testo integrale con note e bibliografia
1. La questione degli indici giurisprudenziali della subordinazione coinvolge una pluralità di profili giuridici che, concretamente, comporta l’esame di aspetti fondamentali del Diritto del lavoro. Il tema è troppo complesso ed ampio. Per questa ragione, mi limiterò a trattare solo alcuni aspetti che sono stati messi in luce dalla giurisprudenza e che sono oggetto dei quesiti, con particolare riferimento al profilo delle presunzioni semplici. Nella parte finale, esprimerò qualche considerazione più generale sugli indici giurisprudenziali della subordinazione e su alcuni elementi caratterizzanti il lavoro autonomo etero-organizzato e le collaborazioni continuative e coordinate, con riferimento anche agli elementi che potrebbero giustificare, in via presuntiva, l’esistenza di tali fattispecie.
2. La prima questione sottoposta ai partecipanti al Focus è la seguente: “gli indici della subordinazione sono diventati elementi costitutivi e/o distintivi della fattispecie oppure sono fatti indizianti di una presunzione semplice ai sensi dell’art. 2729 cod. civ.?”. Vengono poi indicate due sentenze della Cassazione (n. 29973/2022 e n. 25064/2022) relative all’attività lavorativa di facchinaggio. Queste decisioni, in coerenza con molti altri precedenti e con qualche differenza nell’iter argomentativo, affermano la rilevanza degli indici sussidiari sintomatici della subordinazione nei casi in cui l’assoggettamento del lavoratore alle direttive altrui non sia agevolmente apprezzabile a causa del concreto atteggiarsi del rapporto o qualora la prestazione dedotta in contratto sia estremamente elementare, ripetitiva e predeterminata nelle sue modalità di esecuzione. Tali criteri sussidiari sono quelli più volte enunciati dalla giurisprudenza: continuità e durata del rapporto; modalità di erogazione del compenso; regolamentazione dell’orario di lavoro; presenza di una pur minima organizzazione imprenditoriale; sussistenza di un effettivo potere di auto organizzazione in capo al prestatore. Inoltre, la sentenza n. 25064/2022 richiama un precedente specifico delle Sezioni Unite (n. 379/1999) e, in coerenza con quest’ultima decisione, stabilisce che il giudizio sugli indici deve essere realizzato attraverso una “valutazione globale dei medesimi”, che possono essere “assunti come concordanti, gravi e precisi indici rivelatori dell’effettività” della sussistenza del lavoro subordinato.
In effetti, dunque, la Cassazione sembra ricondurre gli indici della subordinazione nell’ambito delle presunzioni semplici previste dall’articolo 2729 del codice civile. E tale affermazione è stata ribadita anche in un’altra decisione (Cass. 21 luglio 2022, n. 22846). In essa, infatti, si afferma che “il giudizio (di fatto) circa la sussistenza degli elementi dai quali inferire l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato scaturisce da un ragionamento necessariamente presuntivo, in cui talune circostanze di fatto vengono assunte come indizi tramite i quali risalire al fatto da provare (che ovviamente consiste nella prestazione di lavoro subordinato per come tipizzata dall’art. 2094 c.c.)”, con richiamo, anche in questo caso, della precedente sentenza a Sezioni Unite n. 379/1999.
3. Queste conclusioni della Cassazione, in realtà, sono in contrasto con l’elaborazione teorica della dottrina in tema di presunzioni semplici e con la stessa giurisprudenza della Suprema Corte in materia. Esse, infatti, “sono conseguenze tratte ‘da un fatto noto per risalire ad un fatto ignorato’ ed operano quindi come strumenti conoscitivi in sede di accertamento dei fatti controversi” . Il processo di inferenza avviene dunque in relazione a “fatti”, da intendersi come circostanze storiche (azioni e omissioni che rivelano il comportamento delle parti, eventi esterni, fatti notori ecc.) la cui esistenza consente, con un processo deduttivo e/o induttivo, di ritenere provato un ulteriore fatto sconosciuto, il quale viene così individuato nella sua concreta esistenza e considerato rilevante ai fini della decisione. La stessa casistica giurisprudenziale in materia civile mette in rilievo tali caratteristiche .
Gli indici sussidiari della subordinazione sono sicuramente “fatti noti”: la prestazione continuativa, il rispetto di un orario di lavoro, la modalità di erogazione del compenso e così via. Essi, tuttavia, vengono utilizzati come elementi indiziari per individuare non un “fatto” ma una qualificazione giuridica: l’esistenza della subordinazione . Contrariamente a quanto la stessa Cassazione ha affermato, la “prestazione di lavoro subordinato per come tipizzata dall’art. 2094 c.c.” non è un “fatto”. Si è in presenza, al contrario, del risultato di un processo giuridico di sussunzione o, a mio giudizio più correttamente, dell’esito di “un metodo empirico di tipo induttivo o per approssimazione, cioè tipologico” . Poiché la presunzione semplice opera nell’ambito di fatti noti o ignoti, l’utilizzazione degli indici effettuata dalla giurisprudenza è estranea alla disciplina dell’art. 2729 del codice civile.
E tale estraneità esclude, in primo luogo, che gli indici debbano essere “gravi, precisi e concordanti” come invece è affermato dalla Cassazione nelle decisioni n. 379/1999 e n. 25064/2022. La loro valutazione è il frutto della interpretazione giurisprudenziale e non di una previsione normativa (l’art. 2729 c.c.) non applicabile .
4. Vi sono, poi, gli altri quesiti espressi nel Focus. In particolare, si chiede se il ricorso agli indici sussidiari sia giustificato dalla “difficoltà della prova diretta” sulla subordinazione o se essi consentano di ritenere provato il “fatto ignoto potere direttivo” (punto 2 del Focus a p. 2).
In questo caso, in verità, il meccanismo presuntivo di cui all’art. 2729 c.c. potrebbe operare, perché vi sarebbe una correlazione tra “fatti” (gli indici sussidiari e il potere di cui all’art. 2104, c. 2, c.c.). La direzione del lavoro, tramite ordini o istruzioni, è sicuramente un’azione (realizzata dall’uomo direttamente o tramite strumenti informatici o di altro genere) che corrisponde ad una realtà fattuale. Tuttavia, la Cassazione non opera in tal modo. La Suprema Corte parte dal presupposto che il potere direttivo o non sia individuabile in considerazione delle caratteristiche del rapporto di lavoro (Cass. n. 25064/2022) o, anche se assente, non sia tale da escludere la natura subordinata del rapporto (Cass. n. 29973/2022). Dunque, l’utilizzazione degli indici sussidiari e la qualificazione giuridica del contratto prescindono dalla prova dell’esistenza o meno del potere direttivo, che non viene considerato come un fatto ignoto dimostrato, con un processo deduttivo, dalla presenza di alcune caratteristiche del contratto (continuità, orario di lavoro, pagamento della retribuzione fissa e così via).
Queste caratteristiche dell’iter argomentativo seguito dalla Cassazione non escludono, peraltro, che gli indici giurisprudenziali sussidiari potrebbero essere utilizzati in relazione al potere direttivo, nell’ambito delle presunzioni semplici . E questo anche in considerazione del fatto che, nell’ambito del processo del lavoro – applicabile a tutte le controversie dirette a verificare se un contratto sia subordinato, autonomo etero-organizzato o co.co.co – non opera il limite previsto dall’art. 2729, c. 2, c.c., secondo il quale le presunzioni semplici non sono applicabili “nei casi in cui la legge esclude la prova per testimoni”. L’art. 421, c. 2, c.p.c., infatti, consente la prova testimoniale anche “al di fuori dei limiti stabiliti dal codice civile”.
Va detto, peraltro, che gli indici sussidiari sembrano essere più indicativi dell’inserimento del lavoratore nella organizzazione produttiva che non della sua sottoposizione a direttive specifiche inerenti alla prestazione lavorativa, come affermato da molte sentenze della Cassazione (tra le tante: Cass. 24 luglio 2020, n. 15922; Cass. 19 gennaio 2021, n. 813). Mentre, ovviamente, la conclusione potrebbe essere diversa se si accede alla teoria della subordinazione “attenuata”. In questo caso, infatti, gli indici sussidiari potrebbero forse assumere un carattere più “fortemente indiziante” della sottoposizione non ad ordini specifici, ma a direttive di carattere più programmatico o, comunque, ad un potere di direzione del lavoro esercitato “in forma lieve o attenuata” (Cass. 22 aprile 2022, n. 12919). E, in tale situazione, poiché stiamo operando nell’ambito delle presunzioni di cui all’art. 2729 c.c. (in quanto sono posti in correlazione dei “fatti”), gli indici sussidiari devono possedere “i requisiti della gravità, precisione e concordanza in relazione al […] ‘fatto ignoto-potere direttivo’” (punto 3 del Focus a p. 2).
Si chiede, poi, se essi possano essere presi in considerazione “anche per dimostrare, in via presuntiva, la eterorganizzazione”, ai sensi dell’art. 2 del d.lgs. n. 81/2015 (punto 5 del Focus), sempre nella logica dell’art. 2729 c.c. In questo caso, a mio giudizio le conclusioni sono le stesse prima formulate. La etero-organizzazione è una qualificazione giuridica che esclude l’applicazione della disciplina delle presunzioni semplici. Se, invece, gli indici sussidiari sono utilizzati per provare la sussistenza di un rapporto di integrazione organizzativa tra prestazioni del lavoratore e impresa (in coerenza con quanto stabilito dalla Cassazione in relazione alla fattispecie prevista dall’art. 2 del d.lgs. 81/2015) , la conclusione potrebbe essere diversa. L’integrazione, infatti, è un fatto che potrebbe essere desunto dagli elementi indiziari prima descritti (continuità, orario di lavoro, pagamento della retribuzione fissa e così via) .
5. Com’è noto, chi agisce in giudizio per il riconoscimento della subordinazione o della collaborazione autonoma etero-organizzata ha l’onere di provare, ai sensi dell’art. 2697 c.c., gli elementi costitutivi delle fattispecie di cui si rivendica l’applicazione. Per rimanere, al momento, nell’ambito della subordinazione, la questione si pone in modo diverso a seconda delle caratteristiche specifiche della prestazione lavorativa effettuata. Se essa è connotata da un costante esercizio del potere direttivo nella sua forma più tradizionale (con ordini specifici e dettagliati), il ricorrente cercherà di focalizzare la propria prova sulla esistenza di tale elemento. La situazione è diversa se il lavoratore non disponga di prove sufficienti (per assenza di documenti scritti o per la difficoltà di reperire prove testimoniali efficaci), oppure ha operato nell’ambito di un’attività lavorativa dove il potere direttivo è molto più attenuato, sia per la maggiore autonomia di cui lavoratore dispone, sia perché la direzione del lavoro non assume connotati evidenti e facili da dimostrare in quanto strettamente connessa alla stessa organizzazione del datore di lavoro che indirettamente condiziona l’esecuzione del lavoro. In tali ipotesi, il lavoratore cercherà di fare leva sugli indici sussidiari già in precedenza analizzati .
In questo secondo caso, il lavoratore potrebbe tentare di utilizzarli come strumenti per dimostrare il “fatto ignoto potere direttivo”. Anche se, come si è visto, la Cassazione e la stessa giurisprudenza di merito non seguono questo ragionamento. Quindi, è probabilmente molto più utile, dal punto di vista processuale, cercare semplicemente di provare la esistenza della maggior parte dei fatti che sono considerati come indici sussidiari, affermando come la loro stessa presenza acquisti il valore di “forte elemento indiziario” della subordinazione, senza argomentare nell’ambito delle presunzioni semplici di cui all’art. 2729 c.c. Anche se questa strategia potrebbe rivelarsi inefficace nelle situazioni in cui dal processo scaturisse che il potere direttivo, nel caso controverso, veniva esercitato nelle modalità tradizionali e il lavoratore non è stato in grado di dimostrare la sua esistenza in relazione alla sua specifica posizione. In questa ipotesi, infatti, il lavoratore non avrebbe assolto al proprio onere probatorio e gli indici sussidiari potrebbero essere considerati non sufficienti alla qualificazione come contratto di lavoro subordinato visto che la direzione del lavoro ha rilievo determinante ai fini dell’inquadramento della fattispecie .
Sempre nell’ambito dell’onere della prova spettante al lavoratore, l’art. 2, c. 1, del Dl Gs n. 81/2015 può determinare un radicale cambio di strategia processuale da parte di chi ha interesse a vedersi applicata la disciplina del lavoro subordinato. Il lavoratore, infatti, invece di cercare di dimostrare la sussistenza degli indici di subordinazione, potrebbe focalizzare la prova sugli elementi caratteristici di questa nuova fattispecie (prestazioni di lavoro prevalentemente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente). In particolare, chi agisce in giudizio dovrebbe cercare di provare la sussistenza della etero-organizzazione, riconducibile, secondo l’unica sentenza della Cassazione sino ad oggi esaminata, “ad elemento di un rapporto di collaborazione funzionale con l’organizzazione del committente, così che le prestazioni del lavoratore possano, secondo la modulazione unilateralmente disposta dal primo, opportunamente inserirsi ed integrarsi con la sua organizzazione di impresa” . La stessa sentenza, poi, rileva come la etero-organizzazione potrebbe coincidere anche con la determinazione unilaterale “(del) quando e (del) dove della prestazione personale e continuativa”, anche se si tratterebbe soltanto di “una possibile estrinsecazione del potere di etero-organizzazione” e non dell’unica forma possibile.
Ho già espresso la mia opinione secondo la quale la decisione della Suprema Corte presenta delle ambiguità, anche in rapporto alla nozione di etero-organizzazione . Tuttavia, una delle interpretazioni sostenibili, da me condivisa (v. § 7), è quella che la etero-organizzazione non coincida con il potere direttivo. Con la conseguenza che l’onere probatorio a carico del lavoratore sarebbe “alleggerito”, in quanto sarebbe sufficiente dimostrare ad esempio le forme di coordinamento temporale e spaziale tra lavoratore e committente che denoterebbero appunto il coordinamento unilaterale organizzativo imposto dal primo . E, in tale ambito, si potrebbe fare ricorso alle presunzioni semplici, purché si operi nei limiti prima descritti.
Si è in presenza, com’è evidente, di un ampliamento delle possibilità di difesa del lavoratore che potrebbe rivendicare la disciplina del lavoro subordinato pur senza necessità di dover provare gli indici della subordinazione. Anche se, probabilmente, lo stesso lavoratore non agirà in giudizio esclusivamente per dimostrare la sussistenza della fattispecie prevista dall’articolo 2, c. 1, del Dl Gs 81/2015. E questo perché la Cassazione, nella sentenza sopra indicata, pur affermando che ai lavoratori etero-organizzati vanno applicate tutte le discipline del lavoro subordinato, rileva anche come “non possono escludersi situazioni in cui l’applicazione integrale della disciplina della subordinazione sia ontologicamente incompatibile con le fattispecie da regolare, che per definizione non sono comprese nell’ambito dell’art. 2094 c.c.” . Pertanto, poiché potrebbero permanere elementi di ambiguità sulla possibilità di rivendicare una disciplina del lavoro subordinato (magari ritenute incompatibile dal Giudice), più plausibilmente il lavoratore presenterà sia la domanda diretta ad accertare la subordinazione, sia quella diretta dichiarare la sussistenza di una collaborazione etero-organizzata.
Tale possibilità, peraltro, è invece preclusa per tutte le collaborazioni previste dal secondo comma dell’articolo 2 del Dl Gs 81/2015. In questo caso, pur se vi fossero tutti gli elementi della etero-organizzazione, l’unica possibilità per avere una diversa tutela sarebbe dimostrare la sussistenza del lavoro subordinato. Mentre, per le collaborazioni continuative e coordinate di cui all’art. 409, c. 3, c.p.c., il lavoratore, nel contestare la sussistenza dei requisiti previsti dalla norma del codice di rito, potrebbe avanzare entrambe le domande (in via alternativa o subordinata), per ottenere il riconoscimento del rapporto di cui all’art. 2094 c.c. e di quello previsto dall’art. 2, c. 1, del d.lgs. 81/2015, con ovviamente l’applicazione di diversi regimi probatori .
6. I quesiti sollecitano anche alcune riflessioni di carattere più generale.
Per quanto riguarda il lavoro subordinato, l’utilizzazione degli indici giurisprudenziali è ormai un processo pluridecennale assai consolidato che nasce fondamentalmente dall’esigenza pratica di adattare la fattispecie di cui all’art. 2094 c.c. alla pluralità di modelli organizzativi e di forme nelle quali si esprime la subordinazione.
È vero, infatti, che la disposizione del codice consente di individuare degli elementi costitutivi del tipo contrattuale ed attribuisce rilievo particolare alla direzione del lavoro, non a caso considerata dalla giurisprudenza come l’indice fondamentale di individuazione della fattispecie, in coerenza con il pensiero di Barassi il quale, come è noto, ha fortemente influenzato il legislatore del 1942. È altresì vero, peraltro, che, anche negli anni ’40, vi erano forme di lavoro subordinato in cui il potere direttivo, sia sotto il profilo della sua intensità di applicazione, sia in relazione alle modalità con cui veniva esercitato, era più difficilmente identificabile. Si pensi al lavoro dirigenziale o al lavoro manuale estremamente ripetitivo. Inoltre, il processo di radicale cambiamento dei modelli produttivi ed organizzativi (anche per effetto delle innovazioni tecnologiche) ha modificato le caratteristiche della prestazione lavorativa sotto molteplici aspetti. Basti pensare al maggior grado di autonomia del lavoro ed alla sua valutazione economica in termini più di risultati che di svolgimento temporale della prestazione. Si consideri anche come il potere di direzione del lavoro, più che con ordini specifici e dettagliati, si realizza attraverso strumenti tecnologici (ad es. algoritmi) o con specifiche organizzative che in qualche misura condizionano il contenuto dell’attività lavorativa senza che essa si concretizzi in direttive tradizionali (ed è a tale situazione, ad es., che fa riferimento la giurisprudenza, già indicata, sulle direttive “impresse nella struttura aziendale”) .
In questo contesto, poi, si è inserito il processo di incremento delle forme di lavoro autonomo con caratteristiche più vicine a quelle della subordinazione, comprendenti forme di collaborazione fortemente integrate con l’attività produttiva e/o connotate anche da possibile dipendenza economica. Un fenomeno che ha indotto il legislatore a prevedere regolamentazioni specifiche di modelli contrattuali caratterizzati da elementi quali la “collaborazione”, la “continuità”, la “coordinazione”, la (almeno prevalente) “personalità” della prestazione e la “etero-organizzazione”. Alcuni tra essi sono tipici anche della subordinazione, con la conseguenza di rendere ancora più sfumati i confini tra lavoro subordinato e autonomo ed accentuando le incertezze interpretative.
In questo ambito, è evidente che la giurisprudenza si è trovata nella necessità di dover adattare l’interpretazione dell’art. 2094 a tutte le diverse forme di lavoro subordinato concepibili. E, per tale ragione, ha adottato criteri elastici, con l’individuazione di indici prevalenti o sussidiari della subordinazione da modulare in modo diverso a seconda di una “varietà di casistica frutto non solo della italica ‘fantasia elusiva’ ma anche (e soprattutto) del farsi e disfarsi dei modelli organizzativi del lavoro propri del mondo della produzione, del commercio e dei servizi” . È vero, dunque, che, come osserva Carlo Pisani, gli indici giurisprudenziali sono diventati “i tratti distintivi di una fattispecie a ‘geometria variabile’” . Ma si tratta di una conseguenza ineludibile di una disposizione (l’art. 2094) che, pur dotata di una certa flessibilità, se dovesse essere applicata in modo rigido avrebbe comportato la non riconduzione alla subordinazione di attività lavorative talmente integrate nell’attività d’impresa da essere funzionalmente di carattere subordinato. Tale conclusione, oltretutto, è rafforzata dalla comparazione tra le attività svolte da chi rivendica la subordinazione e quelle compiute da altri lavoratori operanti con le stesse modalità esecutive. Infatti, negare ad un lavoratore la subordinazione in presenza di un forte affievolimento del potere direttivo che è caratteristica comune di altre figure professionali che nella stessa impresa sono assunte ai sensi dell’art. 2094 c.c. avrebbe significato creare situazioni inique, difficilmente tollerabili dal punto di vista della giustizia sostanziale.
In linea generale, dunque, mi sembra che l’operazione condotta dalla giurisprudenza prevalente della Cassazione sia condivisibile. Da un lato, vi è l’individuazione di indici principali di subordinazione, consistenti nell’assoggettamento al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro. In questo caso, il potere direttivo, che a mio giudizio – ed anche per la Corte costituzionale – è un connotato fondamentale della subordinazione prevista dal codice civile, continua ad avere una rilevanza fondamentale. Gli indici sussidiari (continuità e durata del rapporto; modalità di erogazione del compenso; regolamentazione dell’orario di lavoro; presenza di una pur minima organizzazione imprenditoriale; sussistenza di un effettivo potere di auto organizzazione in capo il prestatore ecc.) vanno applicati solo quando i primi non sono concretamente individuabili o siano incompatibili con le caratteristiche del lavoro svolto (come nel caso di prestazione “estremamente elementare, ripetitiva e predeterminata nella sua modalità di esecuzione”).
È evidente che tale tecnica interpretativa incrementa la discrezionalità del giudice. Anche se non mi sembra che si possa parlare di un fenomeno di “creazione” di una fattispecie completamente diversa da quanto previsto dall’art. 2094 c.c. . Vi è soltanto il suo adattamento a contesti produttivi ed organizzativi molto diversi da quelli esistenti nell’epoca storica in cui la norma del codice civile fu emanata, oltre che la necessità di prendere atto di diverse fattispecie di lavoro autonomo introdotte dalla legge.
Non escludo, ovviamente, che, in alcuni casi, l’operazione compiuta dalla giurisprudenza possa prestarsi a critiche anche consistenti. Tuttavia, solo un aggiornamento della fattispecie prevista dall’art. 2094 c.c., con l’adozione di diversi elementi costitutivi, potrebbe evitare le aporie e contraddizioni che certamente, in alcuni casi, la giurisprudenza mette in evidenza. Ma questa strada, assai complessa, non è stata seguita dal legislatore, che, come è noto, ha preferito agire sulla definizione di lavoro autonomo e non su quella di subordinazione.
7. La riforma introdotta con l’art. 2, c. 1, del d.lgs. 81/2015 è, a mio giudizio, una svolta che cambia il quadro di riferimento. Come ho già detto, la previsione di una forma di lavoro autonomo etero-organizzato a cui si applica la disciplina della subordinazione sposta il focus il problema. Chi oggi ha un contratto di lavoro autonomo potrebbe rivendicare non tanto la sua qualificazione nell’ambito dell’art. 2094 c.c., quanto la sussistenza delle caratteristiche previste dall’art. 2 sopra indicato. Anche se, come si è visto, vi sono ancora questioni aperte che potrebbero suggerire una diversa strategia processuale. In ogni caso, la nuova disposizione, anche se non introduce un “terzo genus” di contratto ed è solo una “norma di disciplina” , non può non influenzare la definizione dell’art. 2094 c.c. e, quindi, gli stessi indici della subordinazione.
L’operazione compiuta dal legislatore non è certa priva di incertezze. La formulazione originaria della disposizione, a mio giudizio, rendeva plausibile affermare che l’art. 2 costituiva una diversa e più aggiornata definizione di lavoro subordinato. Infatti, le prestazioni di lavoro “esclusivamente” personali, organizzate dal committente “anche con riferimento ai tempi e luoghi di lavoro “, dimostravano non solo il carattere “esclusivo” del lavoro (tipico dell’art. 2094 c.c.), ma esprimevano un significato ulteriore. La successione delle parole, lette nel loro contesto, metteva in rilievo che l’organizzazione da parte del committente non riguardava solo il tempo e il luogo di lavoro, ma “anche” qualcos’altro. Questo elemento aggiuntivo poteva includere la determinazione delle modalità esecutive della prestazione attraverso l’esercizio del potere direttivo .
Questa interpretazione non è stata accolta da una dottrina molto autorevole e dalla stessa Cassazione . In ogni caso oggi il problema è superato alla luce della nuova formulazione della norma. L’eliminazione della “esclusività” della prestazione (che deve solo essere “prevalentemente” personale) e delle parole “anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”, oltre al fatto che le “modalità di esecuzione sono organizzate dal committente” sono tutti elementi che hanno inteso affermare una più netta cesura con l’art. 2094 c.c.
Il legislatore, in sostanza, manda un messaggio chiaro. La precedente formulazione della disposizione conteneva caratteristiche che potevano far pensare al lavoro subordinato. La modifica della norma ha lo scopo di mettere in evidenza che l’art. 2, c. 1, non è una versione più aggiornata dell’art. 2094 c.c., ma è una forma di lavoro autonomo fortemente integrata nella struttura organizzativa del datore di lavoro. Con la conseguenza che l’interprete deve trovare i caratteri distintivi tra subordinazione e lavoro autonomo etero-organizzato.
Questa esigenza, ovviamente, non esclude la difficoltà del processo interpretativo. Se, infatti, come ritiene la Cassazione del 2020, la riforma ha lo scopo di “incoraggiare interpretazioni non restrittive” della nozione di etero-organizzazione , non vi è dubbio che anche la nuova formulazione della legge si presta a letture diverse. Non credo, infatti, che sarebbe improprio affermare che l’organizzazione delle modalità di esecuzione da parte del committente sia un potere assai ampio e tale da includere anche la direzione del lavoro. La legge, ovviamente, non lo dice espressamente ma neanche l’esclude. Perché organizzare una prestazione non dovrebbe poter comprendere anche la possibilità di conformare il suo contenuto, specificando e modificando anche l’oggetto dell’obbligo lavorativo? E, se così fosse, solo la non necessità di una prestazione “esclusivamente personale” sarebbe un elemento di distinzione fondamentale (visto che la continuità è tipica anche del lavoro subordinato).
Tuttavia, proprio in considerazione della riforma del 2019 e dell’intento del legislatore, credo sia necessario distinguere etero-organizzazione e subordinazione . Non posso, ovviamente, approfondire un tema così complesso. Credo, peraltro, che l’opinione espressa da un autorevole dottrina sia convincente. Il lavoro subordinato presuppone un potere direttivo che, oltre a definire il modo, il tempo e il luogo del lavoro, ha la funzione di specificare il contenuto dell’attività lavorativa e di conformare la prestazione e l’oggetto dell’obbligazione (in una dimensione interna dei profili di esecuzione dell’obbligo stesso) . Il potere di organizzazione, invece, “così come prefigurato dal legislatore (ndr: con l’art. 2, c. 1. del d.lgs. 81/2015) non è né un potere di conformazione e di scelta del comportamento dovuto, né un potere di determinazione del modo, del tempo e del luogo dell’esecuzione della prestazione ex art. 2104, comma 2, c.c.” . La etero-organizzazione è solo una forma di forte integrazione tra lavoratore e struttura produttiva del committente che opera “ab externo” sul profilo esecutivo del lavoro. Essa può concretizzarsi in forme diverse: “si pensi all’inserimento continuativo e stabile del prestatore all’interno dei locali del committente con rispetto di determinati vincoli spazio-temporali derivanti dalle compatibilità generali dell’organizzazione, all’esecuzione della prestazione entro determinate fasce orarie imposte dal committente, all’impiego di mezzi e beni strumentali del committente che incidono sulle ‘modalità di esecuzione’ della prestazione, alla necessità per il prestatore di rispettare i vincoli organizzativi dettati anche tramite procedure sequenziali e algoritmi, ecc.” .
Mi sembra, tra l’altro, che anche la Cassazione, seppure in modo meno lineare e chiaro, affermi lo stesso quando qualifica la etero-organizzazione nel senso già in precedenza descritto anche in rapporto al tempo e al luogo del lavoro . In ogni caso l’etero-organizzazione non comprende il potere di conformazione e di specificazione dell’oggetto dell’obbligazione lavorativa .
La linearità della distinzione concettuale tra potere direttivo ed etero-organizzato non esclude, peraltro, che, a volte e nella realtà concreta dei casi giudiziari, tale differenza sia più difficilmente percepibile. Non credo, infatti, che il potere direttivo si sostanzia sempre “nell’emanazione di ordini specifici, inerenti alla particolare attività svolta e diversi dalle direttive d’indice generale, in una direzione assidua e cogente, in una vigilanza e in un controllo costanti, in un’ingerenza idonea a svilire l’autonomia del lavoratore” . In realtà sono proprio le “multiformi manifestazioni che (ndr: il potere direttivo) presenta in concreto a seconda del contesto in cui si esplica e delle diverse professionalità coinvolte” a non consentire tali conclusioni, come si è cercato di argomentare in precedenza e come è sostenuto dalla stessa giurisprudenza (§§ 5 e 6). In queste situazioni, dove il potere direttivo è espresso “in forma lieve o attenuata” (Cass. 22 aprile 2022, n. 12919) o è addirittura “impress(o) nella struttura aziendale” la individuazione della direzione del lavoro e della differenza con l’organizzazione da parte del committente è meno semplice.
Peraltro, se lo scopo non è quello di rivendicare la qualificazione del contratto ai sensi dell’art. 2094 cc. bensì l’applicazione della fattispecie di cui all’art. 2, c. 1, del Dl Gs 81/2015, la strada più agevole sarà dimostrare la sussistenza degli elementi in precedenza descritti (inserimento stabile del lavoratore nell’organizzazione del committente; rispetto di vincoli spazio-temporali ecc.), che, ai sensi dell’art. 2729, possono assumere valore di “indici fattuali” “gravi, precis(i) e concordanti” di un “fatto ignoto” che viene così dimostrato (l’esistenza di una forte integrazione con una struttura organizzativa).
A maggior ragione, come si è detto (§ 4), gli indici sussidiari della subordinazione - che sono solo in parte coincidenti con quelli prima descritti in relazione all’art. 2, c. 1, del decreto legislativo - qualora non ritenuti idonei a dimostrare la subordinazione, potrebbero fornire la prova della integrazione del lavoratore nella struttura produttiva del committente, operando quali presunzioni semplici nei limiti già descritti.
8. La riforma dell’art. 409, c. 1, c.p.c. del 2017 è stata necessaria al fine di distinguere il lavoro autonomo etero-organizzato dalle collaborazioni continuative e coordinate. E la distinzione è stata basata sul fatto che la “collaborazione si intende coordinata quando, nel rispetto delle modalità di coordinamento stabilite di comune accordo dalle parti, il collaboratore organizza autonomamente l’attività lavorativa”. La nuova formulazione ha il vantaggio di individuare nella consensualità il tratto distintivo del coordinamento, con un criterio che prescinde alle caratteristiche in sé di tale potere e si lega ad un fattore esterno (la definizione concordata delle modalità). Non vi è dubbio, infatti, che individuare gli elementi costitutivi della coordinazione del lavoro autonomo con la struttura organizzativa del committente sia un’operazione sicuramente non semplice. Per comprendere la difficoltà di cui si sta parlando, è sufficiente considerare l’ampio dibattito della dottrina e le diverse opinioni espresse in materia che si sono sviluppate sin dagli anni ‘70 . Un dibattito che si è ulteriormente ravvivato negli ultimi anni in considerazione dell’introduzione di concetti ulteriori come quello di etero-organizzazione . Il contesto interpretativo che ne risulta, anche in rapporto lavoro subordinato, è particolarmente variegato e si muove nell’ambito di concetti quali etero direzione “ordinaria” (con ordini specifici dettagliati), “attenuata” (con direttive generiche o “impresse” della struttura aziendale), etero-organizzazione, coordinamento, “istruzioni” proprie di alcune forme di lavoro autonomo - considerate quali forme di coordinazione con il committente o quali elementi del tutto differenti – e così via .
La stessa giurisprudenza sulle collaborazioni continuative e coordinate non ha contribuito alla risoluzione del problema. La Cassazione, prima delle riforme del 2015 e del 2017, aveva individuato il coordinamento nella “connessione o collegamento con il proponente stesso, per contribuire al conseguimento delle finalità a cui esso mira” (Cass. 1° ottobre 2008, n. 24361). Si è parlato di “connessione funzionale derivante da un protratto inserimento nell’organizzazione aziendale o, più in generale, nelle finalità perseguite dal committente e caratterizzata dall’ingerenza di quest’ultimo nella attività del prestatore” (Cass. 9 marzo 2021, n. 3485; Cass. 6 maggio 2004, n. 8598), in modo tale che “l’opus realizzato rappresenti risultato della loro collaborazione” (Cass. 30 dicembre 1999, n. 14722; Cass. n. 3485/2001, cit.). In tempi recenti, tuttavia, la stessa Suprema Corte ha sostenuto che “l’attività coordinata è sinonimo di attività in qualche misura eterodiretta o, comunque, soggetta ad ingerenze o direttive altrui” (Cass., S.U., 20 gennaio 2017, n. 1545), contribuendo ad avvicinare il coordinamento alle caratteristiche del lavoro subordinato. La stessa Corte costituzionale ha recentemente ribadito, in relazione al lavoro del personale medico in carcere, che “nella determinazione dei turni, nella vigilanza esercitata sull’operato degli infermieri, nell’obbligo di comunicare i giorni di assenza, elementi che si potrebbero reputare emblematici della subordinazione, si estrinseca il necessario coordinamento con l’attività dell’amministrazione e con la complessa realtà del carcere, piuttosto che l’autonomia decisionale organizzativa del datore di lavoro e il potere direttivo e disciplinare caratteristico della subordinazione” (C. cost. n. 76/2015, punto 7.2 del Considerato in diritto). Si tratta di una definizione che rende il coordinamento assai simile alla etero-organizzazione.
In questo contesto, e a seguito delle riforme del 2015 del 2017, la Cassazione ha negato che vi sia una differenza qualitativa e quantitativa tra “coordinamento” ed etero organizzazione”. L’unica distinzione sta nel fatto che la prima è una integrazione funzionale con la struttura produttiva del committente, realizzata “di comune accordo tra le parti”, mentre la seconda è imposta unilateralmente dal committente (Cass. n. 1663/2020, punto 53 delle ragioni della decisione). E tale opinione è stata ampiamente argomentata da un autorevole dottrina .
Questa soluzione, come ho già detto, può semplificare il problema della individuazione della nozione, ma apre qualche ulteriore profilo problematico. Infatti, basare il criterio distintivo esclusivamente sul consenso delle parti significa rimettere alla scelta unilaterale del committente la disciplina applicabile in tutti i casi in cui il lavoratore non ha la “forza contrattuale” per opporsi alla volontà dell’altro soggetto al momento della stipulazione del contratto. Con la conseguenza che solo un mutamento delle modalità di coordinamento effettuate nell’esecuzione del rapporto (ad es. in cambio unilaterale delle fasce orarie) potrebbe assumere un rilievo capace di distinguere coordinamento ed etero-organizzazione.
In queste situazioni, l’intento del legislatore di estendere la disciplina della subordinazione al lavoro autonomo fortemente integrato con la organizzazione del committente sarebbe facilmente aggirabile.
Si è obiettato che, in realtà, la consensualità presuppone una “effettiva negoziazione” delle modalità di coordinamento, con una “rigorosa disamina circa il rispetto dei criteri di individualità, serietà, ed effettività” della trattativa intercorsa tra le parti e della formazione della volontà contrattuale. Si è aggiunto, poi, che, per tale ragione, la forma scritta delle forme di coordinamento non sarebbe sufficiente qualora non vi fosse il “requisito dell’effettività” della genuina espressione del consenso. Si è poi sostenuto che, comunque, spetterebbe al committente dover fornire la prova dello svolgimento di un’effettiva trattativa tra le parti “quale fatto impeditivo della (eventuale) riqualificazione giudiziale del rapporto nei termini della subordinazione (o dell’etero-organizzazione)”
A queste stringenti ed efficaci argomentazioni, si può replicare che sarebbe sufficiente inserire nel contratto scritto una frase secondo cui la definizione delle modalità di coordinamento è avvenuta non solo consensualmente ma anche a seguito di una approfondita trattativa individuale, con espressa ammissione da parte del lavoratore della sussistenza dei requisiti prescritti dall’art. 409, c. 1, n. 3, c.p.c. In questo modo, sarebbe assai più difficile fornire la prova contraria della imposizione unilaterale da parte del committente delle forme con cui la prestazione si coordina con la sua struttura produttiva. Proprio l’esperienza della disciplina dei contratti del consumatore, che quest’autore ritiene esemplificativa della necessità che le clausole siano oggetto di una seria ed effettiva trattativa, mette in evidenza questo aspetto. Infatti, in tale tipo di contratti, queste formulazioni sono ampiamente usate, rendendo poi complesso dimostrare il carattere “imposto” della clausola. Tra l’altro, in assenza di documenti che comprovino il contrario (assai difficili da poter immaginare), dimostrare con testimoni che una trattativa non vi è stata o si è svolta è assai problematico, con la conseguenza che il testo scritto assumerebbe un valore indiziario determinante ai fini della formazione del convincimento del giudice.
Mi rendo conto che la scelta del legislatore è dettata dall’estrema difficoltà di distinguere giuridicamente tra potere di etero-organizzazione e quello di coordinamento. Anzi, si è sostenuto che la distinzione è “pressoché impossibile” . Da questo punto di vista, il dibattito dottrinario e la stessa giurisprudenza dimostrano l’estrema difficoltà di operare una differenziazione efficace. È sufficiente rinviare a quanto affermato dalla Corte costituzionale con la decisione n. 76/2015 e alle sentenze della Cassazione antecedenti alla pronuncia del 2020 (quando, in verità, l’art. 2, c. 1, del d.lgs. 81/2015 ancora non esisteva) per arrivare alla conclusione che etero-organizzazione e coordinamento sono la stessa cosa.
Tuttavia, il riferimento, contenuto nella prima parte del comma 3 dell’art. 409 c.p.c., ai rapporti di agenzia e di rappresentanza commerciale - assunti come esempio concreto di collaborazione continuative coordinata - potrebbe essere di aiuto. L’esperienza concreta di questi contratti, alla luce sia della disciplina giuridica contenuta nel codice civile, sia di quanto previsto dagli accordi economici collettivi, mette in luce modalità di coordinamento che non arrivano ad esprimere una forma di integrazione nella struttura produttiva del committente che possa essere equiparata a quella del lavoro etero-organizzato (secondo le esemplificazioni in precedenza descritte) . Nel contratto previsto dall’art. 1742 c.c., la individuazione di una zona in cui operare, la eventuale esclusività unilaterale o bilaterale delle parti, la necessità di commercializzare i prodotti del committente applicando prezzi e scontistica definiti, l’utilizzazione di un campionario, il costante flusso informativo tra agente e preponente sono tutte forme di coordinamento che non realizzano la integrazione “forte” a cui sembra fare riferimento l’art. 2, c. 1, del d.lgs. 81/2015. Si potrebbe quindi tentare di definire una differenza qualitativa, soprattutto sotto il profilo della intensità, tra “coordinamento” ed” etero-organizzazione”.
Sono peraltro consapevole della difficoltà di una distinzione che, concettualmente possibile in astratto, non sarebbe agevolmente individuabile nella realtà del caso concreto. Non mi sembra, tuttavia, che si tratterebbe di una situazione molto diversa da tutte le ipotesi di “zona grigia” tra autonomie subordinazione, rispetto alle quali esiste una casistica ormai più che consolidata. D’altra parte, poiché il legislatore continua ad usare tecniche definitorie che si basano su concetti con un elevato grado di genericità (“etero-organizzazione” “coordinamento” ecc.) uno sforzo in tale senso dovrebbe essere sicuramente fatto. Altrimenti vi è il rischio, già descritto, di un totale “depotenziamento” dell’operazione compiuta dal legislatore nel 2015 con l’art. 2, c. 1, del decreto delegato. Mentre se, al consenso delle parti, si aggiungesse una definizione di coordinamento sufficientemente chiara (o comunque tale da specificare che non si è in presenza della “etero-organizzazione” dell’art. 2, c. 1, del d.lgs. 81/2015), la individuazione dei co,co.co di cui all’art. 409, c. 1, n. 3, c.p.c. sarebbe comunque rimessa anche ad un accertamento concreto del contenuto della collaborazione intercorsa tra le parti e del grado più o meno elevato della integrazione realizzata con il committente.
Va detto, peraltro, che la formulazione letterale dell’art. 409, c. 1, n. 3, c.p.c. impedisce di individuare il coordinamento per mezzo di caratteristiche intrinseche a tale elemento. La disposizione è chiara: “la collaborazione si intende coordinata” quando le sue modalità sono “stabilite di comune accordo tra le parti”. Dunque, la definizione consensuale delle stesse è di per sé tale da attribuire al coordinamento il carattere prescritto dalla legge per poter ricondurre la fattispecie ad un co.co.co. La possibilità di ricercare una differenza strutturale con la etero-organizzazione, diversa dall’accordo, è quindi preclusa e per poter operare in questo modo occorrerebbe cambiare il contenuto della disposizione.
In relazione al problema della possibile utilizzazione delle presunzioni semplici per affermare l’esistenza della etero-organizzazione o della subordinazione occorre distinguere. In relazione al lavoro subordinato si tratta di comprendere se da “fatti noti” relativi alle modalità concrete di svolgimento del lavoro sia possibile desumere il “fatto ignoto” dell’assoggettamento al potere direttivo (in forma piena o attenuata) rivendicando il contratto di cui all’art. 2094 c. In questo caso, la sussistenza del lavoro subordinato è un fatto costitutivo della domanda del lavoratore che, ai sensi dell’art. 2697 c.c., deve essere da lui dimostrato tramite la prova diretta degli elementi essenziali del contratto (come, ad es. il potere di direzione del lavoro) o tramite la dimostrazione di “fatti noti” (ad es. gli indici sussidiari della subordinazione), da cui desumere l’esercizio del potere direttivo (“fatto ignoto”). È qui sufficiente rinviare a quanto è stato già detto.
Per quanto riguarda la etero-organizzazione, la presenza di clausole scritte sulla determinazione consensuale delle modalità di coordinamento e sulla esistenza di un’effettiva trattativa tra le parti, come si è visto, rende difficile introdurre nel processo prove che siano in grado di dimostrare il contrario (a meno che la prova non attenga a una modifica unilateralmente disposta dal committente nel corso del rapporto). In ogni caso, a mio giudizio, non vi sarebbe spazio per le presunzioni semplici. Infatti, mancherebbe il requisito del “fatto ignoto” consistente o nella mancanza di consenso sulle modalità di coordinamento o nell’assenza di un’effettiva trattativa in relazione a tale aspetto. Questi elementi, infatti, risultano per iscritto e quindi non sono circostanze storiche sconosciute che si possono desumere da “fatti noti” che si dimostrano nel processo.
La questione si pone in modo differente nel caso in cui né l’esistenza del consenso sulle modalità di coordinamento, né l’esistenza di una trattativa effettiva sulla loro definizione risultino per iscritto. In questa ipotesi, il committente, su cui grava l’onere della prova di dimostrare che, in effetti, il lavoratore è stato consenziente ed ha negoziato i profili indicati, potrebbe dimostrare entrambi gli elementi attraverso prove dirette (testimoni o altri documenti da cui siano desumibili le circostanze da provare) . Oppure, in linea teorica, potrebbe tentare di dimostrare determinati fatti da cui desumere quelli “ignoti” e cioè il consenso del lavoratore e lo svolgimento della trattativa. Si tratta di elementi fattuali e non di forme di qualificazione giuridica, rispetto ai quali è quindi possibile utilizzare quanto previsto dall’art. 2729 c.c. E, da questo punto di vista, il committente potrebbe utilizzare tutti i mezzi di prova a sua disposizione.