testo integrale con note e bibliografia
La questione della qualificazione giuridica dei cosiddetti indici giurisprudenziali della subordinazione è tornata alla ribalta alla luce del nuovo quadro normativo venutosi a determinare a seguito dell’art. 2 d. lgs. n. 81/2015 e della definizione di coordinamento da parte dell’art. 15, l. n. 81/2017.
Questi interventi del legislatore, che, secondo il vizio endemico della stratificazione normativa, risultano purtroppo poco coordinati, non solo tra loro, ma anche rispetto all’elaborazione giurisprudenziale della c.d. subordinazione attenuata -che di tali indici fa appunto largo uso-, hanno fatto emergere, come una sorta di “pettine della storia”, tutti i nodi irrisolti al riguardo, evidenziando le incertezze ricostruttive.
Di qui la necessità di ritornare ad una riflessione su di una argomento che assume una rilevanza dommatica ma anche, o forse soprattutto, pratica, poiché è ormai su questi indici che si decide gran parte del contenzioso giudiziario in ordine all’accertamento del rapporto di lavoro subordinato, sicché la mancanza di un preciso inquadramento produce effetti deleteri in termini di certezza del diritto, con sentenze a sorpresa che valorizzano questo o quell’indice, secondo l’impostazione, o la precomprensione, del singolo giudice, rendendo sovente arduo anche il controllo in sede di legittimità.
Infatti, l’impressione è che ormai, al di là dell’ossequio formale al requisito costituito dalla sottoposizione al potere direttivo, ripetuto tralaticiamente nelle massime o nelle premesse argomentative delle sentenze, l’utilizzo in sede giurisprudenziale di tali indici, variamente definiti secondari o indiziari, avvenga per lo più acriticamente, in modo automatico e ripetitivo, senza una piena consapevolezza della loro rilevanza o del loro significato, quasi a far supporre che siano ormai diventati, loro, i tratti distintivi di una fattispecie a “geometria variabile”. Insomma, essi sembrano ormai vivere di vita propria, come elementi di una fattispecie di volta in volta creata dalla giurisprudenza che è diventata qualcosa di altro rispetto all’art. 2094 cod. civ. (e alla sua specificazione contenuta nell’art. 2104, comma 2).
Pertanto, in questa situazione, il primo impegno dell’interprete, che ritenga di contenere la deriva della giurisdizione verso l’instabilità del diritto liquido, dovrebbe essere quello di iniziare a fare un po' di chiarezza addivenendo a una precisa qualificazione giuridica di tali indici: che cosa sono? Sono diventati elementi costitutivi/o distintivi della fattispecie (come sembra emergere da alcuni orientamenti), oppure, come a me pare più condivisibile, sono i fatti indizianti di una presunzione semplice ai sensi dell’art. 2729 cod. civ.?
In altri termini, si tratta di capire, o di uscire dal seguente equivoco, che non poche volte si affaccia in giurisprudenza -soprattutto nei casi di c.d. subordinazione attenuata, diventati la maggioranza nel contenzioso-: allorquando nelle sentenze si fa ricorso agli indici secondari, è perché il potere direttivo viene ritenuto ormai non più significativo ai fini dell’accertamento della subordinazione e quindi viene soppiantato da altri elementi distintivi della fattispecie; oppure perché esso è più difficile da dimostrare mediante la prova diretta, per cui si ricorre alla prova presuntiva, che però ha comunque per oggetto, o come suo punto di arrivo, il “fatto” dell’avvenuto esercizio in quel determinato rapporto del potere direttivo, nelle sue varie manifestazioni o declinazioni.
Se si adotta questa seconda ricostruzione, allora bisogna essere coerenti e affermare con chiarezza che si tratta dell'applicazione dell'articolo 2729 cod. civ., con tutto quello che ne consegue in termini di selezione di tali indici in base ai requisiti di “gravità e “precisione”, oltre che di “concordanza”.
Ma si tratta anche, o forse soprattutto, di individuare precisamente il fatto ignoto a cui risalire tramite i fatti indizianti: se questo deve consistere in un “fatto”, allora non può essere visto genericamente nel vincolo di subordinazione, che invece è una qualificazione in diritto e quindi rientra nel procedimento di sussunzione che deve operare il giudice in base al fatto ignoto provato mediante la presunzione. Il fatto ignoto dovrebbe invece consistere nell’elemento caratterizzante e distintivo della fattispecie, e cioè la sottoposizione al potere direttivo, inteso in tutta la sua complessità e nelle sue varie dimensioni; altrimenti si corre il rischio di generare una gran confusione perché, o si dà rilevanza a fatti che non presentano alcuna gravità e precisione in relazione al potere direttivo, oppure, non poche volte, la sottoposizione al potere direttivo viene intesa come uno degli indici, divenendo esso stesso un fatto indiziante, e non più il fatto ignoto a cui risalire mediante il ragionamento inferenziale logico -induttivo. Il che porta poi ad ulteriori distinzioni tra indici sintomatici principali e secondari che rendono ancora più confuso il quadro di riferimento.
Inquadrare gli indici nell’ambito delle presunzioni semplici dovrebbe consentire altresì di ampliare il controllo in sede di legittimità sull’operato dei giudici di merito, nel momento in cui dovrebbero venire meno i dubbi sulla censurabilità in Cassazione per violazione di norme di diritto ex art. 360 n. 3 cod. proc. civ., dell’erronea individuazione del fatto ignoto, così come della rilevanza attribuita a fatti indizianti privi invece dei requisiti della gravità, precisione o concordanza, ai sensi dell’art. 2729 cod. civ.,
Il ruolo centrale che così vengono ad acquisire le presunzioni semplici anche nell'accertamento del rapporto di lavoro subordinato sembra peraltro coerente con una tendenza più generale di rivalutazione di tale strumento di prova. È noto, infatti, che esse hanno progressivamente acquistato un ruolo di primo piano nella giurisprudenza, di pari passo con la valorizzazione del principio, o diritto, ad un rimedio effettivo; basti pensare alla materia del risarcimento del danno, soprattutto non patrimoniale.
Non si tratta dunque di astratte dispute accademiche, ma di aspetti importantissimi proprio a livello del contenzioso, in quanto tutte le ricostruzioni sistematiche alla fine devono fare i conti con l’individuazione dei fatti specifici che il ricorrente deve introdurre in giudizio e poi provare, anche perché, come è noto, la presunzione non esonera certo la parte interessata dall’allegazione sia del fatto ignoto che dei fatti indizianti. Proprio per questo motivo, porsi nella prospettiva della prova, e nello specifico di quella per presunzioni, si rileva utile per mettere in evidenza il catalogo dei problemi irrisolti, poiché si è costretti ad individuare precisamente i fatti costitutivi di una fattispecie, ed è quindi una sorta di cartina di tornasole, o una prova di resistenza, idonea a far emergere i limiti di teorie eccessivamente astratte, di magnifici ponti, dove però poi nessuno riesce a passare, come sosteneva Massimo D’Antona.
Una volta chiarita la qualificazione giuridica di tali indici, per non rimanere sul piano astratto, se ne dovrebbe scrutinare la gravità, precisione e concordanza, soprattutto in relazione a quelli solitamente utilizzati dalla giurisprudenza. Occorrerebbe quindi chiedersi quale “gravità” e precisione”, in ordine alla ragionevole probabilità dell’esistenza del fatto ignoto-potere direttivo, possa assumere, ad esempio, la circostanza di un compenso fisso o del fatto che il collaboratore usi un proprio computer o il chirurgo la sala operatoria predisposta dalla clinica o non abbia una sia pur minima organizzazione imprenditoriale.
L'impressione al riguardo è che su questo tema la giurisprudenza, al di là del principio della necessaria valutazione globale degli indici, affermato dalle Sezioni Unite del 1999 (Cass. S.U. 30 giugno n. 379, rel. Evangelisti), non abbia fatto grandi passi avanti nella elaborazione di una tipologia di fatti che, secondo le parole delle Sezioni Unite, possano venir “assunti come concordanti, gravi e precisi indici rilevatori”.
Sciogliere i suddetti nodi consente di affrontare da questo importante angolo visuale anche i problemi interpretativi che hanno sollevato l’art. 2, d. lgs. n. 81/15 e l’art.15, l. n. 81/17, mettendo a confronto gli indici utilizzati dalla giurisprudenza sulla subordinazione attenuata sia con gli elementi costitutivi dell’art. 2, comma 1, anche in riferimento alle esclusioni previste nel comma 2, sia con la nozione legale di coordinamento di cui all’art. 15; ciò al fine di verificare se l’art. 2 abbia veramente un suo autonomo ambito di applicabilità, stretto come è tra subordinazione attenuata e la nozione legale rigida di coordinamento.
Per andare sul concreto, si consideri, ad esempio, il caso delle professioni ordinistiche che sono escluse dall'applicazione dell'articolo 2, comma 1: al medico che lavora in modo continuativo presso una casa di cura non si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche se lui riesce a fornire la prova che il committente ha organizzato le modalità di esecuzione della sua prestazione; invece quello stesso medico, ai sensi della nozione legale di coordinamento di cui al 409, riesce a “conquistare” la subordinazione dimostrando molto meno, cioè anche la minima ingerenza, non “pattuita di comune accordo”, nello svolgimento della sua attività professionale.
Sul punto l’unica sentenza della Cassazione sull’art. 2 (Cass. n. 1663/20) non ha sciolto i dubbi, generando anzi qualche confusione in più sul tema che ci occupa laddove, dopo aver ribadito che l’intento della norma in questione è stato quello di “rendere più facile” l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato, sembra sorvolare sul problema della rilevanza degli indici secondari rispetto alla suddetta disposizione, limitandosi ad osservare che essa avrebbe valorizzato solo “taluni indici fattuali ritenuti significativi (personalità, continuità, etero organizzazione) e sufficienti a giustificare l'applicazione della disciplina dettata per il rapporto di lavoro subordinato”. Ma a proposito di questa sorta di giuridificazione di taluni indici secondari della subordinazione, ipotizzata dalla Suprema Corte, va osservato che, quanto al requisito della prestazione esclusivamente personale, esso è stato soppresso dalla modifica della l. n. 128/ 2019; quanto alla continuità, si tratta di una caratteristica comune ad entrambi i rapporti di lavoro subordinato e autonomo coordinato e appunto continuativo; sicché il vero discrimine rimane sempre l’etero organizzazione, in cui contenuti, però, assomigliano di più a una delle modalità con le quali può manifestarsi il potere direttivo, almeno fino a quando si intenda rimanere “dentro i cancelli delle parole della legge” (Irti). Ciò confermerebbe l’ipotesi che la formulazione letterale dell'articolo 2 sembra andare in controtendenza soprattutto rispetto all’elaborazione giurisprudenziale sulla subordinazione attenuata, facendo riemergere una concezione più aderente alla tradizionale configurazione dell'eterodirezione.
Per eliminare il suddetto paradosso si dovrebbe dare ingresso, anche in relazione all’art. 2, appunto agli indici solitamente utilizzati per l’accertamento della subordinazione, da cui evincere la prova della sottoposizione del collaboratore al potere di eterorganizzazione dai contenuti sopra illustrati. Il che però, da un lato, confermerebbe che il fatto “ignoto” da provare è lo stesso della eterodirezione tipica della subordinazione, riproponendo gli anzidetti problemi in termini di incertezza derivanti dall’uso a volte poco consapevole da parte della giurisprudenza di tali indici. Sicché ben si adatta al nostro tema il noto aforisma del Gattopardo “tutto cambia perché nulla cambi”.
Ad accentuare le incertezze sistematiche è intervenuta la nozione normativa di coordinamento, da alcuni ritenuta norma di interpretazione autentica, (art. 15, l. n. 81/17). È balzato subito evidente il problema sistematico di interpretazione di questa nozione molto restrittiva di coordinamento con il requisito previsto dall’art. 2, relativo all’eterorganizzazione delle modalità di esecuzione della prestazione. Infatti, il nuovo art. 409, n. 3, cod. proc. civ., sembra escludere qualsiasi potere di coordinamento e di ingerenza unilaterale da parte del committente, contrariamente a quanto in precedenza ritenuto -anche dalle sezioni unite (sentenza n. 1545/2017) e dalla Corte costituzionale (n. 76/2015) - sulla compatibilità con la fattispecie del lavoro autonomo di un potere giuridico del committente in ordine alla modalità di raccordo funzionale con le esigenze organizzative, ivi comprese quelle che si estrinsecano mediante l’esercizio dei c.d. poteri di “istruzione” . Del resto, è intuitivo che il concetto di coordinamento presuppone che ci sia un soggetto coordinante e uno coordinato, e cioè un soggetto che esercita un potere, sia pure diverso dal potere direttivo, e un soggetto che a quel potere è assoggettato; senonché con questa norma il coordinamento cessa di essere un potere unilaterale e, dunque, cessa di essere un coordinamento.
Probabilmente non vi è piena consapevolezza che in tal modo i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa verrebbero ricondotti interamente, senza alcuna differenziazione, al contratto d’opera “puro”, o in senso stretto, ex art. 2222, cod. civ., con l’unica caratterizzazione di essere un contratto di durata, o comunque con prestazione durevole o ripetuta o empiricamente prolungata nel tempo, ma senza ulteriori differenze in materia di ingerenze del committente.
Anzi, ciò determinerebbe un ulteriore paradosso, in quanto il rapporto di collaborazione coordinata e continuativa diventerebbe addirittura la variante più autonoma del contratto d'opera classico ai sensi dell'art 2222, cod. civ, nella misura in cui non contemplerebbe neppure i poteri c.d. di istruzione da parte del committente, espressamente previsti in alcuni contratti di lavoro autonomo come il trasporto (art. 1685 cod. civ. ), il deposito (art. 1770 cod. civ.), il mandato (art. 1711 cod. civ.), l’agenzia (art. 1746 cod. civ.).
Questa, nella sostanza, sembra essere l’operazione interpretativa anche di Cass. n. 1663/20, come emerge dal punto 53 della motivazione, in cui si afferma che “nelle collaborazioni non attratte nella disciplina dell’art. 2, le modalità di coordinamento sono stabilite di comune accordo tra le parti, mentre nel caso preso in considerazione da quest’ultima disposizione, tali modalità sono imposte dal committente”.
Dal che si deve evincere, sul piano delle conseguenze, che, a fronte di eventuali ingerenze del committente, il rapporto non può che essere qualificato come subordinato, anche se l’intensità di tali ingerenze non dovessero raggiungere la “soglia” del potere direttivo di cui all’art. 2094 cod. civ. Ciò in quanto in tale ipotesi, non essendo più configurabile un lavoro “coordinato”, non resterebbe altro che un lavoro “subordinato”, giacché non sono previste altre fattispecie intermedie.
Di qui un’ulteriore “asimmetria”, questa volta rispetto a quanto disposto dall’art. 2, d. lgs. n. 81/15, in quanto verrebbe applicata la disciplina del rapporto di lavoro subordinato al verificarsi di ingerenze del committente anche blande, come ad esempio, istruzioni funzionali appunto al coordinamento, che non raggiungano neppure la soglia dell’eterorganizzazione delle modalità di esecuzione della prestazione richiesta da detto art. 2, anche ammesso che tale “soglia” sia sostanzialmente inferiore da quella della subordinazione attenuata.
A rendere ancor più confuso il quadro sistematico contribuiscono le deroghe od eccezioni previste dal comma 2 rispetto all'effetto stabilito dal comma 1 dell’art. 2, cit.; si tratta di tipologie di collaborazioni che anche ove dovessero presentare i requisiti previsti della etero-organizzazione da parte del committente non beneficerebbero dell'applicazione del rapporto di lavoro subordinato. Infatti, a prescindere dalla questione più generale della disponibilità o no del tipo da parte della legge, anche questa disposizione derogatoria pone dei problemi di interpretazione sistematica, che risultano particolarmente evidenti al cospetto della ipotesi prevista la lett. b) del comma 2, riguardante le collaborazioni prestate nell'esercizio di professioni intellettuali per le quali è necessaria l'iscrizione ad albi, e cioè le cosiddette professioni ordinistiche. Queste sovente costituiscono l’oggetto di un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, specie in alcuni settori, come ad esempio quello della sanità privata, ove i medici svolgono appunto la loro attività in modo continuativo nelle case di cura. Al riguardo, il combinato disposto dell’art. 409 n. 3, cod. proc. civ, nuova versione, con la nozione legale di coordinamento, e del suddetto comma 2 dell'art 2 d. lgs. n. 81/15, unitamente all’interpretazione giurisprudenziale della subordinazione attenuata, può portare a risultati applicativi paradossali. Si consideri infatti che al medico che dimostri la sottoposizione al potere del committente in ordine alle modalità di esecuzione della sua prestazione, non sarà comunque applicabile la disciplina del rapporto di lavoro subordinato; ma lui potrà comunque conquistarsi l'applicazione di tale disciplina in modo più semplice dimostrando addirittura di meno rispetto alla suddetta eterorganizzazione facendo valere la violazione della nozione legale di coordinamento, perché gli sarà sufficiente dare la prova di qualche ingerenza del committente al di là di quanto espressamente pattuito; oppure, come seconda scelta, potrà far valere la giurisprudenza sulla subordinazione attenuata, con i relativi indici, senza sobbarcarsi l'onere della prova di essere stato sottoposto comunque a un potere da parte del committente in ordine all'esecuzione della prestazione lavorativa.
Il dibattito sul tema degli indici merita dunque di essere riaperto anche perché al riguardo l’impressione è di un certo disinteresse della dottrina, che alle volte sembra mostrarsi un po' remissiva nei confronti della giurisprudenza creativa; atteggiamento, questo, che è stato ritenuto tipico dell’attuale età della giurisdizione (Cassese).
Resta ovviamente nella piena discrezionalità degli Autori scegliere il taglio con cui impostare il proprio contributo in relazione al tema in esame e alle diverse angolazioni da cui affrontarlo.