testo integrale con note e bibliografia
1. Fonte e principi generali. Già in base alla generale disposizione dell’art. 2, comma 2, D. lgs. n. 165/2001, l’art. 2106 c.c. si applica senz’altro al contratto di lavoro nelle Pubbliche Amministrazioni. L’art. 55, comma 2, dello stesso D. lgs. n. 165/2001, comunque, ribadisce specificamente tale applicabilità.
La giurisprudenza di legittimità ha più volte affermato che nell’impiego pubblico contrattualizzato il procedimento disciplinare non è espressione di un potere autoritativo bensì, come nell’impiego privato e pur con le differenze che derivano dalla natura pubblica del datore, è correlato al potere di direzione e di conformazione della prestazione lavorativa che spetta alla parte datoriale, potere che comprende in sé quello di reagire alle condotte del lavoratore che integrano inadempimento contrattuale; la previsione della sanzione disciplinare non è posta a presidio di interessi primari della collettività, tutelabili erga omnes, né assolve alla funzione preventiva propria della pena, sicché l'interesse che attraverso la sanzione disciplinare si persegue è sempre quello del datore di lavoro al corretto adempimento delle obbligazioni che scaturiscono dal rapporto .
Tuttavia nel settore del lavoro pubblico l’ordinamento esprime un principio generale sconosciuto all’ordinamento del lavoro alle dipendenze dei privati datori di lavoro, secondo il quale l’esercizio del potere disciplinare è obbligatorio per la P.A. (v., infra, sub n. 2).
Ciò a dimostrazione del fatto che l’esattezza degli adempimenti dei dipendenti degli enti pubblici costituisce oggetto di un interesse che trascende quello meramente “privatistico” della parte datoriale di un qualsiasi contratto di lavoro subordinato e si configura come attuazione del principio costituzionale del buon andamento della pubblica amministrazione che ogni P.A. deve perseguire.
L’incontestabile constatazione dell’interesse pubblico sotteso all’esercizio del potere disciplinare da parte dell’ente pubblico viene in alcune occasioni utilizzata per pervenire ad interpretazioni che sacrificano eccessivamente i principi generali dell’ordinamento privatistico, come nel caso dell’orientamento secondo il quale la disposizione prevista dall’art. 63, comma 2-bis, che prevede che «Nel caso di annullamento della sanzione disciplinare per difetto di proporzionalità, il giudice può rideterminare la sanzione, in applicazione delle disposizioni normative e contrattuali vigenti, tenendo conto della gravità del comportamento e dello specifico interesse pubblico violato» andrebbe interpretata nel senso che tale rideterminazione vada operata dal giudice eventualmente anche d’ufficio , con evidente (e non giustificata) deroga a principi fondamentali del processo civile quali quello della domanda e del contraddittorio.
Così come, in altri casi, si fa riferimento a generali interessi squisitamente pubblici (come quello all’immagine della P.A. ) per esplicitare la ratio di disposizioni, quale quella che esclude l’estinzione del procedimento disciplinare quando per l’infrazione commessa sia previsto il licenziamento o comunque sia stata disposta la sospensione cautelare (art. 55-bis, comma 9), che invece trovano al loro ragion d’essere in specifiche particolarità dell’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni (nella fattispecie, quella che esclude la possibilità di partecipare a concorsi per l’assunzione per coloro che siano stati in precedenza destituiti da altro rapporto di impiego – divieto che potrebbe essere aggirato se fosse consentito al dipendente, conscio dell’elevata probabilità di essere licenziato all’esito del procedimento disciplinare promosso nei suoi confronti, di evitare la definizione del procedimento disciplinare dimettendosi prima della sua conclusione –; ovvero le disposizioni che attribuiscono al dipendente sospeso cautelarmente in pendenza di procedimento disciplinare il diritto a percepire un assegno alimentare, il quale rischierebbe di essere definitivamente acquisito al patrimonio del dipendente se lo stesso potesse impedire la definizione del procedimento – e, dunque, l’accertamento della sua responsabilità con conseguente irrogazione del licenziamento che, secondo i principi generali, in simili evenienze retroagisce al momento della contestazione dell’addebito – recedendo dal rapporto in pendenza del procedimento disciplinare stesso).
2. L’obbligatorietà dell’azione disciplinare. Il principio di obbligatorietà dell’azione disciplinare nel contratto di lavoro subordinato alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni discende dai principi costituzionali dell’art. 97 Cost. e si desume chiaramente dall’art. 55-sexies, comma 3, D. lgs. n. 165/2001, il quale dispone che il mancato esercizio o la decadenza dall’azione disciplinare, dovuti all’omissione o al ritardo, senza giustificato motivo, degli atti del procedimento disciplinare o a valutazioni sull’insussistenza dell’illecito disciplinare irragionevoli o manifestamente infondate, in presenza di condotte aventi oggettiva e palese rilevanza disciplinare, comportano, per i soggetti responsabili, ipotesi di responsabilità disciplinare. Una particolare forma aggravata di una simile responsabilità è prevista dall’art. 55-quater, comma 3-quinquies, in caso di omessa attivazione del procedimento disciplinare o di omessa adozione del provvedimento di sospensione cautelare del dipendente per il quale sia stata accertata, in flagranza ovvero mediante strumenti di sorveglianza o di registrazione degli accessi o delle presenze, la falsa attestazione della presenza in servizio; la norma, infatti, prevede che simili omissioni costituiscano illecito disciplinare punibile con il licenziamento.
Strettamente connessa con il principio di obbligatorietà dell’azione disciplinare è l’ulteriore ipotesi di responsabilità disciplinare prevista dall’art. 55-bis, comma 7, D. lgs. n. 165 a carico del dipendente pubblico che, essendo a conoscenza per ragioni d’ufficio o di servizio «di informazioni rilevanti per un procedimento disciplinare in corso», rifiuta, senza giustificato motivo, la collaborazione richiesta dall’autorità disciplinare procedente ovvero rende informazioni false o reticenti. Scopo della disposizione è, evidentemente, quella di assicurare la già segnalata effettività del principio di obbligatorietà dell’azione disciplinare imponendo ai dipendenti di tutte le Pubbliche Amministrazioni il dovere di collaborare nei procedimenti disciplinari promossi a carico di qualche pubblico impiegato.
3. Il procedimento disciplinare. L’art. 55-bis, D. lgs. n. 165/2001 distingue tra le infrazioni per le quali è previsto il rimprovero verbale e tutte le altre.
Per quanto concerne le prime, la norma rinvia alle previsioni dei contratti collettivi. Queste, a loro volta, non contemplano un procedimento, ma semplicemente ripetono quanto previsto dall’art. 55-bis, comma 1, e cioè che il responsabile della struttura dove lavora il dipendente procede all’irrogazione di tale sanzione.
Riguardo tutte le altre sanzioni competente è l’«ufficio per i procedimenti disciplinari», struttura interna che ciascuna Amministrazione ha l’obbligo di istituire (art. 55-bis, comma 2). La norma non prevede alcunché circa la sua configurazione, onde al riguardo sussiste piena discrezionalità di ogni ente pubblico , essendo solamente necessario (ma anche sufficiente) assicurarne la terzietà (con la conseguenza, tra l’altro, che deve necessariamente essere distinto dal responsabile della struttura tenuto alla segnalazione dell’infrazione ); così come non vi sono limiti legali relativamente alla qualifica che deve essere posseduta dagli addetti a tale ufficio (i quali, del resto, possono anche svolgere contestualmente compiti ulteriori rispetto a quelli di componente dell’ufficio per i procedimenti disciplinari).
Nel caso in cui il procedimento disciplinare sia svolto da un soggetto non competente la conseguenza è quella della nullità della sanzione , peraltro non rilevabile d’ufficio .
Il responsabile della struttura nella quale lavora il dipendente che ha notizia dell’infrazione deve immediatamente, e comunque entro 10 giorni, segnalarla all’ufficio per i procedimenti disciplinari.
Questo deve procedere alla contestazione dell’addebito senza indugio e comunque entro trenta giorni dal momento in cui ha notizia del comportamento sanzionabile. Non è invece necessario indicare le norme di legge o le clausole contrattuali violate dal lavoratore, né che sia specificata la sanzione eventualmente applicabile .
Circa la decorrenza del termine di trenta giorni per la contestazione, deve ritenersi che la notizia dell’infrazione idonea a far scattare il termine stesso debba presentare i caratteri dell’affidabilità e della concretezza, onde l’ufficio, a fronte di una notizia dai contorni vaghi o incerti e tali da far ragionevolmente dubitare della sua attendibilità, è sicuramente abilitato a compiere accertamenti preliminari diretti appunto a far acquisire alla notizia medesima un carattere di concretezza; ciò anche nell’interesse del lavoratore a non essere oggetto di contestazioni avventate . Solamente dal momento in cui la notizia assume caratteri sufficientemente definiti, può ritenersi che inizi a decorrere il termine di trenta giorni . Così come deve ritenersi irrilevante la notizia non formalmente acquisita dall’ufficio per i procedimenti disciplinari .
Nel caso in cui, poi, il dipendente abbia posto in essere una pluralità di fatti che esigono di essere valutati unitariamente ai fini della loro rilevanza sul piano disciplinare, il termine per la contestazione degli stessi decorre dal momento di verificazione dell’ultimo di essi .
La comunicazione della contestazione può avvenire, a scelta dell’Amministrazione, o mediante invio per posta elettronica certificata (nel caso in cui il lavoratore disponga di idonea casella di posta) o tramite consegna a mano o per raccomandata postale con avviso di ricevimento.
L’ufficio deve altresì procedere alla convocazione del lavoratore per sentirlo a difesa. A tal fine, al lavoratore deve essere concesso un preavviso di almeno venti giorni, termine che decorre dal momento in cui l’atto contenente la contestazione dell’addebito perviene al lavoratore e la cui contrazione può dar luogo alla nullità della sanzione solamente se l’interessato dimostri che il concreto esercizio del suo diritto di difesa abbia subito un pregiudizio .
Il lavoratore può scegliere tra varie modalità di esercizio del proprio diritto di difesa. Egli può presentarsi personalmente, da solo o con l’eventuale assistenza di un legale o di un sindacalista da lui scelto. Può, però, anche evitare di presentarsi ed inviare una memoria scritta.
Un diritto specificamente attribuito al lavoratore sottoposto a procedimento è quello di accedere agli atti istruttori, dovendosi comunque precisare che l’esercizio di tale diritto non vale a sanare il vizio di genericità dal quale sia eventualmente affetta la contestazione dell’addebito .
Il lavoratore, inoltre, può formulare (una sola volta) istanza di rinvio dell’audizione.
All’esito delle giustificazioni presentate dall’incolpato, l’Amministrazione può procedere ad ulteriore attività istruttoria. Al riguardo il comma 6 dell’art. 55-bis stabilisce che l’ufficio possa acquisire informazioni e documenti anche da altre Pubbliche Amministrazioni e che tale attività non determina la sospensione del procedimento o il differimento dei termini.
L’autorità procedente può chiedere, poi, la collaborazione di altri lavoratori (appartenenti alla stessa o ad altre Amministrazioni) che siano a conoscenza, per ragioni di ufficio o di servizio di informazioni rilevanti per il procedimento disciplinare in corso. Come già segnalato (supra, n. 2) ove costoro rifiutino di prestare tale collaborazione o rendano dichiarazioni false o reticenti, sono a loro volta passibili di sanzione disciplinare (art. 55-bis, comma 7).
Il procedimento disciplinare deve essere concluso entro il termine di 120 giorni che, secondo il testo dell’art. 55-bis, comma 4, come novellato dal d. lgs. n. 75/2017, decorre dalla contestazione dell’addebito (il testo originario della norma fissava il dies a quo nella «data di prima acquisizione della notizia dell'infrazione, anche se avvenuta da parte del responsabile della struttura in cui il dipendente lavora»). Tale termine è prorogato di un periodo corrispondente all’eventuale differimento del termine a difesa concesso al dipendente.
Entro il termine in questione è necessario che l’Amministrazione adotti l’atto conclusivo del procedimento disciplinare, essendo possibile che la sua comunicazione al lavoratore avvenga in un momento successivo .
Specifiche regole procedurali sono previste, infine, nel caso di accertamento in flagranza ovvero mediante strumenti di sorveglianza o di registrazione degli accessi o delle presenze della falsa attestazione della presenza in servizio. In simili ipotesi, infatti, il comma 3-ter dell’art. 55-quater, dispone che il responsabile della struttura in cui il dipendente lavora ovvero, qualora ne venga a conoscenza per primo, l’ufficio per i procedimenti disciplinari, contestano per iscritto l’infrazione entro quarantotto ore e contestualmente convocano il dipendente per il contraddittorio a difesa con un preavviso di almeno quindici giorni. Termini particolari sono previsti anche per il rinvio dell’audizione chiesta dall’incolpato in caso di «grave, oggettivo e assoluto» impedimento (il rinvio non può superare i cinque giorni) e per la conclusione del procedimento disciplinare (trenta giorni dalla ricezione della contestazione da parte del dipendente).
4. Procedimento disciplinare e procedimento penale. L’art. 55-ter dispone che il procedimento disciplinare che abbia ad oggetto, in tutto o in parte, fatti in relazione ai quali procede l’autorità giudiziaria, è proseguito e concluso anche in pendenza di procedimento penale.
Tale regola si applica senza alcuna eccezione alle infrazioni punite con sanzioni non superiori alla sospensione dal servizio e dalla retribuzione fino a dieci giorni (in questi casi, dunque, vi è un assoluto divieto di sospensione del procedimento disciplinare). Invece, per le infrazioni punite con sanzioni più gravi, l’Amministrazione ha la facoltà (non l’obbligo ) di sospendere il procedimento disciplinare «nei casi di particolare complessità dell’accertamento del fatto addebitato al dipendente e quando all’esito dell’istruttoria non dispone di elementi sufficienti a motivare l’irrogazione della sanzione».
Premesso che, in generale, nulla impedisce alla P.A. di irrogare la sanzione disciplinare avvalendosi esclusivamente degli atti del procedimento penale senza necessità di procedere sempre e comunque ad autonoma istruttoria , si deve segnalare che l’espressione utilizzata dal legislatore fa sorgere qualche dubbio interpretativo. In particolare, non è chiaro se l’Amministrazione possa disporre la sospensione del procedimento disciplinare se ricorre una sola delle circostanze indicate dalla norma (particolare complessità degli accertamenti di fatto; insussistenza, all’esito dell’istruttoria, di elementi sufficienti a motivare l’irrogazione della sanzione) ovvero se a tal fine sia necessario che sussistano entrambe. Il tenore letterale rende preferibile la prima opzione interpretativa. Sembra, infatti, che il legislatore abbia inteso individuare due distinte fattispecie: da un lato «i casi di particolare complessità, ecc.»; dall’altro «quando all’esito dell’istruttoria, ecc.». Una simile conclusione è avvalorata dall’utilizzazione della congiunzione “e”, laddove se, al contrario, il legislatore avesse voluto richiedere la contemporanea ricorrenza delle due circostanze, avrebbe congiunto le due proposizioni con il «quando» (la norma, cioè, sarebbe stata formulata in termini, ad esempio, analoghi ai seguenti: «nei casi di particolare complessità dell’accertamento del fatto addebitato al dipendente, quando all’esito dell’istruttoria non dispone di elementi sufficienti a motivare l’irrogazione della sanzione»).
Secondo questa interpretazione, dunque, l’Amministrazione può sospendere il procedimento disciplinare quando l’attività di accertamento del fatto sia particolarmente complessa, anche se, magari, l’istruttoria svolta in sede disciplinare potrebbe consentire di motivare l’irrogazione di una sanzione; così come il procedimento può essere sospeso quando non siano emerse circostanze che giustifichino l’irrogazione della sanzione, nonostante che l’accertamento dei fatti non costituisca un’attività complessa .
Proprio tali conseguenze della tesi qui propugnata consentono di fornire una ragionevole spiegazione della previsione legislativa della sospensione del procedimento disciplinare come frutto dell’esercizio di una facoltà dell’amministrazione (secondo la norma, infatti, «l’ufficio competente, nei casi di particolare complessità dell’accertamento del fatto addebitato al dipendente e quando all’esito dell’istruttoria non dispone di elementi sufficienti a motivare l’irrogazione della sanzione, può sospendere il procedimento disciplinare»). In effetti, la diversa tesi che richiede la ricorrenza di entrambe le condizioni è difficilmente compatibile con la previsione di una mera facoltà dell’amministrazione di sospendere il procedimento disciplinare, poiché non si comprende come, in presenza di accertamenti complessi e di insufficienza di elementi di colpevolezza a carico dell’incolpato, l’amministrazione possa non sospendere il procedimento disciplinare. Invece, una facoltà di apprezzamento delle circostanze proprie del singolo caso concreto ben può essere riconosciuta in capo all’Amministrazione quando, ad esempio, pur essendo emerse circostanze idonee a motivare l’irrogazione della sanzione, essa ritenga maggiormente prudente, in considerazione delle particolarità della specifica fattispecie concreta, attendere le risultanze del processo penale.
Con particolare riferimento al secondo dei presupposti in questione (insufficienza di elementi idonei a motivare l’irrogazione della sanzione), si deve ritenere che esso ricorra anche nel caso in cui nel corso dell’istruttoria sia stata acquisita la prova solamente di alcuni dei contestati, onde non è possibile per l’Amministrazione irrogare la (più grave) sanzione prevista per gli addebiti per cui è stato attivato il procedimento disciplinare.
Oltre a quelli appena visti, l’altro presupposto della sospensione è la pendenza di un «procedimento penale». Il riferimento al «procedimento», invece che al «processo», induce a ritenere che la sospensione sia possibile anche durante la fase delle indagini preliminari (anche prima, cioè, della richiesta di rinvio a giudizio da parte del pubblico ministero).
La sospensione dura fino al «termine» del procedimento penale, dovendosi intendere per tale il momento in cui diviene definitivo il provvedimento giudiziale che conclude quel procedimento. Tuttavia, anche prima di quel momento, l’Amministrazione può riattivare il procedimento disciplinare quando giunga in possesso di elementi nuovi, sufficienti per concludere il procedimento, ivi incluso un provvedimento giurisdizionale non definitivo (art. 55-ter, comma 1, terzo periodo) .
La norma prevede, infine, che, nel caso in cui l’Amministrazione sospende il procedimento disciplinare, resta «salva la possibilità di adottare la sospensione o altri strumenti cautelari nei confronti del dipendente».
Il legislatore, nello stabilire, quale regola generale, la non sospensione del procedimento disciplinare quando per gli stessi fatti procede l’autorità giudiziaria penale, si è dovuto preoccupare di disciplinare i casi in cui il procedimento penale si concluda con un esito non coerente con quello del procedimento disciplinare non sospeso, prevedendo, in simili casi, la possibilità di “riapertura” del procedimento disciplinare .
In particolare, il comma 2 dell’art. 55-ter dispone in ordine alle ipotesi in cui il procedimento disciplinare si sia concluso con l’irrogazione di una sanzione. In proposito, occorre distinguere tra (a) il caso in cui il processo penale sia definito con una sentenza irrevocabile di assoluzione con formula piena (perché il fatto non sussiste o non costituisce illecito penale o perché il dipendente non lo ha commesso) e (b) quello in cui il processo penale si sia concluso con un qualsiasi altro esito (condanna del dipendente, applicazione della pena su richiesta delle parti, proscioglimento con formula diversa da quelle prima ricordate).
Ora, l’assoluzione perché il fatto non sussiste o non costituisce illecito penale o perché il dipendente non lo ha commesso si pone tendenzialmente in contrasto con l’accertamento della responsabilità del dipendente compiuto in sede disciplinare. In tal caso l’art. 55-ter, comma 2, prevede, quindi, che il lavoratore possa presentare istanza di riapertura del procedimento disciplinare. Quest’ultima, dunque, non è il frutto di un’attività che l’Amministrazione compie d’ufficio, ma è condizionata alla presentazione di un’apposita domanda da parte del dipendente. Domanda che deve essere presentata entro il termine (espressamente qualificato «di decadenza») di sei mesi decorrente dal momento in cui la sentenza penale è divenuta irrevocabile.
Invece gli esiti del giudizio penale che appartengono alla seconda categoria sopra indicata non producono alcuna conseguenza sull’atto finale del procedimento disciplinare e la sanzione con quest’ultimo irrogata resta ferma. La cosa è del tutto ragionevole, posto che, in questi casi, l’esito del procedimento disciplinare è coerente con quello del processo penale (condanna) o, comunque, non è smentito da quest’ultimo (patteggiamento o proscioglimento con formule diverse da quelle che accertano l’innocenza del lavoratore) . Il legislatore, tuttavia, ha previsto un’eccezione per il caso in cui, pur essendosi concluso il procedimento disciplinare con l’irrogazione di una sanzione e quello penale con una sentenza di condanna, da quest’ultima risulti che il fatto addebitabile al lavoratore in sede disciplinare comporterebbe la sanzione espulsiva, mentre invece ne è stata applicata una conservativa . In questo caso l’art. 55-ter, comma 3, secondo periodo, prevede che l’Amministrazione riapra d’ufficio il procedimento disciplinare entro sessanta giorni dalla comunicazione per «adeguare le determinazioni conclusive all’esito del giudizio penale» (questo termine è previsto dal successivo comma 4 che, però, non lo qualifica espressamente come perentorio).
La medesima conseguenza è stabilita dal primo periodo dello stesso comma 3 nel caso (inverso rispetto a quelli finora esaminati) in cui il procedimento disciplinare si sia concluso con l’archiviazione e quello penale con una «sentenza irrevocabile di condanna».
Ci si può chiedere se anche una sentenza di applicazione della pena su accordo delle parti (c.d. patteggiamento) sia idonea a produrre la medesima conseguenza dell’obbligo per l’Amministrazione di riaprire il procedimento disciplinare a suo tempo archiviato. La risposta deve essere affermativa. Infatti, nonostante che, in una norma di poco successiva (l’art. 55-quinquies, comma 3), il legislatore ha menzionato distintamente la sentenza «definitiva di condanna» e quella «di applicazione della pena» (dimostrando così di essere perfettamente consapevole della differenza tra le due categorie di pronunce giudiziali), deve ritenersi operante nella fattispecie il disposto dell’art. 445, comma 1-bis, c.p.p., a norma del quale «salve diverse disposizioni di legge, la sentenza [di patteggiamento] è equiparata a una pronuncia di condanna». In virtù di tale generale equiparazione, dunque, si deve ritenere che anche le sentenze in questione rientrino tra quelle «di condanna» che, a norma dell’art. 55-ter, comma 3 (primo e secondo periodo), D. lgs. n. 165/2001, determinano la riapertura del procedimento disciplinare.
Il comma 4 dell’art. 55-ter detta una disciplina unitaria per i casi previsti dai precedenti tre commi e, cioè: a) ripresa del procedimento disciplinare sospeso ai sensi del comma 1; b) procedimento disciplinare riaperto su istanza del dipendente ai sensi del comma 2 a seguito di sentenza penale di assoluzione con formula piena; c) procedimento disciplinare riaperto d’ufficio dall’Amministrazione ai sensi del comma 3 a seguito di sentenza penale di condanna.
L’atto iniziale, in tutti questi casi, è il «rinnovo della contestazione dell’addebito» da parte dell’autorità disciplinare competente.
L’espressa precisazione secondo la quale si deve trattare del «rinnovo» della contestazione induce a ritenere che l’Amministrazione non possa modificare l’addebito originario . Ciò pure nel caso previsto dal secondo periodo del comma 3 (condanna in sede penale che accerta che il fatto addebitabile al dipendente comporta il licenziamento, mentre invece è stata applicata una sanzione conservativa). Infatti il comma 4 non dedica a questa fattispecie alcuna previsione particolare, onde deve ritenersi che valgano anche per essa le considerazioni testuali e sistematiche appena svolte. Quindi l’ipotesi contemplata dal secondo periodo del comma 3 potrà verificarsi in concreto tutte le volte in cui la sentenza penale accerti circostanze contenute nell’originaria contestazione, ma che non erano state ritenute sussistenti in sede disciplinare, onde l’Amministrazione aveva irrogato la sanzione conservativa corrispondente ai soli fatti che erano stati ritenuti provati nel procedimento disciplinare.
Il rinnovo della contestazione deve essere eseguito entro il termine di sessanta giorni , il cui dies a quo è la data della comunicazione della sentenza penale all’Amministrazione (in ipotesi di ripresa del procedimento disciplinare sospeso o di sua riapertura d’ufficio a seguito di sentenza penale di condanna) ovvero dalla presentazione da parte del dipendente dell’istanza di riapertura (in caso di sentenza penale di assoluzione con formula piena) .
A proposito della prima fattispecie, rileva l’art. 154-ter disp. att. c.p.p., che impone alla cancelleria del giudice che ha pronunciato sentenza penale nei confronti di un dipendente pubblico di comunicarne il dispositivo all’Amministrazione di appartenenza e, su richiesta di questa, di trasmettere copia integrale del provvedimento.
Questa disposizione non elimina, però, i dubbi circa la concreta operatività della previsione relativa alla decorrenza del termine di sessanta giorni. Infatti, escluso che esso possa decorrere dalla data in cui all’Amministrazione è comunicato il dispositivo (è ovvio che il semplice dispositivo, pur recando la condanna, non offre all’Amministrazione le informazioni complete sull’accertamento compiuto dal giudice penale sui fatti che debbono essere sottoposti a valutazione in sede disciplinare), la decorrenza dalla comunicazione del testo integrale della sentenza può non assicurare alla P.A. il tempo necessario per la ripresa del procedimento disciplinare, posto che si deve trattare della sentenza irrevocabile e, a tal fine, occorre che siano scaduti i termini per la proposizione dell’impugnazione, il che si può verificare a ridosso della scadenza del termine per la riapertura del procedimento disciplinare. Si deve allora concludere nel senso che il termine di sessanta giorni decorre dal momento in cui all’Amministrazione sia comunicata la sentenza già divenuta irrevocabile, evitandosi così che il termine decorra anteriormente al passaggio in giudicato della sentenza e all’avvenuta conoscenza, da parte dell’Amministrazione medesima, dell’irrevocabilità della condanna del proprio dipendente .
È irrilevante, ai fini della decorrenza del termine, la conoscenza che della sentenza possano aver avuto i difensori della P.A. eventualmente costituitasi parte civile nel procedimento penale . Anzi, la giurisprudenza di legittimità afferma che il termine decorre solamente quando la sentenza è comunicata all’Ufficio per i procedimenti disciplinari, restando irrilevante al riguardo la conoscenza che ne possano aver avuto altre articolazioni dell’ente pubblico
Si deve ritenere, poi, che il datore di lavoro pubblico abbia la possibilità di riattivare la procedura anche a seguito di una comunicazione non ufficiale della sentenza irrevocabile ad opera del proprio difensore ovvero dello stesso dipendente che miri a far cessare una situazione di obbiettiva incertezza a lui pregiudizievole, rispondendo tale soluzione ai canoni di buona amministrazione di cui all’art. 97 Cost. .
Una volta rinnovata la contestazione dell’addebito, il procedimento prosegue secondo le modalità stabilite dall’art. 55-bis, con integrale nuova decorrenza dei termini previsti per la conclusione. Deve ritenersi che il dies a quo coincida con quello in cui l’atto con il quale viene rinnovata la contestazione è pervenuto a conoscenza del lavoratore .
Circa l’influenza del giudicato penale sull’esito del procedimento disciplinare ripreso o riaperto, l’ultimo periodo del comma 4 dell’art. 55-ter stabilisce che l’autorità procedente applica le disposizioni di cui all’art. 653, commi 1 e 1-bis, c.p.p.
La prima delle suddette disposizioni si riferisce alle sentenze penali di assoluzione e attribuisce efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare all’accertamento che il fatto non sussiste o non costituisce illecito penale ovvero che l’imputato non lo ha commesso.
Simili pronunce non determinano sicuramente e automaticamente l’archiviazione del procedimento disciplinare. Anzitutto, come è evidente, l’assoluzione perché il fatto non costituisce illecito penale, non impedisce che lo stesso fatto, inidoneo a fondare una responsabilità penale (ad esempio, perché quest’ultima è prevista solamente in caso di dolo), ben possa integrare gli estremi di illecito disciplinare sanzionabile (perché, continuando nell’esempio, quest’ultimo è configurabile anche in caso di colpa del dipendente). Ma anche le sentenze di assoluzione perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non lo ha commesso non escludono sempre e comunque un esito del procedimento disciplinare sfavorevole per il lavoratore. Si pensi, ad esempio, al caso in cui oggetto della contestazione disciplinare sia una pluralità di fatti storici, alcuni solamente oggetto del procedimento penale conclusosi con l’assoluzione con formula piena.
Il comma 1-bis dello stesso art. 653 c.p.p. si riferisce, invece, alle sentenze penali di condanna e attribuisce efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso. Anche in questi casi residua il potere della PA datrice di lavoro di valutare aspetti diversi da quelli coperti dal giudicato penale, come, ad esempio, eventuali circostanze che – seppure irrilevanti sul piano penalistico – sono comunque idonee a diminuire il grado di responsabilità del dipendente.
Quanto alla sentenza c.d. di patteggiamento, anch’essa, in base all’equiparazione ad una sentenza di condanna prevista dall’art. 445, comma 1-bis, c.p.p., che fa espressamente salva l’applicazione ad essa – in sede di giudizio disciplinare – delle disposizioni contenute nell’art. 653 c.p.p., ha efficacia di giudicato quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e dell’affermazione che l’imputato lo ha commesso .
5. La violazione delle disposizioni in materia di procedimento disciplinare. In virtù del comma 9-ter dell’art. 55-bis, D. lgs. n. 165/2001, la violazione dei termini e delle disposizioni sul procedimento disciplinare previste dagli articoli da 55 a 55-quater, non determina la decadenza dall’azione disciplinare, né l’invalidità degli atti e della sanzione irrogata, purché non sia irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del dipendente, e le modalità di esercizio dell’azione disciplinare, anche in ragione della natura degli accertamenti svolti nel caso concreto, risultino comunque compatibili con il principio di tempestività (disposizione di carattere generale, enunciata dal primo periodo). Inoltre (disposizione speciale, espressa dal secondo periodo), sono da considerarsi perentori solamente il termine per la contestazione dell’addebito e il termine per la conclusione del procedimento, «fatto salvo quanto previsto dall’articolo 55-quater, commi 3-bis e 3-ter».
Il comma in parola, introdotto dal D. lgs. n. 75/2017, avvicina sensibilmente il procedimento disciplinare proprio del settore pubblico a quello del settore privato, caratterizzato, com’è noto, dalla mancanza di precisi termini (ad eccezione di quello minimo che deve essere concesso al lavoratore per approntare le proprie difese) e informato ai generali principi di tempestività e di tutela del diritto di difesa del lavoratore. In sostanza, ad eccezione dei termini previsti per la contestazione dell’addebito e per la conclusione, tutte le altre disposizioni che definiscono le modalità di esercizio dell’azione disciplinare del datore di lavoro pubblico non sono cogenti, potendo la sanzione essere considerata legittima anche quando qualcuna di esse non sia stata osservata, purché siano stati salvaguardato il diritto di difesa del dipendente e rispettato il principio di tempestività. In altri termini, se la P..A osserva le disposizioni in questione, sicuramente deve escludersi la violazione del diritto di difesa e della regola della tempestività; se, invece, ne violi qualcuna, non necessariamente la sanzione dovrà essere considerata illegittima, dovendosi invece verificare nel caso concreto se il lavoratore abbia potuto convenientemente esercitare il proprio diritto di difesa e se, anche in considerazione della natura e degli accertamenti compiuti, l’azione disciplinare sia stata comunque tempestiva.
Sia la regola generale, sia quella speciale (espresse, rispettivamente, dal primo e dal secondo periodo del comma in questione), sollecitano alcune considerazioni.
Iniziando dalla prima, si osserva che essa richiama anche l’art. 55, D. lgs. n. 165/2001, il quale contiene non solamente disposizioni di natura strettamente procedimentale (come quella del comma 3 in tema di procedure conciliative o quella del comma 4 relativa al procedimento disciplinare contro i dirigenti), ma anche (nel comma 2) l’enunciazione dei principi (a) di proporzionalità delle sanzioni (attraverso il richiamo dell’art. 2106 c.c.), (b) di predeterminatezza delle infrazioni e delle sanzioni e (c) di pubblicità del codice disciplinare.
Ora, il fatto che il comma 9-ter si occupi espressamente delle conseguenze delle violazioni delle disposizioni «sul procedimento disciplinare», induce ad escludere che la regola da esso dettata possa essere riferita anche ai primi due dei tre predetti principi enunciati (quello di proporzionalità e di predeterminatezza delle sanzioni), i quali non possono essere qualificati come «disposizioni sul procedimento disciplinare». Pertanto, in caso di loro violazione, la sanzione deve comunque essere considerata illegittimamente irrogata.
Più problematica è la questione della riferibilità della norma enunciata nel comma 9-ter al principio di previa pubblicità del codice disciplinare, potendosi ricondurre tale regola alla categoria di quelle del procedimento oppure qualificarla come necessario presupposto dell’esercizio del potere disciplinare, il quale presuppone che il dipendente sia in condizione di conoscere preventivamente quali condotte abbiano rilevanza disciplinare. Tuttavia la disputa non sembra avere significative ricadute pratiche, se si ritenga valido anche per il settore pubblico, l’ormai consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo il quale la pubblicità del codice disciplinare nelle forme ad hoc previste dalla legge non deve ritenersi necessaria – neppure per le sanzioni conservative – in tutti i casi nei quali il comportamento sia immediatamente percepibile dal lavoratore come illecito, per ché contrario al c.d. minimo etico o a norme di rilevanza penale .
Passando alla disposizione dettata dal secondo periodo del comma 9-ter, si è accennato a come esso qualifichi come perentori (la cui violazione, quindi, determina l’illegittimità della sanzione) solamente i termini stabiliti per la contestazione dell’addebito e per la conclusione del procedimento. Non assume rilevanza, quindi, l’inosservanza, ad esempio, del termine di dieci giorni entro il quale il responsabile della struttura presso la quale presta servizio il dipendente è tenuto a segnalare all’Ufficio disciplinare i fatti di rilevanza disciplinare di cui abbia avuto conoscenza, a meno che la trasmissione degli atti venga ritardata in misura tale da rendere eccessivamente difficile l’esercizio del diritto di difesa .
La norma esige due precisazioni.
La prima è relativa alla sua riferibilità anche al procedimento disciplinare ripreso o riaperto a seguito di definizione del procedimento penale promosso sugli stessi fatti oggetto di azione disciplinare. Infatti, anche al riguardo sono stabiliti (dall’art. 55-quater, comma 4) termini, rispettivamente, per il rinnovo «della contestazione dell’addebito» e per la sua conclusione. Dunque, anche in questi casi, i termini iniziale e finale debbono essere considerati perentori .
La seconda attiene alla espressa salvaguardia, da parte del comma 9-ter, di «quanto previsto dall’articolo 55-quater, commi 3-bis e 3-ter». Questi ultimi, come si è visto (supra, sub n. 4), prevedono termini particolarmente stringenti con riferimento al procedimento disciplinare promosso a seguito di accertamento in flagranza ovvero mediante strumenti di sorveglianza o di registrazione degli accessi o delle presenze della falsa attestazione della presenza in servizio. Se ne desume, pertanto, che, per stabilire quali siano le conseguenze dell’inosservanza dei termini da essi contemplati per la contestazione e per la conclusione del procedimento, non bisogna avere riguardo a quanto disposto dal comma 9-ter dell’art. 55-bis, bensì a quanto previsto dagli stessi commi 3-bis e 3-ter dell’art. 55-quater.
Il primo, per quel che riguarda il termine (di 48 ore) stabilito per la contestazione dell’addebito, si limita a chiarire che la sua violazione non determina la decadenza dall’azione disciplinare. Sebbene la norma non preveda alcuna salvaguardia del diritto di difesa del lavoratore (suscettibile di essere pregiudicata da contestazioni operate a distanza di molto tempo dal momento in cui si è verificato il fatto perseguito in sede disciplinare), deve ritenersi applicabile alla fattispecie la regola, di carattere generale, enunciata nel primo periodo del comma 9-ter dell’art. 55-bis, secondo cui la violazione dei termini e delle disposizioni sul procedimento disciplinare non determina la decadenza dall’azione disciplinare a condizione che non risulti irrimediabilmente leso il diritto di difesa del lavoratore e sia rispettato il principio di tempestività. Quindi la conclusione è che, mentre in generale la violazione del termine stabilito per la contestazione dell’addebito (30 giorni) causa sempre e comunque la decadenza dall’azione disciplinare, nel caso particolare della falsa attestazione della presenza in servizio accertata in flagranza o mediante strumenti di sorveglianza o di registrazione degli accessi o delle presenze, l’inosservanza del termine previsto per la contestazione (48 ore) non provoca quella conseguenza, a meno che non siano violati il principio di tempestività o il diritto di difesa del dipendente.
Quanto, invece, al termine (di 30 giorni) stabilito per la conclusione del procedimento, la stessa norma dettata per la particolare infrazione in questione dispone (art. 55-quater, comma 3-ter, quinto periodo) che la sua violazione non determina la decadenza dall’azione disciplinare o l’inefficacia della sanzione a condizione che non sia irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del dipendente, aggiungendo però che comunque non deve essere superato il termine (120 giorni) previsto in generale dall’art. 55-bis. Se ne desume, quindi, che anche per i procedimenti disciplinari speciali promossi in caso di falsa attestazione in servizio, la mancata conclusione degli stessi entro 120 giorni dalla contestazione dell’addebito comporta l’illegittimità della sanzione eventualmente irrogata.