Testo Integrale con note e bibliografia

Abstract
Il lavoro è stato storicamente il cardine principale della cittadinanza. Attualmente si impone la necessità di andare oltre la frontiera del lavoro con una visione antropologica complessiva, che congiunga il lavoro con l’azione e la contemplazione. Nella transizione verso il Lavoro 4.0 e la smart factory, la persona al lavoro può cogliere i vantaggi dell’alleggerimento della fatica materiale e superare la dicotomia tra lavoro intellettuale e lavoro manuale; al tempo stesso si espone al rischio di una riduzione funzionale all’imperativo della produzione illimitata. Contro l’alienazione da lavoro derivante dalla sua identificazione con l’intera persona, occorre aprire la possibilità di attività molteplici grazie anche all’uso positivo delle tecnologie, favorendo la partecipazione di tutti alle risorse della convivenza.

The citizenship has been based foremost on working condition. Now, it is necessary to go beyond the frontiers of work toward a comprehensive anthropology, which can join together working with acting and contemplating. Considering the passage to the so called Work 4.0 and Smart Factory, the person at work can have the advantages of a softer material effort and overcome the dichotomy between intellectual and manual work, while the drawback is a risk of functional reduction to the obligation of an unlimited production. To face the alienation caused by a kind of work covering the whole person, we need to make possible manifold activities thanks to a positive use of technologies too, in order to avoid social splits and to promote a general participation to the common life.

 

1. La cittadinanza e la sua evoluzione

Il lavoro è stato il cardine dell’accesso alla cittadinanza lungo la vicenda della modernità . L’attuale congiuntura storica ci porta a domandarci se non si debba mettere in questione l’idea della equivalenza tra lavoratore e cittadino. Oggi, inoltre, in presenza dei movimenti non più occasionali di migrazione, si apre il problema ulteriore della discrepanza tra i diritti acquisibili con la cittadinanza e i diritti della persona. Questi ultimi sono destinati a rimanere diritti di nessuno in assenza dei requisiti legati alla figura di cittadino di uno stato nazionale, e ciò nonostante la relativa implementazione delle normative, specialmente europee, a favore di riconoscimenti parziali dei bisogni e delle opportunità per i soggetti che mancano di una piena equiparazione ai titolari di cittadinanza. In mancanza di una cittadinanza cosmopolitica, la quale rimane un’aspirazione senza riconoscimenti istituzionali efficaci, le persone che escono dal perimetro della cittadinanza nazionale di origine entrano spesso in una zona di tolleranza sgradevole quando non addirittura di rigetto totale, anche quando ottengono lo status di ‘rifugiati politici’.
É il caso di riassumere rapidamente il percorso della cittadinanza e dei diritti che essa ha interpretato e ha inteso garantire. La cittadinanza moderna si definisce in rapporto a diritti di cui si può godere e a facoltà che possono essere esercitate per fruire di beni e opportunità concernenti la realizzazione esistenziale. In un’analisi evolutiva, la cittadinanza decolla con la conquista dei diritti civili, che sono fondamentalmente i diritti alla proprietà e al libero scambio dei beni. I diritti civili maturano e si consolidano nel fronteggiare l’arbitrio del sovrano assoluto, il quale viene così circoscritto e delimitato a favore dell’autonomia della società civile, che emerge con la sua capacità di autogestione e comunque di espressione della propria iniziativa.
La seconda generazione dei diritti, come ha sottolineato anche Norberto Bobbio in un’opera molto nota , comprende i diritti politici, grazie ai quali si esprime la facoltà di decidere. Nello Stato moderno, a lungo molti sono stati esclusi dal voto e quindi dalla possibilità, almeno indiretta o per rappresentanza, di decidere. È stato il caso delle classi subalterne e delle donne. L’acquisizione sempre più estesa dei diritti politici, fino al suffragio universale per entrambi i sessi e senza limiti di censo, ha voluto dire l’ampliamento della facoltà di decidere da pochi a molti.
La terza generazione dei diritti è stata quella dei diritti sociali, grazie ai quali si è arrivati a partecipare a quote della ricchezza comune e al benessere che la convivenza rende disponibile. Possiamo così registrare, attraverso la crescita dei diritti, un’evoluzione nel godimento dei beni e nella espressione delle facoltà che costituiscono concretamente il patrimonio della cittadinanza e hanno reso la convivenza non soltanto il luogo dell’ordine, ma anche della condivisione di ciò che è utile all’esistenza. Si è trattato di un processo progressivo e insieme faticoso, che è costato spesso lotte sia individuali sia collettive e continua a impegnare tutti a difenderne i risultati in una situazione di difficile contrasto alle diseguaglianze sociali. Nel percorso tracciato, il diritto del lavoro è stato il pilastro dei diritti sociali, assumendosi il compito storico di sottrarre il destino dei molti all’arbitrio dei pochi.
Le sorti attuali della cittadinanza non investono soltanto la tutela efficace dei diritti civili, politici e sociali, ma si giocano in misura sempre più rilevante a livello culturale. Ciò che oggi viene maggiormente sollecitato e messo in questione, nel vivo delle pratiche di convivenza, è il profilo antropologico-culturale della cittadinanza, che non è affatto sovrastrutturale rispetto ad altri ambiti che si possono più facilmente considerare strutturali. Oggi infatti la cultura, cioè l’espressione dell’essere dei soggetti, e del percepirsi tra soggetti, è diventata parte costitutiva dello stare insieme. Quindi la cultura determina identità e senso di appartenenza, capacità di apertura o di chiusura alle relazioni di cui è intessuta la convivenza. La “ontologia sociale” (per riecheggiare il titolo di un’opera a suo tempo cult di Giörgy Lukács) si gioca insomma in misura cospicua sul piano della cultura e in proporzione ai beni culturali ai quali si è in grado di accedere: conoscenze generiche e specialistiche, stili di vita, gusti, strumenti di mobilità e di comunicazione, rapporto selettivo e qualitativo con la risorsa spaziale e temporale. La cultura, come ingrediente della cittadinanza, struttura insomma l’essere di ciascuna persona e il sistema delle relazioni intersoggettive, dall’ambito comunitario a quello sociale in senso più lato. La cittadinanza si apre alla globalità della persona e dei rapporti interpersonali .

 

2. La cittadinanza oltre il ‘lavorismo’: una visione antropologica complessiva

Nel quadro d’insieme sopra disegnato a grandi linee si può svolgere una riflessione aggiornata sul lavoro e sulla sua collocazione nella costruzione di uno statuto allargato della cittadinanza, la quale si alimenta del riferimento alla totalità della persona e all’intero della ricchezza antropologica che la costituisce. Se finora abbiamo considerato il lavoro la via di accesso privilegiata o persino esclusiva alla cittadinanza, privilegiando il paradigma lavoristico, dobbiamo oggi non certo cancellare il lavoro dalla tavola dei suoi valori, bensì inserirlo nel contesto antropologico di cui lo stesso modello di una cittadinanza allargata non può non alimentarsi. I cardini di un’idea soddisfacente dell’umano – è questa la tesi che propongo sulla base di concetti ‘classici’ del pensiero filosofico – sono le dimensioni dell’essere, dell’agire e del lavorare. Preciso subito che queste dimensioni dell’umano, certamente costanti nella vicenda storica, vanno prese senza fratture e riduzioni unilaterali e, inoltre, senza arcaiche gerarchizzazioni, le quali, nella cultura premoderna, hanno penalizzato l’immagine del lavoro.
Come distinguere i tre momenti del lavorare, dell’agire e dell’essere nell’intero dell’umano? Il rapporto con l’essere consiste in un’apertura totale al reale e al possibile, prima e oltre la capacità di produrre qualcosa. L'essere nella sua pienezza non è infatti rappresentabile come l'oggetto di una produzione, si offre piuttosto all’atto del contemplare. Noi contempliamo ciò che è incondizionato rispetto alla nostra potenza produttiva. L'apertura senza limiti all'essere non rimane però senza conseguenze sulla condizione umana. Essa dà conto dell’atteggiamento di libertà nei confronti di ogni situazione determinata. Inoltre, la contemplazione dell’essere che si dà da sé, e non è in nostro possesso, è la sorgente del dono gratuito nella relazione con gli altri.
Come configurare il momento dell’agire e perché distinguerlo dal lavorare? L’agire è indubbiamente intrecciato al lavorare, ma lo trascende perché, nell’applicarsi di volta in volta a fini specifici, è sempre un adoperarsi in vista del fine complessivo di un più di essere per la persona. Le espressioni dell’agire, in cui riversiamo i nostri pensieri e i nostri affetti, sono orientate a un incremento della persona che si è e all’arricchimento delle altre persone di cui ci sta a cuore la dignità-di-essere al pari della nostra. Su questa linea, che ci è suggerita dalla regola aurea alla base di un’etica universale, l’agire si fa ricerca di modelli e di norme per una convivenza giusta, nell’impegno politico volto al bene di tutti e di ciascuno.
Il lavorare si specifica come l’attività che pone sempre capo a oggettivazioni ovvero si traduce in risultati oggettivi fuori di noi, siano essi prodotti della mano – in quanto cifra della nostra corporeità – o della mente, oppure della loro congiunzione. Lavorare è pervenire a disporre di un mondo per noi e prendersi cura di esso. Il lavoro si esplica in modo specifico sulla linea dell’avere qualcosa e del processo operativo coerente con tale obiettivo. Ciò vale anche per le operazioni rivolte ad altri soggetti umani, ai quali forniamo prestazioni secondo procedure e codici di servizio oggettivabili. Di conseguenza, la logica del lavorare esige il farsi strumento per lo scopo esteriore che si vuole o si deve ottenere. Anche in quello che viene considerato un lavoro su se stessi (come nella psicoanalisi) si tende ad avere un altro sé, per così dire, al posto di quello attuale. Proprio quest’ultimo esempio ci porta però sulle tracce della contaminazione del lavorare con l’agire e con l’essere. Nel distinguerli dobbiamo quindi tener conto della loro connessione. In particolare, possiamo dire che il lavorare, quando non cade o non si lascia catturare nell’astrazione della mera autosufficienza strumentale, è quella manifestazione specifica dell’essere e dell’agire grazie alla quale l’essere e l’agire giungono ad avere una figura determinata.
Il lavoro va quindi riconosciuto nella sua peculiarità e, al tempo stesso, va correlato con le altre dimensioni dell’umano. Collocare il lavoro in un contesto antropologico più ampio non significa affatto sminuirne l’importanza, ma è essenziale alla sua valorizzazione e rappresenta un antidoto al rischio della sua riduzione esclusivamente strumentale. Collegare il lavoro all’intero della persona mi sembra inoltre l’aspirazione oggi più diffusa, anche quando non sia facile realizzarla. In sostanza, la ricerca dell’intreccio tra il lavoro e gli elementi di azione e di contemplazione in grado di conferirgli una qualità integralmente umana può essere proposto come il paradigma culturale oggi più valido.
Se noi assumiamo un orizzonte antropologico complessivo, nell’intreccio di contemplazione azione e lavoro, ci dotiamo di un paradigma culturale più ampio e più soddisfacente di quello attualmente dominante. Esso ci permette di guardare al lavoro non come a una dimensione unilaterale, bensì come a una dimensione che va integrata dall’agire, inteso come incremento di essere, e dall’attività contemplativa, che si volge all’essere incondizionato. Nell’orientamento alla globalità dell’umano, si introduce una misura del lavoro che è a rischio di una ipertrofia unilaterale sotto «l’imperativo della prestazione» , e si propizia invece un lavoro che sia anche per l’agire e per l’essere, e non si lascia catturare nell’assolutizzazione dell’avere .
Perché tutto ciò va a vantaggio anche di una buona cultura e di una buona pratica del lavoro? Perché la correlazione con l’essere e con l’agire si può riversare nella stessa qualità del lavoro. Si tratta infatti di far emergere all’interno del lavoro componenti consapevoli e autogovernate di azione e di essere, quindi elementi di sapere, di partecipazione, di responsabilità e di decisione, ossia quei profili di valore che rischiano di rimanere soffocati in un vissuto lavorativo ingabbiato in prestazioni di natura puramente quantitativa o assorbito nell’accanimento funzionalistico. É vero infatti che il lavoro, nella sua evoluzione, ha manifestato la capacità non soltanto di afferrare, avvicinare, trasformare e curare il modo, ma anche di esplorarlo e conoscerlo con gli artifici che esso escogita e di cui si serve operativamente . Questa potenza manifestativa e di disvelamento creativo delle forme del mondo sarà però tanto più valorizzata quanto più la sfera del lavoro sarà coltivata da un soggetto umano che abbia come orizzonte di senso anche l’azione e la contemplazione non asservite a scopi soltanto strumentali. L’homo laborans è chiamato a entrare in sintesi con l’homo agens e l’homo contemplativus.

 

3. Il lavoro 4.0: possibilità e limiti

Nel contesto antropologico sopra tracciato possiamo confrontarci con le connotazioni più recenti che il lavoro ha assunto nel modello del lavoro 4.0, dove il lavoro si intreccia strettamente con gli atti linguistici e sembra poter superare le separazioni tradizionali sia con l’attività teoretica sia con l’attività pratica, ponendo fine alla dicotomia ‘classica’ tra lavoro intellettuale e lavoro manuale. Nelle analisi che valorizzano la recente svolta lavorativa si parte dalla sottolineatura della discontinuità del lavoro della conoscenza rispetto all’impostazione meccanica dell’organizzazione fordista della produzione, quindi si evidenziano le modalità comunicative del lavoro. Queste ultime attengono alla triplice articolazione uomo/uomo, macchina/macchina, uomo/macchina. Nell’intreccio di questi livelli è cruciale il carattere intrinseco del mezzo del comunicare all’atto del comunicare. Il legame comunicativo che pervade la nuova organizzazione del lavoro non viene istituito prima di affidarsi al mezzo, del quale si farebbe uso successivamente; viene bensì istituito proprio perché e nella misura in cui si sta già nella mediazione strumentale, a tal punto che quest’ultima interloquisce come soggetto del comunicare e, dal loro canto, i soggetti umani sono abilitati alla comunicazione solo in quanto comunicano con il mezzo e, per meglio dire, nel mezzo.
Già su questa connotazione comunicativa si possono esprimere alcuni rilievi critici, attinenti al ruolo che in essa svolge la soggettività umana. Nel modello che si è tracciato si presume che uomo e macchina comunicano ex aequo e che arrivino a decidere altrettanto ex aequo. In realtà la responsabilità dell’uomo potrebbe essere delegata alla macchina o risolversi nell’avallo a esiti predeterminati dalla macchina stessa, ai quali sarebbe arduo sottrarsi. Ancora più difficile sarebbe problematizzare le indicazioni della macchina o contraddire i suoi output. Su questa via, un processo comunicativo sovradeterminato dalla macchina potrebbe censurare il suo sbocco problematico, come avviene invece nella comunicazione tra umani. Inoltre, la cogenza performativa del linguaggio finalizzato alla produzione come potrebbe sopportare eventuali negazioni? Se a un’offerta linguistica rivolta da un umano a un altro umano è previsto o è consentito che si risponda con un sì o con un no argomentato e motivato – secondo i crismi della teoria dell’agire comunicativo notoriamente codificato da Jürgen Habermas – , non è questo il tipo di interazione pertinente al sistema comunicativo strutturato dall’intreccio uomo/uomo, macchina/macchina, uomo/macchina. In una tale relazione, il rapporto tra macchine, una volta pervenuto all’autosufficienza nella elaborazione e nella trasmissione dei dati, potrebbe rendere pleonastico il rapporto tra macchine e uomo e potrebbe condizionare pesantemente, se non proprio vanificare, l’esercizio autonomo del rapporto interumano.
Il centro direttivo della relazione si sposterebbe insomma dalla parte dei processi e dei flussi di informazione consentiti dalle tecnologie. Si coglie bene questo trasferimento di potere quando si rileva che le “tecnologie abilitanti” non solo forniscono informazioni (attingendo dai big data ed elaborandoli), ma le convogliano in “piattaforme” che «interagiscono con le diverse attività non limitandosi a fornire dati ma anche attuando il controllo e la valutazione del loro impiego e dei risultati cui conducono» . Si può allora escludere che, di fronte alla standardizzazione delle informazioni in funzione delle finalità produttive e dell’efficienza aziendale, non resti che un residuo di operatività umana passiva e complementare, quasi – potremmo dire – di regolazione accessoria del traffico informatico, nel quale le direzioni di marcia e i punti di arrivo sarebbero già assegnati? È da aggiungere che i corpi stessi delle persone, eventualmente dotati di microchips, si presterebbero a subire controlli a distanza ai fini della realizzazione dell’efficienza pienamente prevedibile e governabile del cyber-physical System al cuore della Smart Factory.
Si potrebbe ravvisare un antidoto a questi sbocchi – certamente non democratici – nella possibilità di «codeterminare a monte» sia le modalità d’impiego delle informazioni, sia i parametri di controllo e valutazione . Ciò avverrebbe però se i lavoratori fruissero di un vero e proprio sharing informativo, se cioè partecipassero le informazioni e intervenissero attivamente nella composizione del flusso delle informazioni stesse. Qui si apre allora un problema che non sembra solo di competenza linguistica. Una codeterminazione sostanziale non potrebbe ridursi soltanto alla ricezione o alla decifrazione del flusso informativo; esigerebbe piuttosto l’immissione in esso di dati e di aims raccolti e suggeriti dal punto di vista dei lavoratori e dei loro interessi. Ai fini di una partecipazione attiva dei lavoratori, la conoscenza del flusso informativo dovrebbe coniugare la competenza grammatico-sintattica del linguaggio digitale con la capacità di fornire input anche eventualmente non allineati con gli interessi e il punto di vista del management aziendale e nemmeno delegabili alla computazione di una neutra Intelligenza artificiale. In concreto, considerare i lavoratori come stakeholder a pieno titolo, e assumerne l’interesse nella codeterminazione del flusso informativo, potrebbe modificarne sia l’ampiezza quantitativa sia la connotazione qualitativa, in ordine a orientamenti di strategia economica che non riguarderebbero soltanto il “come produrre”, ma anche il “cosa produrre”, mirando alla soddisfazione di soggetti individuali e collettivi il cui profilo eccederebbe lo stereotipo codificato del “cliente”.
Indubbiamente, al di qua di cambiamenti del genere – auspicabili sebbene non facili – nella strutturazione del processo produttivo, sono da prendere in considerazione i vantaggi nient’affatto spregevoli della fruizione, anche da parte del lavoro subordinato, di condizioni operative alleggerite del peso della fatica tradizionale o, nell’ottica dell’efficienza, scremate dei tempi morti (non produttivi) della fabbrica fordista. Ci si può spingere fino a riconoscere, sempre che ci sia un incremento della interazione intelligente con la macchina oltre che il perfezionamento della macchina stessa, un accrescimento del potere ‘tecnico’ di decisione in ultima istanza. Senza sottovalutare il vantaggio di questi enhancements operativi, non si può però far coincidere l’incremento di abilità tecniche, anche sofisticate, nell’uso di devices di generazione recente con un guadagno di autonomia e di responsabilità dalla caratura “rivoluzionaria” rispetto alla organizzazione “scientifica” del lavoro di tipo fordista. L’autonomia e la responsabilità che il lavoro 4.0 consente sono pur sempre conformi a uno standard produttivo vincolante e, forse, vincolante con modalità ancora più strette. In esso l’integrazione uomo-macchina non consiste indubbiamente nel manuale avvitamento dei bulloni alla Chaplin di Tempi moderni, poiché vengono mobilitate energie mentali e competenze linguistiche certamente inusitate; ciò nonostante, riconosciuto il salto di innovazione, non scompare la traccia che collega il nuovo sistema produttivo al precedente.

 

4. Alcune buone ragioni per distinguere il lavoro dalla prassi e dalla comunicazione

La domanda di fondo è se la trasformazione informatico-comunicativa del lavoro sia tale da assorbire in sé interamente le dimensioni della prassi e della comunicazione in quanto tali oppure se, pur accettando l’idea della loro contaminazione nel sistema produttivo intelligente, si possa continuare ad avere buone ragioni per sostenere che l’attività pratico-comunicativa non può essere piegata totalmente al fine della “produzione dei beni”. Se si afferma la sporgenza della prassi e della comunicazione rispetto al lavoro, il loro rapporto deve essere pensato non in termini di piena coincidenza ma piuttosto in termini di zone di intersezione. In sostanza, prassi e comunicazione non si risolvono nella funzionalità produttiva. D’altronde, se la prassi e la comunicazione fossero solo quelle impiegabili nel lavoro, non sarebbe compromesso l’upgrade di significato per lo stesso lavoro e il contributo che alla sua umanizzazione esse possono dare? La questione non è astratta, è bensì cruciale in ordine alla «ridescrizione» – per dirla con Mari – dei rapporti tra capitale, lavoro e società. Tale ridescrizione, a mio avviso, non può essere affidata soltanto alle virtù taumaturgiche di un lavoro che fa da asso pigliatutto. In rapporti di tipo nuovo, la prassi e la comunicazione non finalizzate alla produzione di beni dovrebbero svolgere un ruolo autonomo, nella opportuna connessione con il lavoro e, al tempo stesso, nella capacità di orientarlo all’equilibrio con le istanze antropologiche complessive. Cogliendo e propiziando le tendenze del cambiamento, si tratta di favorire l’intreccio tra una pluralità di elementi, evitando una deteriore reductio ad unum .
Ancora più puntualmente possiamo chiederci: la produzione materiale ri-compresa come produzione linguistica abbraccia la totalità del linguaggio umano? O è questo un guadagno di portata regionale certamente di grande rilievo, ma comunque non tale da coprire interamente la polisemia dell’espressione linguistica e l’ampia gamma della sua intenzionalità? La versione linguistica dell’attività lavorativa, che si instaura con il lavoro 4.0 e la smart factory grazie all’avvento del cyber-physical-Sistem, può essere considerata una conquista antropologicamente significativa quanto più consente l’apertura ad altre forme linguistiche che in essa non si esauriscono e in essa non si risolvono. Nel caso opposto, andremmo incontro a un impoverimento delle possibilità espressive e creative del linguaggio..


5. Persona ed economia

La questione del mutamento del lavoro, e del riposizionamento in esso della persona portatrice di abilità linguistico-cognitive, coinvolge il rapporto della persona stessa con la sfera economica. La riforma del lavoro è infatti incastonata nella riforma dell’economia, cui la persona interessa anzitutto ai fini dell’incremento di produttività nell’organizzazione “postfordista”. Pertanto, qui si impone un interrogativo cruciale: l’impiego più razionale ed efficiente della persona al lavoro coincide con la realizzazione della sua felicità complessiva – in termini di arricchimento delle scelte di vita e della soddisfazione che ne può derivare – oppure introduce una connessione più stringente tra la persona e la dimensione economica, di modo che vengano ad assottigliarsi i margini di sporgenza della prima sulla seconda? Venendo all’essenziale: possiamo salutare nella economia del lavoro 4.0 la riappacificazione definitiva dell’economia con la persona? Se non ci si vuole appiattire su questa ipotesi irrealistica, si deve piuttosto considerare – come Mari fa – la prospettiva di uno spostamento della “zona di conflitto” nelle relazioni industriali, gravitante intorno alle esigenze immateriali, oltre che materiali, della persona e sulla possibilità di farle valere nei luoghi di lavoro. Il catalogo delle esigenze non può che scaturire da indagini puntuali di analisi informate da categorie più demanding rispetto al passato e al presente attuale.
Al fondo di una nuova cultura del conflitto, incentrata sulle esigenze della persona, non può non esserci un’opzione antropologica: per le buone sorti dell’umano basta mettere le briglie giuste al processo economico di per sé progressivo e risolutivo, e semmai inficiato solo da un management inadeguato, oppure occorre alimentare la consapevolezza che la fioritura umana complessiva e l’efficienza economica non sono sovrapponibili? L’idea dell’overlapping tra i due momenti ridarebbe fiato a una tradizione economicistica consistente nella convinzione del riscatto dell’economia per mezzo dell’economia stessa o della sola economia, la quale, corretta ed emendata dei difetti introdotti dalla sua declinazione “capitalistica”, rimarrebbe il perno del destino felice dell’umano. Di contro a questo economicismo dall’apparenza virtuosa, l’idea del dislivello permanente tra l’intero dell’umano e l’economico, che di tale intero non può che essere una parte, consente una prospettiva di costruzione antropologica che non si affida unilateralmente alla dialettica intrinseca all’evoluzione delle forze produttive, il cui epilogo sarebbe il rovesciamento ‘fatalmente’ rivoluzionario. La valutazione della parzialità dell’economia con categorie antropologiche complessive ne permetterebbe invece, nella varietà dei contesti storici, l’apprezzamento positivo oppure il rilievo dei limiti e la conseguente “contestazione”.
In questa prospettiva la “persona” non è un punto di riferimento “spiritualistico”, bensì un orizzonte cognitivo e valoriale complessivo che, nell’articolazione delle sue componenti, fornisce un registro epistemologico per l’analisi dei problemi e un cardine assiologico per l’azione trasformatrice. La persona esprime insieme istanze di razionalità teorica e di razionalità pratica; senza queste nervature costitutive, da indagare e approfondire sia nel percorso storico già compiuto sia nelle proiezioni future, si riduce a vacua declamazione. A queste condizioni la persona può dunque ispirare un’ «idea di conflitto diversa, per i contenuti e per le forme».

 

6. I vantaggi di un aggiornamento della visione del lavoro

L’allargamento della visione antropologica ci consentirebbe di fronteggiare due rischi seri del nostro tempo. Il primo rischio da cui guardarsi concerne il condizionamento che la visione unilaterale e assolutizzante del lavoro può esercitare sull’identità della persona e sulla stima di sé. Quando nella vita si vede soltanto il lavoro e la dignità della persona è riposta esclusivamente in esso, nel caso di difficoltà o di privazione del lavoro in un contesto aggravato da crisi economiche e da insufficienze della politica, la persona stessa è esposta a un vissuto di insignificanza e di vuoto esistenziale senza rimedio. “Non lavoro, quindi non sono”: questa equazione può condurre purtroppo ad atti dolorosamente autodistruttivi. Non sarebbe il caso di fare prediche trascurando la drammaticità della penuria materiale, bensì di favorire strategie di sostegno anche al senso di auto-apprezzamento o di self esteem, da associare, sul piano culturale e della concreta tenuta psicologica, alla capacità di resilienza della persona. In questa cornice, il reddito universale di base (universal basic income), opportunamente ponderato e collegato con l’accesso al lavoro, e non sventolato come bandiera di parte e declamato come facile slogan, potrebbe svolgere un ruolo di zoccolo esistenziale a tutela della dignità-di-essere di ogni persona.
Il secondo rischio viene dai processi negativi che sono in agguato proprio nelle forme più avanzate e potenzialmente emancipatrici del lavoro. Nella società dello sviluppo e della diffusione capillare delle conoscenze, il lavoro cognitivo, con le sue caratteristiche immateriali potrebbe offrire finalmente l’antidoto alla separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale e potrebbe quindi permettere la ricomposizione delle lacerazioni che hanno afflitto la divisione tradizionale delle attività umane. Il lavoro esplorativo corre però il rischio di cadere in una trappola tesa con modalità più accattivanti e insidiose che nel passato: in ragione del suo potenziamento, e delle gratificazioni che ne derivano, può essere indotto a diventare un ingranaggio sempre più lubrificato della produzione e dell’accumulazione come scopi dominanti. Queste insidie, presenti nel lavoro della conoscenza e dell’investimento emotivo che esigono di convogliare al lavoro tutta la vita, proprio per questo minacciano di fare della vita intera uno strumento esclusivo di lavoro. La fagocitazione della vita nel biolavoro approderebbe così, spesso in modo subdolo e strisciante, alla consacrazione di un assorbente funzionalismo antropologico, spinto ormai sino al progetto di abolizione del tempo del sonno .
L’alternativa è allora tra l’ampliamento delle possibilità umane verso la loro pienezza di espressione e l’ingabbiamento della persona, delle sue qualità e delle sue competenze conoscitive ed emotive, in una sorta di autosfruttamento funzionale al meccanismo produttivo. La dinamica attuale del lavoro suggerirebbe di inquadrare i processi di innovazione, facendo leva specialmente sulle azioni educative e formative, in un equilibrio antropologico che protegga dalla cattura nel paradigma produttivistico fine a se stesso e favorisca la correlazione del lavoro con gli altri elementi dell’umano. Sapere che ogni persona è sempre più del proprio lavoro potrebbe rappresentare una sorta di ammortizzatore culturale , che dovrebbe aggiungersi agli ammortizzatori economici e sociali con cui, nella diversità delle varianti tecniche e normative, si fronteggia lo stato di disoccupazione. Gli ammortizzatori culturali potrebbero diventare un ingrediente essenziale dei programmi di formazione al lavoro e di ri-qualificazione dei lavoratori, se tali programmi venissero concepiti secondo una visione integrale dell’umano. Questo suggerimento sarebbe valido anche nel caso della auspicabile introduzione dello universal basic income (reddito di base universale ), se si vuole evitare di ridurlo a una sottospecie di sussidio monetario presentato sotto false spoglie.
Senza superare la «religione delle forze produttive» che Simone Weil rimproverava al movimento socialista , senza sfuggire insomma alla trappola del produttivismo incondizionato , è difficile sottrarsi alle insidie dei processi di riduzione della persona in pratiche di funzionalismo esasperato. Non penso si debba temere che queste considerazioni critiche siano votate a battere l’aria in una congiuntura, quale quella attuale, in cui il pericolo maggiore sembra venire dalla penuria di lavoro o dalla forzata fuoriuscita da esso. Infatti, l’accanimento funzionalistico e la risoluzione dell’intera persona nel momento lavorativo, sia essa imposta oppure accettata consensualmente, vanno di pari passo con l’impossibilità di un’etica della condivisione del lavoro e quindi della partecipazione ad esso come bene universale di cittadinanza. Insomma, il lavorismo esasperato secerne esclusione.

 

7. Ragioni strutturali per una ricomprensione antropologica del lavoro: tecnologie e senso dell’umano

La ricognizione delle dinamiche della tarda modernità, e quindi del tempo che viviamo, ci fa sbattere il muso contro l’ipertrofia dell’antropologia unilaterale del lavoro e il vistoso paradosso che ne deriva. Hannah Arendt lo ha configurato chiaramente intorno alla metà del secolo scorso nei termini che riassumo: quando la libertà dal lavoro, grazie al progresso scientifico e all’evoluzione della tecnica, sembra ci possa fare conseguire un obiettivo che le generazioni passate avevano sognato senza poterlo realizzare, i soggetti che potrebbero fruirne sono bloccati dal fatto che appartengono a una società che conosce soltanto il lavoro. L’esclusività del lavoro, cioè la sua ipertrofia, è la causa dell’atrofia delle attività umane altre dal lavoro. La Arendt commentava amaramente: «Ci troviamo di fronte alla prospettiva di una società di lavoratori senza lavoro, privati cioè della sola attività rimasta loro» .
Attualmente ci troviamo in una impasse molto simile a quella denunciata dall’autrice della Condizione umana e ci dibattiamo in una mastodontica schizofrenia tra la organizzazione del lavoro che ci ostiniamo a conservare e quella che sarebbe invece possibile grazie all’impiego, in questo caso virtuoso e antropologicamente costruttivo, delle nuove tecnologie. Le proiezioni degli esperti che si occupano del lavoro ci dicono che il lavoro umano va incontro a un processo di rarefazione, in quanto sostituito o sostituibile da tecnologie sempre più raffinate, sia nelle mansioni inferiori sia nelle mansioni superiori. Si tratta di un fenomeno inedito e in forte accelerazione. Si teme che esso crei sacche spaventose di disoccupazione di massa .
Queste fosche previsioni avranno seguito se si continuerà a mantenere l’attuale organizzazione del lavoro e dei processi produttivi, caratterizzata da moduli intensivi di tempi e orari per unità di lavoro. Il lavoro concentrato sempre più in pochi comporterebbe l’espulsione inevitabile di molti. Si può pensare un’alternativa a questi esiti catastrofici? L’alternativa positiva sarebbe quella di assottigliare la quantità del lavoro individuale e, contemporaneamente, di spalmare il lavoro compiuto dall’uomo, accanto alle tecnologie e oltre le tecnologie, su una platea il più possibile allargata di soggetti. Le tecnologie permetterebbero allora di rendere il lavoro non meno inclusivo, o addirittura esclusivo, bensì più inclusivo. Questa riorganizzazione del lavoro è però possibile a patto che si riformi coraggiosamente l’organizzazione del lavoro che abbiamo ereditato, senza una sostanziale soluzione di continuità, dalla prima rivoluzione industriale.
Sul piano sociale, le due ipotesi configurano scenari nettamente divergenti. La prima implica come conseguenza l’aumento vertiginoso delle diseguaglianze che già ora mortificano l’umanità, aggravando le ingiustizie (si vedano le analisi di Thomas Piketty ). La seconda ci porterebbe a condizioni sociali più equilibrate e a una distribuzione più partecipata delle risorse su scala planetaria. Quindi: work splitting, o scissione tra chi è dentro e chi è fuori dal lavoro, contro work sharing. L’applicazione delle risorse tecnologiche non ci condanna allora a un esito inevitabile di tecnocrazia (paventata da papa Francesco nella formidabile enciclica Laudato si’) socialmente distruttiva. Sta a noi evitare che la sostituzione del lavoro umano con le tecnologie, la quale, se bene incanalata, potrebbe essere una benedizione per l’umano, si rovesci al contrario in una maledizione.
Data l’inerzia e l’autoreferenzialità della organizzazione del lavoro oggi prevalente, adoperarsi per la seconda alternativa esigerebbe politiche istituzionali del lavoro energiche e molto illuminate, capaci di costruire un nesso efficace tra decisioni politiche e convenienze economiche. Inoltre si tratterebbe di modificare i percorsi formativi e di addestramento dei soggetti del lavoro, integrando la preparazione tecnologica con quella umanistica .
Questo abbozzo di riflessione prospettica può essere sviluppato sulla scorta di analisi e proposte formulate, significativamente, da protagonisti critici, e disillusi, delle forme più avanzate dell’economia dell’immateriale . Gli opportuni aggiustamenti tecnico-scientifici e organizzativi non sono però disgiungibili dalla domanda essenziale e su ogni altra preminente, che è la seguente: quale destino per l’umano che deve ricollocarsi – per la forza stessa delle cose – rispetto al lavoro? Si tratta di portare allo scoperto una questione di senso. E il senso pertiene a dimensioni profonde e insieme elementari. Vale a dire: per che cosa vivere in un mondo nel quale il lavoro diventa solo una parte della vita? Con quali tempi e in quali spazi scandire l’esistenza per me e nella relazione con gli altri, oltre la morsa del produrre-consumare che si avvitano su se stessi? Con quali ingredienti realizzare ciò che sono e ciò che vorrei essere? A quali bisogni e a quali desideri devo dare la priorità? Un’idea dell’umano che si riduca al solo lavorare è anche inadeguata ad affrontare le sfide dichiarate al nostro tempo dal futuro che incalza. La stessa evoluzione strutturale del lavoro e della produzione, dando spazio a tempi di vita oltre il lavoro che vanno riempiti di senso, esige l’orientamento a un’antropologia ricca e non unilaterale, per una più valida realizzazione esistenziale.

 

8. Persona e cittadinanza oltre la frontiera del lavoro

Tutto ciò conduce a dare contenuti nuovi alla cittadinanza. Il rapporto tra cittadinanza e lavoro, che ha indubbiamente portato a conquiste storicamente decisive per il passaggio da una cittadinanza formale a una cittadinanza sempre più sostanziale, mostra oggi i suoi limiti e indica esigenze di superamento o, per meglio dire, di integrazione. Tra cittadinanza e lavoro non si dà equazione e non si può ritenere che tutti diritti della cittadinanza debbano passare necessariamente attraverso il lavoro o la condizione di lavoratore. Insomma, il lavoro, da solo, sarebbe una porta troppo stretta per la cittadinanza e per la distribuzione delle risorse che la convivenza può offrire. Una cittadinanza per le persone deve puntare a traguardi più ambiziosi.
Questo ampliamento di vedute non deve portare alla rinuncia a fare del lavoro un bene universalmente condiviso. Anzi rende ancora più stringente la lotta per il lavoro, proprio in quanto venga sottratto alla sua considerazione unilaterale e venga inserito tra i beni di cui la persona – ogni persona – va dotata, senza però far dipendere la propria dignità solo da esso. Il lavoro, in sostanza, può essere assunto come problema civile e politico a tutto tondo, più di quanto oggi non si faccia, proprio perché è condizione dell’essere persona presa nel suo insieme. Superare la frontiera del lavoro nella definizione della cittadinanza, legando quest’ultima al riconoscimento e alla realizzazione dell’umano di cui ogni persona è in quanto tale portatrice, permette di mettere in cantiere una forma migliore e più partecipata della convivenza in tutti i suoi aspetti.
In una visione ampliata delle espressioni dell’umano, è possibile emanciparsi dalle spire della ferrea dicotomia tra tempo del lavoro e tempo dell’ozio. Lo spettro esistenziale di ciascuna persona e i modi del convivere hanno un’ampiezza di attività che non si possono incasellare in una ripartizione binaria. Più precisamente, non si tratta di vivere il tempo dell’ozio come pendant del tempo del lavoro o come sua compensazione, e tanto meno come sua continuazione sotto altre spoglie o come momento di consumo vieppiù crescente in circolo con un accanimento produttivo ulteriormente esasperato dalla potenza degli strumenti tecnologici, bensì di dargli riempimento con contenuti afferenti all’istanza di realizzazione complessiva della persona. Diversamente il tempo dell’ozio può degenerare in un vissuto di vacuità persino temibile.
In coerenza con la prospettiva di una realizzazione multilaterale della persona e della relazione interpersonale, si può ammettere, senza diventare le vittime della sottomissione alla rivoluzione passiva inoculata dal “capitale” in versione neoliberista, che, oltre a prepararsi a nuovi moduli esistenziali sollecitati dal contenimento quantitativo del lavoro, è indispensabile escogitare modalità inedite di redistribuzione più efficace e meno iniqua della ricchezza materiale e immateriale. Il lavoro, equamente distribuito, può continuare a essere lo strumento prioritario di partecipazione alle risorse della convivenza, ma le sue smagliature nel momento storico attuale vanno ricucite da politiche economiche che guardino anzitutto alla dignità-di-essere di ogni persona e la proteggano dagli effetti annichilenti della condizione di non lavoro, spesso associata al disconoscimento dei diritti di cittadinanza. Nella terribile congiuntura in cui l’umanità viene esposta alle ingiurie e alle iniquità delle globalizzazione non governata, l’equazione tra diritti della persona e diritti del lavoratore non sarebbe all’altezza di un compito di protezione e di garanzia universale. I soggetti che sono stati capaci, nella loro esperienza secolare, di intrecciare il lavoro con i diritti dentro e fuori la fabbrica non dovrebbero avere remore a innalzare il vessillo del riconoscimento della dignità della persona oltre il perimetro della condizione produttiva.

 

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