanzie della libertà e della dignità individuale alle quali vanno indubitabilmente aggiunte quelle garanzie contenutistiche connesse all’attività di lavoro (come la giusta retribuzione, le ferie, i riposi) protette in Costituzione che, seppure in prima battuta sono concretizzate nei contratti , non possono essere compresse al di sotto di limiti di decenza ( ). Non si può ritenere che un diritto sociale fondamentale come quello ad una retribuzione “sufficiente “ di cui all’art. 36 finisca per diventare un mero epifenomeno della virtuosità e combattività sindacale che oggi soffre di problemi strutturali (su cui insistono le stesse decisioni) di erosione partecipativa di natura epocale, difficilmente reversibili nel lungo come nel medio periodo. E’ certamente stravagante l’idea avanzata dal Cnel che questa funzione di controllo di ultima istanza sull’effettività dell’art 36 della Costituzione da parte della Magistratura possa essere indirizzata dal legislatore che, invece di esercitare pienamente un ruolo di bilanciamento tra principio di autonomia delle parti sociali e diritti individuali inderogabili, obbligherebbe solo il giudice a “valutare il trattamento economico complessivo ordinario e normale (più elevato) spettante al lavoratore in applicazione dei contratti collettivi di maggiore diffusione”. Senza indicazioni quantitative di sorta da parte del legislatore la verifica del Giudice diventerebbe solo più complessa ed opinabile (visto che cosa si intenda per “retribuzione ordinaria e normale” è uno dei temi giudiziari più tormentati) aggredendo in tal modo proprio la sfera dell’articolazione delle voci contrattuali in cui si libera la libertà ed inventiva negoziale. Del resto non si capisce perché si dovrebbero svalutare trattamenti definiti dalle parti sociali come “minimi orari” (che offrono un valore indicativo univoco e facile da individuare, anche in sede ispettiva) autorizzando una loro marginalizzazione funzionale con altre voci contrattuali di incerta natura, che favorirebbe una ulteriore frammentazione compensatoria e l’opacità del sistema nel suo complesso ( ).
2. Supplenza giudiziaria? Due punti vanno ulteriormente esaminati in ordine alle sentenze della Suprema Corte . Il primo riguarda la precisazione per cui la cartina di tornasole del rispetto del principio di “ sufficienza” della retribuzione ex art. 36 vale anche quando il trattamento retributivo sia previsto dalla contrattazione collettiva cosi come delegata dalla legge ( ), come nel caso dei soci di cooperativa e quindi da soggetti sindacali che possiedono gli standard rappresentativi voluti dal legislatore. Nel suo già citato intervento Pietro Ichino prospetta , sia pure con toni molto rispettosi e nella prospettiva di una regolamentazione legislativa che offra un quadro di certezza per tutti, un caso di supplenza giudiziaria nella disapplicazione diretta di leggi ritenute incostituzionali, potere non spettante al giudice ordinario se non in presenza di una violazione del diritto dell’Unione ( ad efficacia diretta). A noi sembra che non ricorra questa ipotesi: nel caso di una disposizione di legge come quella sui soci di cooperativa il controllo ortopedico dei giudici non riguarda la norma in sé (che invece è razionale e giustificata ) ma l’operato successivo della contrattazione che si rivela non idoneo a rispettare in concreto il dettato costituzionale. In questo caso il Giudice, stante il carattere precettivo della norma costituzionale, integra il contratto che, salvo le correzioni disposte, può continuare ad operare. Si tratta di un intervento di natura eccezionale che non ha nessuna necessità di aggredire e cancellare la norma legale di rinvio ai CCNL , che in sé vuole valorizzare l’operato dei sindacati maggiori e che troverà applicazione laddove rispetti i limiti di trattamento retributivo derivabili dal 36 cost.
Il secondo punto riguarda il rapporto tra il potere equitativo del Giudice di integrazione del trattamento salariale e gli indicatori internazionali richiamati nella direttiva del 2022. Correttamente la Corte di cassazione ha sottolineato che, nella ricerca di corretti e razionali parametri per accertare la “ sufficienza “ della retribuzione, il Giudice può certamente riferirsi a quelli internazionali che indubbiamente la direttiva vuole promuovere negli ordinamenti degli stati. La direttiva infatti mira a rendere il più possibile effettivo l’art. 6 dell’European social pillar che, pur lasciando inalterato il tabù della legislazione europea in materia di retribuzione (art. 153.5 TFUE), vuole facilitare e rendere più efficaci e trasparenti i sistemi e le procedure contrattuali o legali degli stati membri per raggiungere salari “ adeguati”. Sono certamente vere le osservazioni del Report del Cnel sul fatto che la direttiva non obbliga l’Italia ad introdurre un sistema di salario minimo legale e che l’art. 5.4. della direttiva (ed anche il Considerando n. 28), che fanno riferimento agli standard internazionali si riferiscono agli stati che hanno scelto questo sistema. La cassazione ci sembra abbia semplicemente affermato al punto 24.2 che “ nella ricerca demandata al giudice interno dall’art. 36 Cost. possono aiutare inoltre i criteri, menzionati nel considerando n. 28 ( e richiamati all’art. 5) della Direttiva, a proposito degli “indicatori e valori associati per orientare la valutazione degli Stati circa l’adeguatezza dei salari minimi legali” trattandosi di indicatori che l’Unione considera pertinenti per qualificare una retribuzione come “ adeguata”. L’espressione usata “ nella ricerca… possono certamente aiutare… “ rende evidente che non si è alluso ad un’applicazione diretta ed ante tempus di norme della Direttiva anche per un sistema ancora a matrice contrattuale come quello italiano, come peraltro non sarebbe possibile neppure per uno stato che adotta salari legali perché l’art. 5.4 dice che lo stato “può” ma non deve recepire questa standard e la norma si riferisce ai meccanismi non di determinazione primaria del salario minimo ma del suo aggiornamento nel tempo. Si tratta quindi della mera possibilità (opportunità) di recepire indirettamente ed ai fini di un giudizio di “equità” criteri di valutazione comunemente condivisi nei paesi OCSE e valorizzati in una direttiva di attuazione del Social Pillar (peraltro secondo le indicazioni della stessa direttiva congiuntamente ad altri indicatori nazionali come possono essere quelli Istat sul costo della vita e sulla soglia di povertà richiamati in sentenza) . La Corte di cassazione sembra condividere sul punto le più recenti indicazioni della Consulta sul rapporto di feconda contaminazione nell’Unione europea tra fonti diverse come “elementi ” di un sistema, pur nella reciproca distinzione di obblighi e responsabilità diverse. Quanto riferito nelle sentenze sull’obbligo per i giudici di tenere in conto delle direttive anche nel periodo di recepimento non chiama ad una sorta di applicazione “conforme” in senso tecnico ma solo- come già detto- alla possibilità di considerare quei criteri di valutazione di “adeguatezza del salario” nel giudizio equitativo di cui si parlato ( ). Del resto come emerge dallo stesso Rapporto Cnel ( giustamente preoccupato sul punto) non vi è alcun dubbio che la direttiva comunque obbliga ad alcuni adempimenti anche lo Stato italiano come quelli di “ mappatura” dei salari, di comunicazione dei relativi dati agli organi sovranazionali , di apprestamento di sistemi di maggiore trasparenza etc. e che va ancora stabilito più da vicino il “che fare” sulle modalità di recepimento di questa direttiva, tanto sofferta quanto “rivoluzionaria” per l’Europa sociale sul rispetto della quale certamente la Corte di giustizia sarà, crediamo, particolarmente severa ( ).
3. Dai Giudici alla legge: un passo obbligato. Quel che mi ha colpito del dibattito italiano degli ultimi anni è il suo tono anacronistico, intransitivo rispetto alle linee di approfondimento internazionale: ci sono voluti oltre vent’anni per avere uno schema di protezione a vocazione universalistica dal rischio di esclusione sociale con il RDC: l’Italia è arrivata buon ultima tra i paesi dell’Unione a recepirlo (insieme alla Grecia) ma, seguendo un’ossessione lavoristica, ha mortificato la componente libertaria e promozionale delle tutele di una dignità di base delle persone (anche come strumento di contrasto del lavoro povero e precario), finendo con il travolgere l’originario provvedimento nelle rincorsa dell’occupabilità ad ogni costo in un paese ove il tasso di occupazione è il più basso d’Europa . Come sostennero Altiero Spinelli e Ernesto Rossi nel loro Manifesto di Ventotene nel 1941 il reddito minimo ha una funzione primaria di tutela della libertà di scelta nel lavoro, per lo meno evitando le attività sottopagate e precarie ( ) Il reddito minimo garantito è (oggi) un diritto sociale fondamentale costituzionalizzato in UE dall’art. 34 terzo comma della Carta dei diritti ( e dagli artt. 30 e 31 della Carta sociale europea del Consiglio d’Europa),ribadito all’art. 14 del Pilastro sociale europeo. Sulle modalità di garanzia di tale diritto da vent’anni l’Europa opera una imponente opera di coordinamento e monitoraggio selezionando le best practises (anche attraverso Raccomandazioni) e la sorveglianza sui tassi di povertà è diventata un momento di verifica della più generale sorveglianza sulla sostenibilità macro-economica degli stati nazionali. In genere i paesi dell’OCSE recepiscono queste linee di tendenza regolativa e il reddito minimo costituisce una politica raccomandata anche dall’ILO. E’ mai possibile che ancora vi sia discussione sulla necessità di una copertura dei bisogni essenziali dei cittadini e che questa doverosa tutela sia scambiata come uno strumento per reperire un lavoro (per giunta anche “senza qualità”)? . Il dibattito sul salario minimo ha sino a pochi mesi orsono replicato questa postura etnocentrica per cui ci sarebbe sempre una soluzione “interna” per il bel paese che non tiene conto delle esperienze di altri paesi a noi vicini (anche per impianto costituzionale) e delle opinioni delle organizzazioni internazionali visto che il salario minimo è già adottato da 21 paesi UE (più la Gran Bretagna), è desumibile come mezzo di attuazione del diritto ad un’equa retribuzione definito da Bill of rights come la Dichiarazione del 48, è una politica ufficiale dell’OCSE e dell’ILO. Reddito minimo garantito (RMG) e salario minimo sono quegli strumenti di ingegneria sociale che i paesi occidentali (e non solo) hanno elaborato e poi perfezionato per combattere in senso garantista due macro-fenomeni che affettano il capitalismo contemporaneo la povertà (anche lavorativa) e la tendenza dei salari a non crescere adeguatamente. Il dibattito anche economico si è già svolto sull’idoneità di queste misure, quanto meno dalla fine degli anni 70 nella polemica assai aspra tra neokeynesiani e neomonetaristi. Sappiamo già che schemi di salario minimo o di RMG non portano ad abbassare i tassi di occupazione (come ricordano le premesse della Raccomandazione del 30.1.2023 del Consiglio UE sul RMG e della direttiva sui salari) così come un salario minimo a 9 euro, secondo le simulazioni dell’INPS nel suo Rapporto annuale del 2020, avrebbe effetti benefici sulla situazione economica interna. L’avere l’Italia seguito percorsi eccentrici e conservatrici rispetto a quelli indicati a livello sovranazionale l’ha portata a due record negativi macroscopici: tra i paesi dell’OCSE è l’unico che ha visto declinare i propri salari nel periodo 1990-2020 (del 12% dal 2008 ad oggi) ed è ( salvo Bulgaria e Romania) il paese che ha il più alto tasso di persone a rischio di esclusione sociale (più di un quarto). Insomma questo paese si mostra timido ed incerto ogni volta in cui occorre puntellare la dignità essenziale delle persone che lavorano orientando o fissando limiti invalicabili all’azione delle loro associazioni oppure distribuendo risorse (reddito minimo) che non passano attraverso negoziati con le parti sociali ( )
La soluzione non può passare per i Tribunali, costringendo nella perdurante inerzia legislativa i lavoratori a rivolgersi alla Magistratura, strada lentissima e costosissima, che attribuisce a questa un potere di correzione dell’opera dei sindacati che può e deve esercitarsi in via eccezionale e straordinaria per evitare i casi più eclatanti come erano quelli esaminati dalla cassazione di compensi minimi orari pari a poco più di 5 euro. Del resto se questo intervento giudiziale diventasse strutturale (come rischia di essere perché stiamo parlando di circa tre/4 milioni di persone) rappresenterebbe un indebolimento fatale dell’associazionismo sindacale e dell’idea stessa di contrattazione collettiva inducendo i lavoratori a negare le loro iscrizioni ed a cercare trattative individuali. Occorre, quindi, che sia la legge a poter dare fiato all’azione sindacale sgravandola dallo stabilire i minimi inderogabili orari e predeterminando una soglia invalicabile che, però, deve avere lo scopo di far salire in generale il livello generale dei salari che è troppo basso. Questa soglia “ simbolica” (nel senso che trasmette l’idea che un’ora di lavoro umano deve costare almeno una somma “adeguata” come pretium dignitatis a coprire i bisogni essenziali della persona) mira ad una ricomposizione del lavoro, nelle sue molteplici attività e forme contrattuali e rappresenta una piattaforma comune per il rilancio dei livelli salariali, attraverso le dinamiche tipiche della contrattazione. Per questo certamente la “soglia” non può essere “regionalizzata” e riportarci al vecchio regime delle gabbie salariali perché perderebbe il carattere ricompositivo di un interesse comune tra le molteplici figure produttive, dopo la guerra tra i circa mille contratti collettivi; inoltre dovrebbe essere esteso a quell’ ampia tipologia di lavoro autonomo le cui prestazioni ancora vengono organizzate sulla base del tempo di lavoro o nei casi la temporalità della prestazione assume un rilievo esistenziale importante ( ). Non voglio entrare nel merito delle proposte di cui si discute in questo momento in Parlamento, certamente esaminato in altri interventi, e mi limito ad osservare che la soglia invalicabile ex lege rappresenta il “volano” di una risposta legislativa alla crisi della capacità regolativa di matrice sindacale della questione salariale e che quindi va fissata ad un livello capace di restituire un carattere decoroso al sistema retributivo nel suo complesso. L’obiezione mossa da più parti (anche dal rapporto Cnel)al valore dei 9 euro orari è che sarebbe più alto dei parametri internazionali (che porterebbero a poco più di 7 euro), ma è evidente che poiché questi parametri sono “ medie” portano a risultati che fotografano i livelli attuali retributivi che sono stati troppo a lungo in caduta libera per via di un sistema che si è inceppato; la soglia della “dignità” dovrebbe riequilibrare per tutti i lavoratori un potere d’acquisto compromesso ed ulteriormente compresso da un’inflazione né prevista né combattuta incisivamente.
Gli ultimi mesi sono stati comunque preziosi; ora si delinea una situazione più chiara rispetto alla quale è più facile prendere posizione. In parte è venuto meno la fiera opposizione di parte sindacale che collocava le associazioni italiane (e spesso anche ambienti della Dottrina pro-labour) in una strana ed ambigua lontananza dalle posizioni del sindacato in paesi a noi più vicini dal punto di vista istituzionale come la Spagna, la Francia o la Germania. Le opposizioni hanno concordato un testo che cerca di dare un certo ordine alle vecchie proposte dei partiti e che lo alleggerisce dalla contestuale riforma delle regole di rappresentanza contando sull’idoneità nel breve periodo della nozione di sindacato comparativamente più rappresentativo a rappresentare un criterio selettivo (seguendo le indicazioni della Consulta) per promuovere la contrattazione collettiva di settore nella determinazione della retribuzione complessiva, cioè proporzionata e sufficiente, pur nel rispetto della soglia di 9 euro orari.
Il Cnel ha offerto una sua lettura del fenomeno delle retribuzioni indecenti ed ha avanzato qualche proposta per promuovere la contrattazione collettiva, orientare l’azione dei giudici, monitorare e valutare il livello dei salari, preparare il complesso recepimento della direttiva. Nel momento in cui si scrive non è noto come il Governo intenda dare seguito al parere del Cnel che è stato ancor più drastico del primo nell’escludere ipotesi di salari minimi legali (almeno in qualche settore a sindacalizzazione minima).
Il tema (di cui lo scorso anno ancora nessuno parlava) è diventato centrale; lavoratori e cittadini possono finalmente farsi un’idea; la direttiva comunque andrà recepita e mantiene la questione salariale “ in agenda”; è diventato ovvio comparare i salari italiani con quelli dei nostri partners principali continentali.
Nell’attesa che la situazione si sblocchi, fortunatamente, c’è comunque un Giudice che ha preso “sul serio” il Testo della nostra Costituzione.