testo integrale con note e bibliografia
Premessa
Il presente contributo si pone l’obiettivo di raccontare l’esperienza di vita vissuta e le difficoltà operative che un "manovale" del diritto quale lo scrivente è chiamato ad affrontare ogni qualvolta venga chiamato ad assistere aziende, specie multinazionali, nel gestire processi di delocalizzazione o cessazione di attività in Italia.
La normativa c.d. “anti-delocalizzazioni” introdotta dalla L. 234/2021 e successivamente modificata e integrata dal D.L. 144/2022 (c.d. Decreto Aiuti-ter) nasce con la finalità ultima, agli occhi del legislatore, di salvaguardare l’occupazione e il tessuto economico-produttivo italiano e dunque regolamentare il fenomeno delle riorganizzazioni e cessazioni aziendali .
Alla prova dei fatti, tuttavia, la normativa vigente si è rivelata uno strumento inefficace ai fini di una gestione composta e mediata del confronto sindacale e istituzionale, che negli ultimi anni risulta essersi oltremodo sclerotizzato. Il dialogo tra le parti sociali, infatti, complice anche la complessità delle procedure di informazione e consultazione introdotte nel 2021 e la tendenza delle Organizzazioni Sindacali a utilizzare l'azione per condotta antisindacale come una vera e propria “clava” negoziale con i datori di lavoro , ad oggi rende impraticabile per le aziende multinazionali abbandonare l’Italia e perseguire legittimamente altre strategie imprenditoriali al di fuori del territorio nazionale.
In questo contesto, se è lecito un paragone ardito, così come la politica ha abdicato da tempo al proprio ruolo costringendo la magistratura a colmarne i vuoti e assumendo un ruolo di supplenza, si corre ora il rischio che le relazioni industriali vengano appaltate alla magistratura stessa, chiamata a dover gestire un impianto normativo inutilmente quanto deliberatamente complicato, farraginoso e criptico.
Senza voler affrontare la sicuramente spinosa e rilevante questione della compatibilità della normativa italiana con il diritto dell’Unione Europea e con la libertà di iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost. ita., il presente intervento intende mostrare quali sono le criticità in termini di costi, tempi e rischio di contenzioso che un’azienda di grandi dimensioni deve affrontare nel momento in cui decida di cessare la propria attività in Italia.
1. Il paradosso della consultazione senza informazioni
Gli obblighi di informazione e consultazione di cui alla L. 234/2021 trovano una propria naturale complementarietà con gli obblighi di uguale natura derivanti dalla contrattazione collettiva. Esemplificativo in questo senso è l’art. 9 del CCNL Metalmeccanici Industria.
La normativa contrattuale in questione prevede per le aziende con almeno 50 dipendenti una procedura di informazione e consultazione sindacale con le Rappresentanze Sindacali Unitarie e le Organizzazioni Sindacali territoriali stipulanti il CCNL da esperire preventivamente nel corso di un apposito incontro al fine di informare le stesse, inter alia, circa le operazioni di scorporo e di decentramento permanente al di fuori dello stabilimento di importanti fasi dell’attività produttiva in atto qualora esse influiscano complessivamente sull’occupazione.
L’articolo in questione è stato interpretato e applicato dalla giurisprudenza di merito nell’ambito di diversi rilevanti procedimenti d’urgenza attivati ai sensi dell’art. 28 L. 300/1970 per accertare la condotta antisindacale da parte di aziende che avessero deciso di cessare la propria attività in Italia, con conseguente licenziamento dell’intera popolazione lavorativa, senza tuttavia informare le rappresentanze sindacali e le Organizzazioni Sindacali prima dell’avvio della relativa procedura ex artt. 4 e 24 L. 223/1991.
Ebbene, per il tramite della norma in esame, i giudici sembrerebbero aver introdotto surrettiziamente all’interno del sistema di relazioni industriali italiano una sorta di co-determinazione alla tedesca, imponendo, con una lettura oltranzista e del tutto esorbitante dell’art. 9 CCNL Metalmeccanici, un vero e proprio obbligo di consultazione sindacale anticipato già nella fase di studio di fattibilità dei progetti di riorganizzazione in questione .
Da un punto di vista operativo, la tendenza ad anticipare il momento in cui sorge l’obbligo informativo in capo al datore di lavoro genera enormi difficoltà per le aziende multinazionali nell’identificare il dies a quo da tenere in debita considerazione ai fini dell’avvio delle procedure di informazione e consultazione sindacale di cui alla contrattazione collettiva, alla L. 234/2021 e, in ultima istanza, alla L. 223/1991.
Difatti, come noto, le realtà multinazionali, specie statunitensi, studiano nei propri quartier generali esteri se e come implementare una riorganizzazione delle proprie consociate locali, con notevole anticipo prima di avviare il processo di ristrutturazione interna e, ovviamente, senza il coinvolgimento diretto del management locale. In questo senso, una lettura maliziosa dell’art. 9 CCNL Metalmeccanici potrebbe addirittura portare a ritenere che il confronto sindacale debba essere avviato in un momento in cui il processo decisionale non si sia neanche ancora formato all’estero in tutti i suoi elementi .
Come conseguenza di quanto sopra, ci si pone dunque il tema di un’apparente e paradossale “ultraterritorialità” della contrattazione collettiva italiana, tale per cui un contratto collettivo di diritto privato italiano si andrebbe ad applicare ad un soggetto terzo estero il quale, a sua volta, normalmente comunicherebbe con il management locale della propria consociata italiana solo a tempo debito, ossia quando la decisione di cessare l’attività produttiva e/o commerciale sul territorio è già stata presa e formata in ogni suo aspetto. Se così fosse, dunque, le consociate italiane di gruppi multinazionali che dovessero subire una riorganizzazione decisa oltreoceano dovrebbero avviare una procedura di informazione e consultazione sindacale, tanto ai sensi della normativa contrattuale collettiva che della L. 234/2021 e, in ultima istanza della L. 223/1991, senza avere piena conoscenza di tutti i dettagli relativi al progetto di riorganizzazione stesso, con il rischio di fornire informazioni parziali o addirittura errate al Sindacato, esponendo ancor più il fianco a possibili contestazioni di condotta antisindacale.
2. Il computo della forza lavoro rilevante ai fini delle soglie quantitative ex art. 1 co. 224-225 L. 234/2021
Un ulteriore ostacolo posto dalla normativa “anti-delocalizzazioni” italiana è connesso ad una tendenza giurisprudenziale che identifica, specie nei gruppi multinazionali, l’esistenza di un centro unico di imputazione del rapporto di lavoro al ricorrere di diversi elementi “rivelatori” quali, ad esempio, l’unicità della struttura organizzativa e produttiva; l’integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo e il correlativo interesse comune; il coordinamento tecnico ed amministrativo-finanziario rappresentato, ad esempio, da una comune gestione delle risorse umane delle varie conosciate a livello locale; l’utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari delle distinte imprese del gruppo .
Il tema diventa rilevante nel momento in cui un gruppo societario avente più società in Italia che interagiscono tra loro per lo svolgimento della propria attività e legate indissolubilmente l’una all’altra dovesse decidere di implementare una riorganizzazione interna avente ad oggetto una o più di dette società.
Il quesito che ci si pone è dunque come interpretare quel “datori di lavoro” cui si riferisce la L. 234/2021 nell’identificare i soggetti tenuti all’avvio delle procedure di informazione e consultazione de qua.
Va forse inteso alla stregua della definizione fornita dall’art. 2 co. 1 lett. b) D. Lgs. 81/2008 o, adottando una lettura estensiva ed analogica delle disposizioni di cui alla L. 234/2021 alla luce della giurisprudenza di legittimità, andrebbe invece utilizzato un criterio più sostanziale per cui il datore di lavoro andrebbe identificato, qualora sussistessero i summenzionati indici “rivelatori”, nel gruppo stesso?
Qualora prevalesse l’ultima ipotesi, un gruppo multinazionale che occupi complessivamente almeno 250 dipendenti impiegati formalmente da più società operanti sul territorio italiano e volesse procedere a licenziarne almeno 50, potrebbe trovarsi nella paradossale situazione di dover avviare una procedura di informazione e consultazione sindacale ai sensi della L. 234/2021 pur non avendo la singola società datrice di lavoro raggiunto le soglie quantitative richieste dalla legge, qualora un giudice dovesse riconoscere la sussistenza di un centro unico di imputazione degli interessi dei lavoratori licenziandi.
Anche in questo caso, pertanto, la sussistenza di un obbligo in capo al datore di lavoro dipenderebbe in ultima istanza dal giudizio di un organo giudiziale, piuttosto che dalla chiarezza della legge.
3. Un conflitto tra normative non comunicanti
Oltre alle tematiche squisitamente giuslavoristiche, un gruppo multinazionale con società operanti su mercati regolamentati che intenda procedere a una riorganizzazione delle proprie consociate normalmente considera anche i propri obblighi di compliance e antitrust.
In questo contesto, la normativa di cui alla L. 234/2021 sembra essere in aperto contrasto con la normativa europea in ambito di abuso di mercato, la c.d. Market Abuse Regulation (o “MAR”) . La normativa in questione, infatti, prevede stringenti obblighi di segretezza rispetto a informazioni che, potenzialmente, potrebbero essere rilevanti ai fini della valorizzazione di un dato titolo quotato in borsa.
Il conflitto normativo consiste essenzialmente nel fatto, che da un lato, la legislazione giuslavoristica italiana mira, forte anche delle summenzionate interpretazioni giurisprudenziali, ad anticipare il momento in cui sorge l’obbligo informativo da parte del datore di lavoro, con conseguente rivelazione al mercato – oltre che ai dipendenti e alle Organizzazioni Sindacali – di informazioni concernenti operazioni che potrebbero avere effetti rilevanti sul mercato e, dall’altro, la normativa a garanzia della concorrenza sul mercato tende a posticipare o addirittura negare tale disvelamento pubblico.
Ebbene, qualsiasi azienda quotata che annunci operazioni di riorganizzazione e/o delocalizzazione come quelle in principio osteggiate dalla normativa “anti-delocalizzazioni” è ben consapevole che un simile annuncio porterebbe a un impatto sulla quotazione in borsa dei propri titoli, anche se ciò potrebbe derivare da informazioni non accurate, premature o addirittura incerte nella misura in cui le Organizzazioni Sindacali, forti delle prerogative accordate loro dalla legge, fossero in grado di rallentare o impedire l’operazione stessa.
Se così fosse, cosa dovrebbero fare un’azienda, i suoi dirigenti e i suoi amministratori e quale legislazione dovrebbero preferire? La risposta, per quanto scontata, è: quella meno rischiosa da un punto di vista sanzionatorio.
In questo senso, basti considerare che il regime sanzionatorio in tema di abuso di informazioni privilegiate previsto dalla normativa italiana è particolarmente rigido, con sanzioni sia amministrative che penali .
È ragionevole dunque ritenere che a fronte degli elevati rischi economici e della possibile responsabilità penale derivanti dalla violazione degli obblighi di segretezza previsti dalla normativa vigente, un’azienda riterrebbe più opportuno correre il rischio di porre in essere una condotta antisindacale consistente nel mancato esperimento della procedura di informazione e consultazione di cui alla L. 234/2021.
Data la complessità del tema e gli interessi in gioco nella scelta che un’azienda è chiamata a compiere nel momento in cui decida di iniziare a studiare la fattibilità di un progetto di riorganizzazione in Italia, appare alquanto semplicistica la risposta fornita dal giudice di Trieste nel caso Wärtsilä che, di fatto, ha stabilito che i vertici societari che dovessero procedere a informare i soggetti individuati dalla legge circa future riorganizzazioni e conseguenti licenziamenti collettivi non commetterebbero alcun illecito nella misura in cui, coerentemente con quanto previsto dall’art. 10 della MAR , tali informazioni privilegiate verrebbero comunicate “nel normale esercizio di una funzione” .
Infatti, è alquanto discutibile che si possa sostenere che agisca "nel normale esercizio della sua funzione" un dirigente il quale, pur gravato da obblighi di fedeltà e riservatezza, fosse comunque costretto a violare tali obblighi sfidando la proprietà dell'azienda ed esponendosi a certo licenziamento.
Al fine di evitare possibili sanzioni amministrative o penali, sarebbe però opportuno che anche CONSOB e AGCM si esprimessero sul tema, onde evitare che – sulla base dell’autorevole precedente giurisprudenziale del Tribunale di Trieste – altre società facessero incondizionatamente affidamento sulla scriminante prevista dall’art. 10 della MAR.
4. Le sanzioni e il diritto di veto larvato per le Organizzazioni Sindacali
Si noti infine che la L. 234/2021, nel procedimentalizzare il confronto sindacale in caso di delocalizzazione, impone al datore di lavoro di redigere un vero e proprio piano di salvaguardia occupazionale da presentare a Organizzazioni Sindacali e autorità pubbliche .
Fatte salve le sanzioni previste dall’art. 28 L. 300/1970 in caso di declaratoria di condotta antisindacale, la L. 234/2021 prevede che, qualora le Organizzazioni Sindacali rifiutassero di sottoscrivere il summenzionato piano per qualsivoglia ragione e il datore di lavoro dovesse effettivamente procedere con i licenziamenti programmati, quest’ultimo sarebbe tenuto a pagare il c.d. ticket Naspi dovuto in caso di mancato accordo nell’ambito della procedura di licenziamento collettivo di cui alla L. 223/1991 in misura quintuplicata .
Alla luce degli importi elevati di cui sopra, pari a circa € 55.000 per ciascun dipendente licenziato tenendo conto dei massimali stabiliti dall’INPS per il 2023, si capisce che la normativa “anti-delocalizzazioni” conferisce un vero e proprio diritto di veto alle Organizzazioni Sindacali le quali, decidendo di non aderire alle proposte datoriali per la salvaguardia della occupazione della forza lavoro aziendale, possono decretare l’aumento esponenziale dei costi della procedura di licenziamento collettivo.
Un simile regime para-sanzionatorio non fa altro che spostare verso le casse dell’INPS risorse economiche che ben potrebbero essere destinate, nei progetti di riorganizzazione studiai dai datori di lavoro, ai lavoratori stessi, per il tramite di budget specificamente allocati per finanziare possibili incentivi all’esodo e pacchetti economici da concordare con le Organizzazioni Sindacali nell’ambito della procedura di licenziamento collettivo ex artt. 4 e 24 L. 223/1991, o anche a possibili progetti di reindustrializzazione.
Conclusioni
La normativa “anti-delocalizzazioni” introdotta dalla L. 234/2021 non può risolvere un fenomeno come quello delle delocalizzazioni che, in un’economia globale quale quella in cui le multinazionali si trovano a operare, sono il naturale mezzo per abbattere i costi della produzione ed esplorare nuovi mercati più competitivi e con normative più “employer-friendly”.
D’altra parte, alla luce delle difficoltà finora esposte, la L. 234/2021 e una magistratura del lavoro spesso acriticamente anti-aziendalista hanno confermato una tendenza protezionistica tutta italiana grazie alla quale, da un lato le aziende presenti nel Belpaese diventano “ostaggio” di Organizzazioni Sindacali e autorità governative e, dall’altro, quelle che potrebbero decidere di investire in Italia abbandonano malauguratamente presto questa idea, vedendosi costrette a ponderare il rischio di rimanere intrappolate in un Paese privo di una strategia industriale competitiva e idonea ad attrarre piuttosto che respingere gli investimenti.