testo integrale con note e bibliografia
1. Il ruolo imprescindibile degli schemi pubblici di riduzione dell’orario di lavoro nella società del rischio
La Commissione europea affermava, già nel 2014, che gli Stati membri con un maggior capacità di “resilienza” alla crisi occupazionale conseguente alla cd. Great Recession del 2007-2013 erano stati quelli che, tra l’altro, disponevano di Short-Time Working scheme (STW) . Si tratta di “strumenti finanziati con risorse pubbliche finalizzati a consentire alle imprese (…) di ridurre temporaneamente l’orario di lavoro e di organizzare così forme di condivisione del lavoro, garantendo un supporto economico in favore del lavoratori che subiscono la riduzione oraria” . La finalità comune di questi schemi pubblici di riduzione dell’orario di lavoro, variamente articolati, è quella di prevenire massicci licenziamenti durante i periodi di crisi economica .
D’altro canto, anche all’indomani della fase più dura della pandemia, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico ha rimarcato come gli STW siano stati i principali strumenti utilizzati per contenere la crisi occupazionale di quel tragico periodo .
Esemplificativa, in proposito, è l’esperienza del Regno Unito . Anche in questo paese, per evitare che il blocco della produzione e delle attività lavorative conseguente al lockdown si trasformasse in esuberi di massa, l’Esecutivo ha introdotto, tra le primissime misure, uno schema di sostegno pubblico alla riduzione dell’orario, il Coronavirus Job Retention Scheme (CJRS). La misura, posto il tradizionale laizzez fair nel campo del lavoro e non solo, ha rappresentato il più rilevante intervento sul mercato del lavoro – e probabilmente nell'economia – nella storia moderna britannica . successivamente, per sopperire ai difetti di copertura del CJRS, è stata introdotta anche una misura dedicata ai lavoratori autonomi, il Self-Employed Income Support Scheme. Le due misure, posta l’assoluta novità per quell’ordinamento dell’evento protetto (la sospensione dell’attività lavorativa per cause non imputabili), sono stati interventi finanziati dalla fiscalità generale e non su base contributiva. Probabilmente, per questa ragione non sono più state riproposte a partire dal settembre 2021, nonostante l’opposizione della principale sigla sindacale .
In sintesi, proprio l’eccezionale e temporanea presenza di STW ha consentito al sistema britannico di sicurezza sociale di tipo universalistico di reggere l’impatto della crisi: senza di esse la pressione sulla prestazione assistenziale di base (l’Universal Credit) sarebbe stata insostenibile .
Quanto accaduto nel Regno Unito durante l’emergenza sanitaria dovrebbe indurre a riflettere, nel momento in cui ci si appresta a rimodulare i sistemi di protezione sociale, anche nella attuale fase di emergenza indotta da nuove crisi esogene al mercato del lavoro (guerre, crisi energetiche, squilibri demografici e crisi climatica). Seppure siano stati interventi emergenziali, i contenuti e le modalità replicano, per intensità e tratti fondamentali, quanto avvenuto in tutti i paesi ad economia avanzata. Insomma, seppur temporaneamente, la distanza tra modelli di politica del diritto si è ridotta, travolta dalla crisi. Se veramente siamo entrati nella “società del rischio”, la rivisitazione in chiave moderna ed universalistica del sistema di protezione sociale non può non muoversi da questa constatazione: la risposta dovrebbe essere globale e proteggere anche da rischi che, seppure apparentemente non nascano nei rapporti economici, su questi ultimi si infrangono .
In questa prospettiva va sottolineato come il Regolamento UE 2020/672 , istitutivo del SURE (Support to mitigate Unemployment Risks in an Emergency) , costituisca un vero e proprio cambio di paradigma. L’Europa si è spinta oltre il già ricordato mero riconoscimento politico dell’importanza dei STW: con quest’atto è intervenuta, in via solidale, per il finanziamento “di regimi di riduzione dell’orario lavorativo o di misure analoghe che mirano a proteggere i lavoratori dipendenti e autonomi e pertanto a ridurre l’incidenza della disoccupazione e della perdita di reddito” (art. 1, 2° paragrafo, del Regolamento). Il cambiamento d’approccio è radicale rispetto alla Flexicurity: quest’ultima, infatti, in linea con le tradizioni dei paesi in cui è sorta, conosce un’ «unica “species”» di politiche passive e cioè quelle che intervengono solo a seguito della espulsione dal mercato del lavoro .
2. Oltre il rischio: le politiche attive del lavoro come diritto
In un articolo del 2011, il compianto Prof. Carlo Dell'Aringa sottolineava che gli schemi pubblici di riduzione dell’orario di lavoro “(…) vanno bene per affrontare la parte acuta della crisi, ma non possono essere usati per un periodo troppo lungo, in quanto possono ritardare i processi riallocativi di aggiustamento del sistema produttivo (…)” . Restava – e resta ancora – secondo questo A., il problema di come ridurre gradualmente queste misure senza che un aumento della disoccupazione e la permanenza prolungata degli individui in questa condizione, provochi fenomeni di “isteresi”, vale a dire la trasformazione del fenomeno da temporaneo in “strutturale”.
La questione è dal tempo al centro del dibattito italiano e vede contrapporsi in dottrina – ma anche nelle ipotesi de iure condendo – soluzioni contrapposte. A chi ritiene indispensabile rafforzare gli SWT, in quanto meccanismi di salvaguardia del patrimonio di competenze della “forza lavoro” ed al contempo della “capacità industriale del paese”, perché riconversioni e ristrutturazioni scongiurano chiusure e deindustrializzazione” , si cerca di contrapporre il già richiamato modello europeo della Flexisecurity. Le critiche, autorevoli per l’istituzione da cui provengono, si addensano sull’intervento di integrazione straordinaria, di cui si propone il progressivo superamento, perché: “le crisi di impresa andrebbero gestite con misure di sostegno al reddito attuate attraverso i sussidi di disoccupazione e strumenti che favoriscano la ricollocazione dei lavoratori (politiche attive e incentivi alle assunzioni)” .
In realtà, nella trama legislativa più recente, è possibile individuare una soluzione che sembra superare quella che appare una contrapposizione invero posticcia: le Politiche Attive del Lavoro (Pal), invece, ben possono utilizzate anche in caso di sospensione di rapporto di lavoro, a patto di privilegiare l’anima “scandinava” delle stesse politiche attive e cioè lo sviluppo del capitale umano e quindi la qualità e il contenuto delle stesse politiche .
Sintomatici di quest’altro approccio di politica del diritto, prima di esaminare le norme, sono due importanti documenti governativi. Esemplificativo da questo punto di vista è il documento che ha dettatole linee di tendenza delle politiche di riforma in questa materia: il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) del 2021. Assai sintetizzando , si prevede “un’ampia e integrata riforma delle politiche attive e della formazione professionale, supportando i percorsi di riqualificazione professionale (upskilling e reskilling) e di reinserimento di lavoratori in transizione e disoccupati (percettori del Reddito di Cittadinanza, NASPI e CIGS) nonché definendo, in stretto coordinamento con le Regioni, livelli essenziali di attività formative per le categorie più vulnerabili”. Sostanzialmente, già tra le righe del Piano, l'attenzione di queste politiche appare focalizzata sull'innalzamento del capitale umano (empowerment), rivolte non solo ai disoccupati ma anche ai “lavoratori in transizione”. D’altro canto, le misure di cui si chiede il finanziamento sono, nella maggior parte dei casi, saldamente incastonate nel contesto dell'ordinamento vigente così come disegnato dall'ultima riforma generale in materia (il d.lgs. n. 150/2015), ma bisognose di completa attuazione operativa, anche per mezzo di un adeguato supporto finanziario e di capitale umano, reperite, appunto, tramite il Pnrr.
Ancor più chiaro era già stato il Programma Nazionale di Riforma del 2020, approvato in piena pandemia, ove si affermava: “La politica attiva non deve essere intesa solo come condizionalità per l’erogazione del beneficio economico, quanto come diritto, in capo ai soggetti in condizioni di bisogno, ad una presa in carico da parte dei competenti servizi pubblici, in ambito lavorativo o sociale, ai fini del superamento dello stato di bisogno”. Riecheggiano in questa dichiarazione note elaborazioni cui è giunta la dottrina giuslavoristica e su cui hanno sedimentato anche interpretazioni costituzionalmente orientate della stessa condizionalità . Questo approccio, d’altro canto, trova espressamente riscontro nel principale strumento attuativo di questa parte del Pnrr, il programma Garanzia di Occupabilità dei Lavoratori (GOL) .
3. Breve storia delle politiche attive del lavoro rivolte ai “lavoratori in transizione”
Il matrimonio tra politiche attive e schemi pubblici di riduzione dell’orario di lavoro non è, d’altro canto, una novità.
Nel 2004 la legge n. 291/2004, di conversione del d.l. n. 249/2004, nel disporre dal 2005 l’estensione del trattamento di Cigs anche al personale dei vettori aerei, prevedeva che: “Il lavoratore sospeso in cassa integrazione guadagni straordinaria (…) decade dal trattamento qualora rifiuti di essere avviato ad un corso di formazione o di riqualificazione o non lo frequenti regolarmente” . In quella fase, l’approccio alle politiche attive si conformava ad un rigido – e sterile - workfare, cioè attento al profilo sanzionatorio, di contrasto dell’azzardo morale del beneficiario della politica pubblica e, poco, al profilo contenutistico della stessa.
Successivamente il matrimonio, per così dire, divenne d’interesse durante la gestione della great recession ricordata all’inizio. Nel 2009, il Legislatore italiano, per salvaguardare l’occupazione, decise di finanziare extra-sistema (con la fiscalità generale e non su base assicurativa) una generalizzata e temporanea estensione della Cassa Integrazione Guadagni, costituendo, accanto alla stessa, un ulteriore “sistema parallelo” , i cd. ammortizzatori sociali in deroga. Per finanziare questo sistema parallelo, si accedeva direttamente ad una fonte di finanziamento ulteriore che chiamava in causa, dal punto di vista procedurale e non solo, le Regioni. Allo scopo, venne sottoscritto nel febbraio 2009 un Accordo tra Governo e Regioni in cui fu concordato un impegno finanziario di entrambe le parti: le Regioni si impegnarono a garantire, “a valere sui programmi regionali FSE”, circa il 30% dell’impegno stimato, per realizzare “azioni combinate di politica attiva e di completamento del sostegno al reddito”. In sostanza, le persone beneficiarie dei trattamenti in deroga avrebbero ricevuto, da una parte, una quota dell'indennità a valere sulle risorse nazionali e, dall'altra, a valere sui Programmi regionali FSE, di un'azione formativa o di politica attiva governata dalla Regione “integrata dall'erogazione di un sostegno al reddito che, assieme al sostegno a carico dei fondi nazionali, rientri nel limite dei massimali previsti dalle leggi” .
Poi la cd. Riforma Fornero (l. n. 92/2012), oltre a disciplinare nuovamente l’intervento pubblico in caso di sospensione dei rapporti di lavoro, cercava di sistematizzare, ma ancora una volta solo in superficie, le Pal, fissando i livelli essenziali delle prestazioni (Lep) da garantire su tutto il territorio nazionale. Tra questi – senza curarsi della reale praticabilità, anche procedurale, di tale obbiettivo da parte delle Regioni – si prevedeva che: “Nei confronti dei beneficiari di trattamento di integrazione salariale o di altre prestazioni in costanza di rapporto di lavoro, che comportino la sospensione dall'attività lavorativa per un periodo superiore ai sei mesi, si devono prevedere almeno l'offerta di formazione professionale della durata complessiva non inferiore a due settimane adeguata alle competenze professionali del disoccupato» (art. 4, comma 33, lett. a) (N.d.A. corsivo mio). Posto il collegamento tra le due politiche ne discendeva il legame condizionale – e velleitario – tra esse e quindi che: “Il lavoratore sospeso dall'attività lavorativa e beneficiario di una prestazione di sostegno del reddito (…) decade dal trattamento qualora rifiuti di essere avviato ad un corso di formazione o di riqualificazione o non lo frequenti regolarmente senza un giustificato motivo” (art. 4, comma 40).
Solo il Job Act (art. 22 del d.lgs. n. 150/20015) sistematizzò e svolse gli stessi istituti (condizionalità e Lep) con l’intento di renderli obiettivi più credibili (e raggiungibili dalle Regioni). Ridefinì, innanzi tutto, la platea definita dai lavoratori per i quali la riduzione di orario fosse superiore al 50% dell'orario di lavoro annuale. Opportunamente diveniva derimente non la durata dello schema pubblico, quanto la sua intensità per escludere dalla platea, appunto, quelli a “bassa intensità” per i quali la programmazione di una Pal è/era difficile da predisporre. Estese quindi anche nei confronti di questa platea l’obbligo di sottoscrizione del patto di servizio personalizzato, strumento nel frattempo definitivamente stabilizzato nell’ordinamento , però chiaramente “spuntato” degli obblighi di ricerca attiva di lavoro, posta la mera sospensione del rapporto di lavoro. La riforma del 2015 soprattutto chiarì gli obbiettivi delle Pal dedicate a questa particolare platea di soggetti e cioè, anticipando il Pnrr, il re-skilling e up-skilling (“mantenere o sviluppare le competenze”). Allo scopo era prevista una specifica personalizzazione del patto di servizio (da stipulare sentito il datore di lavoro, con l'eventuale concorso dei fondi interprofessionali), nonché limitazioni ai poteri degli uffici competenti (la convocazione doveva avvenire “in orario compatibile con la prestazione lavorativa”). A coronamento di questa ridefinizione delle Pal dirette a questa platea di lavoratori, veniva – piuttosto che “rafforzata” (come annunciava il titolo dell’art. 22 citato) – finalmente edificata una disciplina della condizionalità presa sul serio, specificando i comportamenti puniti e quindi graduate le relative sanzioni.
Proseguendo l’esameè emersa nel tempo la volontà del Legislatore di incentivare/condizionare normativamente (attraverso deroghe alla disciplina ordinaria) ed anche economicamente, datori di lavoro e parti sociali a sperimentare il coinvolgimento dei lavoratori titolari di integrazione salariale nelle Pal. Così il cd. Decreto Genova (d.l. n. 109/2018) ha temporaneamente “riattivato” la residuale causale Cigs per cessazione dell’attività produttiva anche nell’ipotesi in cui il necessario accordo raggiunto in sede ministeriale, preveda “specifici percorsi di politica attiva del lavoro posti in essere dalla Regione interessata” (art. 44) . Allo stesso modo, la Legge di Bilancio per il 2018 (l. n. 205/2017), integrando il Testo Unico in materia (ci si riferisce al d.lgs. n. 148/2015), ha temporaneamente stabilito che la proroga della durata della Cigs oltre i limiti legali massimi, sia condizionata alla presentazione da parte dell’impresa di “piani di gestione volti alla salvaguardia occupazionale che prevedano specifiche azioni di politiche attive concordati con la regione interessata o con le regioni interessate” (art. 22 bis) . In entrambi i casi, in sintesi, la deroga alla disciplina ordinaria è concessa se la Regione predispone una Pal ad hoc.
Si noti che, accanto alla “salvaguardia occupazionale”, plasticamente, nella stessa legge n. 205 resiste anche la finalità/anima ricollocativa delle politiche attive. Con la stessa tecnica legislativa, si prevedono una batteria di importanti incentivi economici alla stipula, al termine della procedura di consultazione sindacale per la concessione della Cigs per riorganizzazione o crisi aziendale, di un “accordo di ricollocazione” sulla base del quale i lavoratori coinvolti possono richiedere l’attribuzione anticipata dell’assegno di ricollocazione, spendibile per l’accesso ad un “servizio intensivo di assistenza nella ricerca di un altro lavoro” (art. 24 bis) .
4. Una nuova politica del lavoro? Spunti dalla legislazione vigente
Infine, sulla stessa materia è intervenuta anche l’ultima riforma in ordine di tempo degli ammortizzatori sociali, la legge di Bilancio per il 2022 (l. n. 234/2021).
Posto che, riprendendo la metafora già utilizzata, possono festeggiarsi quasi 20 anni di matrimonio tra trattamenti di integrazione salariale e Pal, quali sono le novità e le linee di continuità in materia?
Partiamo da queste ultime. Permane innanzi tutto l’obiettivo, presente fin dal Jobs Act, di “mantenere o sviluppare le competenze” (reskilling e up-skilling). Si aggiunge qui l’esigenza che la Pal sia progettata “in connessione con la domanda di lavoro espressa dal territorio”; emerge così anche l’obiettivo ricollocativo, che non può prescindere dall’analisi del mercato del lavoro locale. Limpidamente chiarisce il titolo dell’articolo introdotto – sempre nel d.lgs. n. 148/2015 – dalla l. n. 234 che le Pal rivolte a questa particolare platea di lavoratori si devono intendere come “formazione”, con un ruolo espresso delle parti sociali pure in questa sede, posto che “le iniziative di carattere formativo o di riqualificazione” possono svolgersi “anche mediante fondi interprofessionali” (art. 25 ter). Sempre il titolo dello stesso articolo individua l’altra faccia della stessa medaglia e cioè la “condizionalità”: la partecipazione alla formazione, se prevista dalla legge o in sede collettiva, è obbligatoria, sicché “la mancata partecipazione senza giustificato motivo (…) comporta l'irrogazione – graduata – di sanzioni”. La condizionalità non vale solo per i lavoratori. Infatti, sul piano della tecnica legislativa, permane poi, in un altro articolo introdotto dalla l. n. 234, l’incentivo normativo di stimolo all’articolazione in sede collettiva delle Pal: è introdotta così un’ulteriore ipotesi di deroga ai limiti massimi di durata della Cigs per riorganizzazione o crisi, condizionata alla stipula di un “Accordo di transizione occupazionale” (Art. 22 ter). Con l’accordo le parti negoziali definiscono misure finalizzate alla ricollocazione o all’autoimpiego e cioè, di nuovo, “formazione e riqualificazione professionale, anche ricorrendo ai fondi interprofessionali”; qui, rispetto all’art 25 ter, l’elemento addizionale è il legame espresso con lo specifico percorso di GOL (il 5° di “Ricollocazione collettiva”), cui questi lavoratori vengono fatti direttamente accedere, tramite la comunicazione dei nominativi degli interessati ad Anpal (ora al Mlps) e quindi alle Regioni.
Per il resto, la disciplina del 2022 si segnala per alcune fondamentali innovazioni.
Innanzi tutto, la platea è, di nuovo, ridefinita: non più i titolari di qualunque trattamento di integrazione salariale ove ricorra una più intensa riduzione dell’orario di lavoro, ma solo i titolari di Cigs. Posto l’accento sulla formazione e sul suo contenuto (vedi infra), la politica attiva viene mirata sulle vicende di impresa (riorganizzazione e crisi aziendali) che più urgentemente richiedono un adeguamento/manutenzione delle competenze dei lavoratori.
La seconda novità è di ordine sistematico. Dal 2012 in poi, poiché era privilegiato il work first, la condizionalità era collocata nell’ambito delle Pal (cfr. art. 4, 40° co, l. n. 92/2012 e art. 22 d.lgs. n. 150/2015); la l. n. 234/2021, invece, restituisce alle politiche passive quella disciplina , giacché la condizionalità incide sul rapporto giuridico previdenziale. Non è un caso che, pertanto, nella disciplina vigente sia assente il richiamo espresso al patto di servizio: la politica di intervento pubblico (il trattamento di integrazione salariale e l’intervento formativo) non è un elemento nemmeno latamente “negoziale”, posta la disparità di posizione delle parti. Il patto, se c’è, viene restituito alla sua funzione reale e cioè di informativa/consenso .
La terza novità è relativa alla tecnica legislativa: la materia è pressoché del tutto delegificata, perché, per il resto (in particolare il dettaglio su sanzioni e caratteristiche degli interventi formativi), affidata alla decretazione attuativa, in effetti emanata nell’agosto del 2022 . La scelta tecnica consente di velocizzare i tempi di aggiustamento della disciplina, se necessario.
Le ultime novità emergono quindi dalla lettura della legislazione attuativa.
Il decreto relativo allo “accertamento sanzionatorio”, oltre a graduare la sanzione – ma si tratta di un elemento di per sé non innovativo – individua il soggetto incaricato, appunto, ad accertare e contestare l’inadempimento e cioè il servizio ispettivo territorialmente competente . Piuttosto che ingolfare i Cpi nell’esercizio della funzione di controllo dell’azzardo morale dei titolari di trattamenti pubblici , il compito è restituito all’ufficio dotato dei poteri e delle competenze professionali necessarie per un esercizio efficiente dello stesso.
Infine, l’altro decreto interviene, per la prima volta nella storia di questa misura, nel definire i contenuti legali della formazione cui Regioni e fondi interprofessionali devono attenersi nel programmare l’intervento . Ciò segna il reale discrimine tra le due anime delle Pal: la, per così dire, degenerazione dall’empowerment al work first non è segnato dalla condizionalità, che accompagna le assicurazioni sociali in caso di disoccupazione involontaria dalla loro nascita , quanto dall’irrilevanza qualitativa del contenuto delle politiche attive, sino a svuotarlo completamente di pregio qualora la disponibilità al lavoro richiesta al beneficiario della prestazione sociale è assoluta e cioè non mitigata da contemporanei obiettivi di salvaguardia/innalzamento della professionalità in precedenza accumulata dallo stesso. Di conseguenza, in assenza dei requisiti legali, la mancata partecipazione all’intervento formativo non può essere sanzionata .
5. Brevi conclusioni
Ciò che è cambiato nel disegno delle Pal negli ultimi anni è il contesto: invariato in sostanza l’ordinamento, è stato programmato un forte investimento europeo e domestico a favore di istituti ed istituzioni. Senza entrare qui nel merito , basti ricordare il Piano nazionale di potenziamento dei Cpi, il Pnrr, con Gol e il Piano nazionale Nuove competenze, ma anche il Fondo nuove competenze. Si tratta di una novità di tutto rilievo rispetto alle tradizionali clausole di invarianza di spesa le quali legittimavano sempre il sospetto che lo stesso Legislatore non confidasse realmente nella condizionalità. Il risultato del privilegio comunque accordato al workfare nell’ordito normativo è stato quello di contribuire a distrarre le poche risorse disponibili, anche umane, dal contributo essenziale della Rete dei servizi al lavoro – quelli pubblici, ma indirettamente anche quelli privati – all'attuazione dell'art. 4 Cost. Le evidenze che fornisce da anni l’Inapp certificano la gracilità complessiva di quella Rete, ampiamente surclassata dai canali informali di ricerca di lavoro, mentre quelli formali si attardano spesso in una insensata lotta fratricida.
Alcuni spunti importanti per un ripensamento complessivo ci sembra si possano ricavare proprio dalle politiche esaminate nelle pagine precedenti, le politiche attive rivolte ai “lavoratori in transizione”, come li definisce il Pnrr, e cioè i titolari di trattamenti di integrazione salariale.
Secondo gli studiosi che hanno proposto, appunto, l'approccio sui Mercati del Lavoro Transizionali , è necessario superare le politiche di mera attivazione che sovrastimano l’importanza dell’azzardo morale e invece sottostimano i rischi legati alla selezione avversa. Sono, cioè, necessarie politiche ed istituzioni capaci veramente di orientare i cittadini a compiere scelte informate, prive di asimmetrie informative che generano scelte inefficienti (“selezione avversa”) e per sostenerli durante le diverse transizioni che devono affrontare nella carriera lavorativa. Da tempo si rimarca il legame inscindibile delle politiche attive del lavoro con quelle passive. Il legame tra esse, e tra le istituzioni che le gestiscono, giustificano una considerazione unitaria, tuttavia fondata su basi diverse dal passato. Il legame prima promosso era di tipo meramente funzionale: assicurare meccanismi di controllo della spesa pubblica e contrastare l'azzardo morale tra i soggetti titolari di aiuti pubblici. Tuttavia, l'insuccesso di questo approccio, giustifica un ripensamento. È necessario al contrario elaborare un'unitaria politica di sostegno sociale, nell'ambito della quale i confini e la contrapposizione tra sostegno economico e le misure di sviluppo del capitale umano svaniscano. L'aiuto al reddito deve essere inteso ad agevolare e rendere meno traumatiche le sempre più complesse transizioni che affrontano i cittadini (alle transizioni endogene al mercato del lavoro, ormai si aggiungono quelle ad esso esogene, derivanti dalla nuova società del rischio) e al contempo, facilitare il compito delle stesse istituzioni pubbliche nell'orientare le complesse scelte che gli stessi soggetti si trovano a fronteggiare.