testo integrale con note e bibliografia
1. In che limiti il datore di lavoro è libero di richiedere (ed è tenuto a cooperare a) l’adempimento dell’obbligazione lavorativa in base all’art. 2103 c.c.?
La nuova configurazione della disciplina delle mansioni del lavoratore voluta dal legislatore del cd. Jobs Act nel 2015 ha indubbiamente aperto un’ampia serie di problemi interpretativi . Uno dei più rilevanti di essi è l’impatto dell’indubbio allargamento dell’area del debito del lavoratore, delle mansioni da questi astrattamente esigibili, operato dalla riforma dell’art. 2103 c.c. In estrema sintesi, ci si chiede se il fatto che oggi, in via unilaterale e quindi nell’ordinario esercizio dello ius variandi datoriale, l’art. 2103, primo comma, c.c. consenta la richiesta al lavoratore di svolgere tutte le mansioni comprese nello stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte abbia riflessi sulla disciplina del licenziamento per motivi oggettivi. In particolare, il quesito riguarda l’ambito di estrinsecazione del cd. obbligo di repêchage, ovvero l’obbligo di adibire il lavoratore a mansioni diverse per evitarne il licenziamento. L’interrogativo è ancor più pressante se si considera che, a norma del secondo comma dello stesso art. 2103 c.c. «in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale». Dunque, nell’ipotesi del giustificato motivo oggettivo di licenziamento determinato da modifiche dell’organizzazione della produzione è possibile che il lavoratore sia adibito, in via unilaterale, (anche) a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore. E ciò senza contare che, ai sensi del quarto comma dello stesso art. 2103 c.c., ulteriori ipotesi di assegnazione in via unilaterale a mansioni appartenenti al livello inferiore di inquadramento possono essere previste dalla contrattazione collettiva e che, ai sensi del sesto comma della stessa norma, nelle cd. sedi protette possono essere stipulati accordi di modifica delle mansioni che superino il vincolo della categoria legale del livello contrattuale di inquadramento e della relativa retribuzione, accordi finalizzati, tra l’altro, proprio alla conservazione dell’occupazione.
Sembrerebbe dunque di dover concludere, senza troppi tentennamenti, che l’ampia possibilità riconosciuta al datore di lavoro di assegnare al lavoratore i compiti più diversi debba necessariamente riflettersi in una notevole restrizione della possibilità che il primo ha di licenziare il secondo per ragioni oggettive . In altri termini, quando il datore assuma che l’attività del prestatore non sia più utile all’organizzazione produttiva dovrà dimostrare che appunto quell’attività e le altre che quel lavoratore potrebbe svolgere non siano più utili in alcuna delle posizioni astrattamente a lui assegnabili negli ampi limiti disegnati dall’odierno testo dell’art. 2103 c.c. La questione non può però essere liquidata così rapidamente.
In primo luogo, le soluzioni semplicistiche si scontrano con la realtà per la quale non sempre il lavoratore sarà in grado di svolgere le mansioni che teoricamente il datore di lavoro ha diritto di assegnargli. E infatti lo stesso art. 2103 c.c. prevede, al terzo comma, che il datore debba provvedere a formare il lavoratore in modo che questi sia effettivamente nelle condizioni di svolgere le nuove attività affidategli. La norma si preoccupa tuttavia di specificare che il mancato adempimento da parte del datore di lavoro dell’obbligo formativo “non determina comunque la nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni”.
In secondo luogo, la stessa contrattazione collettiva sta reagendo in vario modo per “scongiurare” il rischio di un divorzio tra disciplina delle mansioni e tutela della professionalità del lavoratore o, almeno, per fare in modo che l’inquadramento contrattuale dei lavoratori tenga conto non solo della sua funzione a fini retributivi, ma anche dell’esigenza di fare da guida e da limite allo ius variandi datoriale, che il testo dell’art. 2103 c.c. lega appunto all’inquadramento contrattuale .
Entrambi gli elementi sono rilevanti, se si tiene conto del fatto che il lavoratore potrebbe rifiutarsi di svolgere mansioni estranee alle sue competenze e che un simile rifiuto difficilmente potrebbe essere ritenuto ingiustificato . Certo, il lavoratore correrebbe il rischio di vedersi irrogare sanzioni disciplinari e di essere ritenuto inadempiente in giudizio ove sia diversamente valutata la compatibilità sul piano professionale tra le mansioni di provenienza e quelle di destinazione.
La notevole latitudine delle declaratorie contrattuali crea quindi un’incertezza che pesa sia sulla posizione del prestatore, sia su quella del datore di lavoro, sul quale grava il rischio di vedere proprie decisioni organizzative dichiarate illegittime in base a valutazioni estranee all’impianto normativo dell’art. 2103 c.c., secondo la cui lettera le assegnazioni a mansioni appartenenti al medesimo livello contrattuale andrebbero sempre considerate legittime, anche ove il lavoratore non abbia le competenze per svolgere le mansioni assegnategli.
È dunque comprensibile sia lo sforzo della contrattazione collettiva nella direzione di una riforma dei sistemi di inquadramento contrattuale che tengano conto della professionalità necessaria allo svolgimento delle mansioni comprese nei diversi livelli, sia l’auspicio della dottrina, che sottolinea l’urgenza di una simile riforma, al fine di raggruppare le mansioni in aree omogenee sul piano funzionale e professionale .
La rimodulazione dei sistemi di inquadramento contrattuale è ancor più rilevante nell’interesse dei datori di lavoro se, come si diceva, si tiene conto del fatto che l’art. 2103 c.c., disegnando le mansioni alle quali il lavoratore può essere legittimamente addetto, rappresenta anche l’ambito di applicazione del cd. onere di repêchage nel licenziamento per motivi oggettivi e dunque la latitudine del potere datoriale di recesso: laddove il datore possa adibire il prestatore a mansioni diverse, egli deve considerarlo impiegabile in quelle mansioni in alternativa al licenziamento.
Fino ad oggi, i pur apprezzabili sforzi di valorizzazione della professionalità non inducono a ritenere che la contrattazione collettiva abbia risolto il problema . Parte della dottrina rileva come in alcuni settori la contrattazione collettiva abbia tentato di valorizzare la professionalità attraverso sistemi di inquadramento basati su competenze, ruoli e comportamenti organizzativi . In questi casi, nei livelli di inquadramento vengono evidenziate principalmente soft skills quali la propensione all’innovazione, al problem solving e all’orientamento al risultato, alla leadership, al team working, nonché la flessibilità professionale, l’inclinazione al trasferimento delle competenze e la capacità di adattarsi a differenti contesti lavorativi. In realtà, proprio il fatto che in questi settori si mettano in luce le soft skills, le attitudini, assai più che le capacità professionali del lavoratore, mostra quanta distanza vi sia rispetto a un inquadramento ancorato alla professionalità e alle competenze cd. hard, quelle cioè specificamente legate al percorso formativo del lavoratore.
In altri settori, tuttavia, la contrattazione collettiva è riuscita a compiere passi notevoli e a costruire sistemi di inquadramento in sintonia con il nuovo ruolo che le deriva dalla riforma dell’art. 2103 c.c. . Il riferimento ai criteri di professionalità nell’articolo 3 del titolo II della Sezione Quarta del CCNL Metalmeccanici , nonché la menzione della competenza tecnico-specifica tra i criteri di professionalità, che devono guidare la definizione delle declaratorie secondo il punto 1.1 dell’art. 1 del medesimo titolo, dimostrano la chiara consapevolezza della funzione che il nuovo testo dell’art. 2103 c.c. assegna alla classificazione contrattuale . Il nuovo CCNL Metalmeccanici non lega i livelli contrattuali alla professionalità solo attraverso soft skills ed elementi trasversali (come per es. competenze in campo linguistico o digitale, autonomia e responsabilità sul piano gerarchico funzionale), ma costruisce profili connessi a competenze tecniche centrali dal punto di vista della formazione .
2. L’obbligo di formazione previsto dal terzo comma dell’art. 2103 c.c. e la necessità di formazione del lavoratore come limite al repêchage
Nel quadro appena delineato è, come si anticipava, di particolare rilievo la formulazione del terzo comma dell’art. 2103 c.c., che prevede un obbligo di formare il lavoratore allo svolgimento delle nuove mansioni, senza corredarlo di alcuna sanzione e, anzi, prevedendo espressamente che il mancato assolvimento dell’obbligo “non determina comunque la nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni”. L’obbligo formativo in questione collabora dunque inevitabilmente alla definizione dell’area di impiegabilità del lavoratore, specie ove si ritenga che esso sussista in ogni caso, vale a dire sia se si tratti di formare il prestatore allo svolgimento di mansioni cui il datore intenda adibirlo per proprio interesse diretto, sia se si tratti di formare il lavoratore allo svolgimento di mansioni alle quali potrebbe essere adibito per evitare il licenziamento.
La previsione secondo la quale l’assegnazione alle nuove mansioni resta ferma anche in difetto di adeguata formazione pare criticabile non solo perché un obbligo sfornito di sanzione sembra privo di senso, ma anche perché finisce per determinare una situazione di stasi, nella quale il lavoratore è astrattamente obbligato a un’attività senza avere i mezzi per adempiere e, quindi, potendosi rifiutare ex art. 1460 c.c. di svolgere i nuovi compiti ove il datore non adempia l’obbligo formativo. Ciò in particolare quando la contrattazione collettiva rafforzi la previsione di legge imponendo l’assolvimento di specifici obblighi formativi, che anzi potrebbero fondare anche richieste di risarcimento del danno da parte del lavoratore in caso di inadempimento del datore di lavoro.
In ogni modo, l’esclusione della nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni da parte del legislatore non significa necessariamente che il lavoratore sia tenuto ad eseguirle in difetto di adeguata formazione, e ciò non solo quando il contratto collettivo applicabile non abbia previsto specifici obblighi formativi. Pur essendo valido, l’atto di assegnazione potrebbe avere efficacia condizionata alla fruizione da parte del lavoratore della formazione necessaria in base al principio della buona fede in executivis. Quest’ultimo preclude al datore di lavoro creditore la richiesta di un adempimento che il debitore non è in grado di assicurare poiché privo delle competenze necessarie , così come impedisce al lavoratore debitore il rifiuto di prestare attività che nei fatti è in grado di svolgere pur non essendo stato specificamente formato allo scopo.
Lo stesso principio di buona fede in executivis potrebbe implicare un onere a carico del datore di lavoro di garantire al lavoratore la formazione necessaria alla prosecuzione del rapporto di lavoro attraverso lo svolgimento di mansioni diverse tutte le volte che ciò sia necessario per evitarne il licenziamento? Una risposta generale in senso positivo a questa domanda implicherebbe l’inclusione della professionalità e della formazione nell’oggetto del contratto di lavoro, accogliendo un’opzione interpretativa che molto ha alimentato il dibattito dottrinale . Un’opzione che senza dubbio garantirebbe l’interesse del lavoratore alla propria crescita professionale e quello del datore di lavoro al costante aggiornamento dei dipendenti e, in definitiva, alla maggiore “reattività” dell’organizzazione produttiva rispetto alle sopravvenienze, ma che esporrebbe entrambe le parti al rischio di un notevole aggravamento dei propri obblighi contrattuali. Il lavoratore sarebbe gravato di un dovere di formazione continua e di aggiornamento costante delle proprie competenze, che può invero rientrare negli obblighi prestatore solo se diretto ad aggiornare la professionalità necessaria allo svolgimento delle mansioni di origine, non certo di altre mansioni. Dall’altro lato, il datore di lavoro potrebbe essere ritenuto obbligato a garantire al lavoratore strumenti di formazione continua, con il rischio di ritenerlo sempre obbligato ad assicurare la formazione necessaria alla prosecuzione dell’impiego del lavoratore, anche nei casi in cui la formazione sia cioè finalizzata ad ampliare il novero delle mansioni cui il prestatore possa essere adibito adempiendo al cd. obbligo di repêchage.
Una simile lettura graverebbe il datore di lavoro di un obbligo accessorio di formazione dai contorni indeterminati. È dunque comprensbile che una parte della giurisprudenza tenda a limitare l’impatto della riforma dell’art. 2103 c.c. sul potere datoriale di recesso, affermando che l’obbligo di repêchage non avrebbe ad oggetto tutte le mansioni astrattamente assegnabili al lavoratore ex art. 2103 c.c., ma solo quelle per lo svolgimento delle quali egli possegga le competenze professionali . L’obbligo formativo di cui al terzo comma del nuovo testo dell’art. 2103 c.c. resterebbe dunque confinato alle sole fattispecie di mutamento discrezionale delle mansioni, vale a dire al mutamento di mansioni non determinato dall’esigenza di evitare il licenziamento.
Questa interpretazione, pur sostenuta dall’apprezzabile intento di individuare un argine oggettivo all’estensione dell’obbligo di repêchage, non sembra possa obliterare il nesso logico che esiste tra quest’ultimo e l’oggetto del contratto. Se il nuovo testo dell’art. 2103 c.c. ha dilatato l’area delle mansioni esigibili, sembra innegabile che la stessa area valga a definire il perimetro di quella che potremmo individuare come “impiegabilità” del lavoratore medesimo e dunque a delimitare il diritto del lavoratore a continuare a svolgere le mansioni che gli possono essere richieste, evitando il licenziamento. E infatti non sono mancate anche in giurisprudenza voci in questo senso , sebbene sia vero che il nuovo testo dell’art. 2103 c.c., corredato dall’obbligo formativo di cui al terzo comma, possa avere effetti “esplosivi” sulla latitudine dell’obbligo di repêchage, specie a fronte di forme di inquadramento contrattuale collettivo, in genere tendenzialmente non coerenti con i profili professionali. Questa è la ragione del primo orientamento ricordato: quella giurisprudenza cerca di supplire all’inefficienza delle classificazioni contrattuali collettive individuando nella formazione necessaria allo svolgimento delle mansioni di ripescaggio il limite all’obbligo datoriale.
L’orientamento in parola non può tuttavia, ad opinione di chi scrive, essere seguito per varie ragioni e, in primo luogo, perché indirettamente esso restitusce rilievo alla professionalità nella disciplina delle mansioni, rilievo che il legislatore della riforma aveva nei fatti voluto, se non eliminare, almeno confinare nei limiti in cui fosse stato oggettivato nelle classificazioni contrattuali. Inoltre, se è vero che esso costruisce un confine certo a un obbligo di repêchage altrimenti senza limiti, è anche vero che finisce per individuare il punto di equilibrio in un fattore, la necessità o meno di formazione per svolgere le mansioni di destinazione, che di per sé non necessariamente costituisce sempre un aggravio eccessivo per il datore di lavoro, ben potendo un’attività formativa non risultare eccessivamente onerosa e, viceversa, il repêchage di un lavoratore risultare eccessivamente oneroso anche ove la sua formazione non sia indispensabile.
La valutazione dell’eccessiva onerosità del repêchage deve inevitabilmente essere rimessa al giudizio del caso concreto, non potendosi individuare un argine oggettivo e predefinito all’obbligo datoriale che sia valido in ogni caso. Differenti compagini aziendali avranno diverse possibilità di assolvere all’obbligo formativo di cui al terzo comma dell’art. 2103 c.c. nuovo testo e dunque un limite all’obbligo datoriale individuato proprio nel non dover formare il lavoratore per renderlo in grado di svolgere le mansioni di ripescaggio sembra foriero di distorsioni.
3. Obbligo formativo ex art. 2103, terzo comma, c.c. e accomodamenti ragionevoli per i disabili. La logica unitaria che governa le ipotesi di repêchage del lavoratore
A conferma di quanto si sta dicendo circa i limiti dell’obbligo datoriale di repêchage vanno considerate le altre fattispecie nelle quali sussistono un obbligo formativo o un obbligo di adattamento dell’organizzazione produttiva finalizzati alla conservazione del rapporto di lavoro, che partecipano, ad avviso di chi scrive, della medesima ratio normativa dell’obbligo di formazione previsto dal terzo comma dell’art. 2103 c.c. Si tratta del rapporto di lavoro dei soggetti disabili e del rapporto di lavoro nel caso della sopravvenuta inidoneità psicofisica del lavoratore . In queste ipotesi è previsto che il datore di lavoro adotti accomodamenti ragionevoli con lo scopo di consentire la prosecuzione dell’impiego dei disabili o dei soggetti divenuti inidonei allo svolgimento delle mansioni assegnate.
La nozione di accomodamenti ragionevoli si rinviene nell’art. 2, 4 cpv. della Convenzione ONU del 13 dicembre 2006 sui diritti delle persone con disabilità, che fa riferimento a “le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali” . Sulla stessa linea, peraltro, già l’art. 5 della dir. 2000/78 affermava che il datore di lavoro deve prendere “i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato”. Precisando poi che “tale soluzione non è sproporzionata allorché l'onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili” .
Entrambe le norme individuano il limite della collaborazione che il datore di lavoro deve prestare all’adempimento del lavoratore disabile nel fatto che le attività necessarie, gli accomodamenti utili appunto, non comportino un onere finanziario sproporzionato, vale a dire non siano eccessivamente onerosi per il datore di lavoro stesso. Si ha così un’ulteriore conferma di quanto si andava sostenendo nelle pagine che precedono e di quanto si è a suo tempo dimostrato : la logica è la stessa che vale per il repêchage ed è quella dell’eccessiva onerosità sopravvenuta. La ragionevolezza degli accomodamenti sta appunto nel non comportare oneri eccessivi per la parte datoriale. Questa lettura è pienamente confermata dalla legislazione nazionale attuativa, che del resto rinvia alle fonti internazionali ed europee citate per la nozione di accomodamenti ragionevoli .
L’interpretazione proposta aiuta anche a meglio comprendere l’art. 4, comma 4 della l. 68/99, a norma del quale per “i lavoratori che divengono inabili allo svolgimento delle proprie mansioni in conseguenza di infortunio o malattia […], l’infortunio o la malattia non costituiscono giustificato motivo di licenziamento nel caso in cui essi possano essere adibiti a mansioni equivalenti ovvero, in mancanza, a mansioni inferiori. Nel caso di destinazione a mansioni inferiori essi hanno diritto alla conservazione del più favorevole trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza. Qualora per i predetti lavoratori non sia possibile l’assegnazione a mansioni equivalenti o inferiori, gli stessi vengono avviati, dagli uffici competenti di cui all'articolo 6, comma 1, presso altra azienda, in attività compatibili con le residue capacità lavorative [...]”. La norma andrebbe letta nell’ottica degli accomodamenti ragionevoli, che, come detto, non devono, ai sensi dell’art. 2, quarto capoverso, della Convenzione ONU del 2006 e dell’art. 5 della direttiva 2000/78, imporre al datore di lavoro un onere sproporzionato o eccessivo . Dunque, la impossibilità di assegnazione a mansioni equivalenti o inferiori altro non sarebbe che l’eccessiva onerosità per il datore di lavoro di una simile modifica organizzativa.
Va rimarcato che, sebbene nel sistema della l. 68/99 il disabile sia solo quello il cui deficit sia stato accertato dalle competenti commissioni o dall’Inail (cfr. art. 1 lett. a e b l. 68/99) , nella normativa internazionale ed europea e in altri settori di quella nazionale che fa riferimento alla nozione (per es. sulle discriminazioni) può dirsi accolto un concetto di disabilità “bio-psicosociale”, assai più lato e che prescinde da una “certificazione” pubblica . L’art. 1, comma 2 della Convenzione ONU del 2006 sui diritti delle persone con disabilità le individua espressamente in quelle che “presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri”. Non vi è dunque alcun riferimento a una disabilità “accertata” da organi ufficiali, disabile essendo considerato il soggetto che abbia delle limitazioni durature sul piano fisico, mentale, intellettuale e sensoriale che ne ostacolino la partecipazione sociale in condizioni di uguaglianza con gli altri. E ad avviso di chi scrive questo approccio conferma una interpretazione come quella che qui si propone, nel senso di una lettura unitaria della disciplina degli adattamenti organizzativi necessari alla prosecuzione del rapporto di lavoro dei disabili, comunque intesi, dei lavoratori divenuti inidonei e, in definitiva, di tutti i lavoratori che possano essere considerati inidonei alle mansioni di ripescaggio.
Si consideri anche l’art. 42 del TU 81/2008, secondo il quale “il datore di lavoro, anche in considerazione di quanto disposto dalla legge 12 marzo 1999, n. 68, […] attua le misure indicate dal medico competente e qualora le stesse prevedano un’inidoneità alla mansione specifica adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza”. Qui, come nel già ricordato l’art. 4, comma 4 della l. 68/99, sembra inevitabile riconoscere che la “possibilità” di impiego su mansioni equivalenti o inferiori altro non sia che la ragionevolezza di modifiche e adattamenti “necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo” di cui tratta la Convenzione Onu del 2006, quindi la non eccessiva onerosità degli accomodamenti necessari a consentire la prosecuzione dell’impiego del lavoratore divenuto inidoneo alla mansione specifica.
La medesima logica guida dunque la valutazione di tutti i comportamenti datoriali che consentono il repêchage del lavoratore permettendo di evitarne il licenziamento, e nella stessa prospettiva va letto l’assolvimento dell’obbligo formativo di cui al nuovo testo dell’art. 2103 c.c. A prescindere dall’inquadramento giuridico cui si voglia ricondurre la fattispecie (buona fede in executivis, obblighi di protezione, obbligo di cooperazione all’adempimento ex art. 1206 c.c. ), il ragionamento di fondo non cambia. Il datore deve secondo correttezza e buona fede fare quanto possibile per conservare in vita il rapporto di lavoro. E quanto possibile, come detto, non può che essere quanto non sia eccessivamente oneroso, sulla falsariga di quanto l’art. 1467 c.c., commi 1 e 3 stabilisce per tutti i contratti a esecuzione continuata o periodica. L’obbligo di formazione introdotto nel terzo comma dell’art. 2103 c.c. partecipa di questa stessa logica e va quindi letto come un accomodamento ragionevole.
La valutazione dell’eccessiva onerosità sarà diversa nelle varie ipotesi, in particolare perchè per l’occupazione dei disabili “certificati” si potrà furire di fondi pubblici e, nella specie, di quelli del Fondo regionale previsto dall’art. 14 della l. 12 marzo 1999, n. 68 e destinati al “rimborso forfetario parziale delle spese necessarie all’adozione di accomodamenti ragionevoli in favore dei lavoratori con riduzione della capacità lavorativa superiore al 50 per cento”. Quindi la misura della “possibilità” (art. 42 TU 81/08), della ragionevolezza (art. 14, comma 4, lett. b l. 12 marzo 1999, n. 68) o della non eccessiva onerosità (Convenzione ONU e art. 5 dir. 2000/78, nonché art. 3, comma 3bis d.lgs. 216/03) potrà essere differente. La ragionevolezza sul piano economico degli accomodamenti da adottare andrà considerata tenendo conto della possibilità o meno di fruire del rimborso forfetario parziale di cui all’art. 14, comma 4, lett. b l. 12 marzo 1999, n. 68, previsto solo in caso di disabilità del lavoratore certificata superiore al 50 per cento della capacità lavorativa. Questo è del resto ciò cui allude l’art. 5 della Dir. 2000/78, a norma del quale l’onerosità della soluzione che consenta la prosecuzione del rapporto di impiego non potrà dirsi eccessiva o sproporzionata tutte le volte in cui il carico finanziario sopportato dal datore sia “compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili”.
Il datore di lavoro deve fare quel che può, deve impegnare delle risorse per rendere possibile la conservazione del rapporto di lavoro, purché il ripescaggio del lavoratore non si riveli eccessivamente oneroso. Nel nuovo quadro normativo “l’assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall’imprenditore” non è lo è più nel senso delineato dalla pronuncia n. 7755/98 delle Sezioni Unite . L’assioma dell’intangibilità dell’organizzazione imprenditoriale va riletto come rimessione alla discrezionalità imprenditoriale della scelta delle soluzioni ipotizzabili, fermo restando che egli è tenuto ad impiegare ogni accorgimento che consenta la prosecuzione del rapporto di lavoro nei limiti in cui non risulti eccessivamente oneroso.
L’art. 2103, comma terzo, c.c. è quindi l’ultimo elemento di un sistema normativo coerente, che individua nell’eccessiva onerosità delle misure il limite dell’onere di adottare gli adattamenti organizzativi funzionali al ripescaggio del lavoratore, superando il dogma dell’intangibilità della struttura produttiva disegnata dal datore di lavoro. Ques’ultimo sarà tenuto a formare il lavoratore se possa servire a evitarne il licenziamento, nei limiti in cui ciò non risulti eccessivamente oneroso. La logica di fondo è la stessa degli accomodamenti ragionevoli per i disabili e, anzi, la formazione può ben essere considerata l’accomodamento ragionevole per eccellenza, che si tratti di lavoratore disabile o non disabile.