testo integrale con note e bigliografia
La risposta del legislatore al rischio di “perdere pezzi” - anche importanti- del nostro sistema produttivo e industriale inizialmente si è orientata nel condizionare l'erogazione di risorse pubbliche a favore delle imprese che si impegnano a mantenere l'attività produttiva in Italia (legge n. 80 del 2005). Successivamente, da circa 10 anni, a partire dalla legge di stabilità 2014, il legislatore ha puntato sul recupero delle provvidenze erogate a quelle imprese che, dopo aver fatto shopping fiscale, di benefici contributivi e di erogazioni a fondo perduto, hanno deciso di delocalizzare.
Il decreto dignità del 2018 prevede la decadenza dal beneficio c.d. aiuto di Stato “qualora l'attività economica venga delocalizzata” e sulla stessa lunghezza d’onda ha proseguito la legge n. 234 del 2021, sennonché sulla efficacia di tali discipline è lecito nutrire dei dubbi considerato che, come riporta Nuzzo nel 2022, non risulta emesso alcun provvedimento di revoca.
Con la legge n. 234 del 2021, sopra richiamata, il legislatore ha scelto di aggravare la procedimentalizzazione dei poteri datoriali in ordine a delocalizzazioni, riduzione di personale e licenziamenti collettivi di grandi aziende. Il presupposto della procedimentalizzazione di cui alla legge n. 234 del 2021 non riguarda però solamente i casi di delocalizzazione, in quanto il campo di applicazione è relativo alla chiusura – a prescindere dallo spostamento in altri paesi dell’attività – di una sede o di uno stabilimento di un'impresa che abbia almeno 250 lavoratori e che comporti il licenziamento di almeno 50 lavoratori.
La novità di quest’ultimo provvedimento sta nel coinvolgimento dei lavoratori che passa principalmente attraverso il rafforzamento dei diritti di informazione sindacali.
La strada scelta dal legislatore nella legge del 2021 ripercorre il modello già previsto nella disciplina sul trasferimento d’azienda (l. n. 428 del 1990); sul licenziamento collettivo (l. n. 223 del 1991) e, secondo quanto prevede il d. lgs n. 25 del 2007 in attuazione della Direttiva n. 14 del 2002, sull’informazione e consultazione dei lavoratori secondo le previsioni dei contratti collettivi.
Di quest’ultimo provvedimento, il d.lgs n. 25 del 2007, va in particolare evidenziato l’art. 4, in base al quale “l’informazione avviene secondo modalità di tempo e di contenuto appropriate allo scopo ed in modo da permettere ai rappresentanti dei lavoratori di procedere ad un esame adeguato delle informazioni fornite e preparare la consultazione”.
Dunque, il modello è: Informativa sindacale; Esame congiunto; Accordo incentivato.
E secondo questo tradizionale schema la l. n. 234 del 2021 (legge di bilancio 2022) ha introdotto un obbligo di procedura partecipativa con le Organizzazione sindacali accompagnando tale previsione con, durante tale fase, il blocco dei licenziamenti.
In avvio della procedura, l’impresa deve presentare un piano che deve contenere innanzi tutto la comunicazione dell’intenzione di procedere alla cessazione dell’attività o riduzione o più specificatamente delocalizzazione, indicando una serie di elementi: i provvedimenti che si intendono adottare per limitare le ricadute occupazionali ed economiche con esplicitazione di una serie di azioni ritenute necessarie; le prospettive, a fronte della ipotizzata cessazione dell’azienda, di finalità di continuazione; i progetti di riconversione del sito, per finalità socio culturali a favore del territorio interessato; una comunicazione mensile dello stato di attuazione del piano.
Nel caso in cui non venga svolta una di queste attività oppure risulti la non completa o non corretta informativa si rientra in una ipotesi di condotta antisindacale in quanto, come osservato recentemente in dottrina da De Luca Tamajo, il confronto mira ad offrire al sindacato la possibilità di condizionare la scelta imprenditoriale, sicché elemento caratterizzante della procedura è che la stessa innanzitutto sia svolta e poi che l’informativa sia data in maniera chiara e trasparente.
La tutela per ripristinare l’ordine sindacale violato, in reazione alla mancata o completa informazione sindacale, sta principalmente nella attivazione dell’art. 28 Stat. lav.
Se a fronte della mancata o non corretta informativa non possono sussistere dubbi sulla sua qualificazione come illecita condotta antisindacale, occorre concentrarsi sull’aspetto sanzionatorio e dunque assume importanza fondamentale il tema della rimozione degli effetti ovvero il modo di rendere effettivo il diritto. È, d’altronde, questa la chiave di volta per affermare le istanze e previsioni legislative e contrattuali.
Come è interpretato il precetto della rimozione degli effetti da alcuni giudici, con riferimento al mancato rispetto delle regole relative alla partecipazione sindacale?
Facendo una velocissima rassegna dei provvedimenti si rileva che in alcune (rare) pronunce i giudici non ritengono di attivarsi perché il comportamento non è più attuale; in altre decisioni non ritengono di poter annullare atti negoziali che coinvolgono terzi (come ad esempio nel trasferimento d’azienda); altre volte intimano di dare una corretta informativa; altre ancora utilizzano lo strumento del “danno punitivo” o del risarcimento del danno all’immagine e al ruolo dell’associazione sindacale svilita agli occhi dei propri iscritti.
Tale ultimo orientamento che alcuni giudici recentemente hanno abbracciato sembra scontare una sorta di cortocircuito in cui vengono indebitamente sovrapposti piani di tutela diversi e, d’altra parte, viene negata quella che per il diritto civile e per l’art. 28 St. lav., apertis verbis, rappresenta la sanzione da attuare e cioè la restitutio in integrum. È come se si sia assorbita culturalmente l’idea che la tutela per i lavoratori e le loro organizzazioni sindacali non debba essere “reale” ma “obbligatoria”, così applicando un regime sanzionatorio frutto di un’interpretazione che vuole porsi come sistematica, ponendosi in contrasto con la ratio e la lettera della norma statutaria.
Non si può dimenticare che allorquando la conseguenza della scelta imprenditoriale sono i licenziamenti si rientra in una classica condotta c.d. plurioffensiva, dovendo tener presente che il sindacato agisce per una prerogativa a lui riconosciuta, ma sempre come ente esponenziale degli interessi sottostanti e, segnatamente, dei lavoratori a mantenere il posto di lavoro. Sotto questo profilo, la semplice condanna risarcitoria in favore del sindacato rende evidente come si obliteri il fondamento stesso dell’art. 28 St. lav., che risiede appunto nella rimozione degli effetti.
L’art. 28 nel prevedere la rimozione degli effetti lascia al Giudice un potere amplissimo che può arrivare a giustificare una modalità di intervento anche sostitutiva delle prerogative imprenditoriali. Un potere non sempre utilizzato che potrebbe trovare oggi una ulteriore legittimazione alla luce di una serie di normative che non considerano più le operazioni imprenditoriali “intoccabili” o riservate al solo attore economico.
A tal proposito occorre ricordare tre ambiti in cui il giudice ha un ruolo di sostituzione dell’imprenditore che agisce contra legem.
Il primo riferimento è relativo al nuovo ruolo del giudice nella ristrutturazione delle imprese in crisi in quanto se nelle procedure concorsuali di carattere strettamente liquidatorio il giudice è chiamato in prevalenza ad esercitare una forma di giurisdizione esecutiva, in cui lo stato mette in campo la propria forza per rendere effettiva la tutela dei diritti, quando si tratta di strumenti giuridici volti invece al superamento della crisi d’impresa mediante la sua ristrutturazione, il ruolo del giudice subisce un significativo mutamento. Si tratta, infatti, di procedure o strumenti nei quali è dominante l’elemento negoziale ed il giudice cessa di esserne il motore per svolgere soprattutto una funzione di garante del rispetto dei limiti entro i quali legittimamente si esplica l’autonomia negoziale delle parti interessate. In questo caso l’intervento del giudice si rivela quasi sempre d’importanza decisiva.
Nella composizione negoziata è pur sempre al Giudice che occorre rivolgersi se si vogliono ottenere misure protettive o cautelari, che si rivelano quasi sempre indispensabili per il buon esito dell’iniziativa; e restano pure affidate al giudice le eventuali decisioni di conferma, revoca o riduzione della durata di tali misure (artt. 18 e 19 del Codice). Non solo: è ancora al tribunale che tocca, se richiesto, autorizzare il debitore sia a contrarre finanziamenti prededucibili sia a trasferire a terzi l’azienda o rami di essa (art. 22). Inoltre, il tribunale interviene anche nell’eventuale rinegoziazione dei contratti di durata resi eccessivamente onerosi a causa dell’epidemia da Covid-19 (art. 10, comma 2, del D.L. n. 118 del 2021), quando l’esperto abbia invano sollecitato le parti a rivedere secondo buona fede il contenuto del contratto in corso, rideterminandolo d’autorità secondo criteri equitativi.
Nell’emettere tali provvedimenti è inevitabile che il giudice si interroghi anche sulle concrete possibilità di risanamento dell’impresa e sull’idoneità dei mezzi prescelti per realizzarla. Ciò appare evidente per le autorizzazioni del tribunale a contrarre finanziamenti ed a trasferire l’azienda, che il citato art. 22 subordina alla verifica della “funzionalità degli atti rispetto alla continuità aziendale e alla migliore soddisfazione dei creditori”.
Il secondo riferimento è relativo alle azioni di “rilegalizzazione” oggi possibili con la nomina di una amministrazione giudiziaria ex d.lgs n. 159 del 2011, i cui articoli 20 e 24 prevedono, ove ne ricorrano i presupposti e in alternativa al sequestro e alla confisca dei beni del soggetto proposto, l'applicazione delle misure di prevenzione dell'amministrazione giudiziaria dei beni connessi ad attività economiche e delle aziende, oppure del controllo giudiziario delle aziende.
Tali misure costituiscono “modalità di intervento potenzialmente alternativo rispetto all'ordinario binomio sequestro/confisca dei beni del soggetto portatore di pericolosità”, come le definisce Cass. pen. n. 24678/21, delle quali - come aggiunge Cass. pen. n. 21412/21 - “il legislatore, ricorrendone i presupposti, ha inteso privilegiare … in vista del possibile recupero dell'impresa alle fisiologiche regole del mercato, una volta ridotta l'ingerenza dei soggetti portatori di pericolosità”.
Esse presuppongono non l'illecita accumulazione patrimoniale, che dà luogo all'ablazione, ma la contaminazione dell'impresa da parte della criminalità organizzata, che dà luogo al tentativo di recupero.
Con l'amministrazione giudiziaria delle aziende e dei beni del proposto, prevista dall'art. 34 d.lgs. 159/11 se l'impresa risulti sottoposta a intimidazione, oppure assoggettata o comunque in grado di agevolare la criminalità organizzata, l'intera attività di impresa viene svolta per un certo periodo dall'amministratore giudiziario sotto il controllo del giudice delegato.
Il terzo riferimento risiede nei poteri del giudice previsti dall’art. 2409 c.c. laddove nel caso di gravi irregolarità il tribunale può ordinare l’ispezione dell’amministrazione della società nel caso di sospetto di gravi irregolarità e, se le irregolarità denunziate sussistono, può disporre provvedimenti cautelari fino a revocare gli amministratori e nominare un amministratore giudiziario determinandone i poteri e la durata.
Nella formulazione conseguente alla riforma societaria, non si parla più di «irregolarità nell'adempimento dei doveri di amministratori e dei sindaci», bensì del sospetto che «gli amministratori, in violazione dei loro doveri, abbiano compiuto gravi irregolarità nella gestione che possano arrecare danno alla società o ad una o più società controllate».
Le gravi irregolarità, quindi, consistono non soltanto nella violazione di specifici obblighi e divieti, ma anche nella violazione dei doveri di diligenza, correttezza e fedeltà alla società che incombono sui suoi amministratori, restando fuori dall'applicazione dell'istituto soltanto il controllo di merito sull'opportunità delle operazioni.
Elementi peculiari delle "gravi irregolarità" sono la loro attualità ed il carattere dannoso, quest'ultimo individuabile nella violazione di disposizioni di legge idonee a procurare un danno al patrimonio sociale o un grave turbamento dell'attività sociale.
Da considerare che la “denunzia” al tribunale può essere proposta non soltanto dai soci ma anche dal pubblico ministero, ragione per cui si può affermare un interesse pubblico alla correttezza gestionale della Società e alla attivazione di meccanismi di sostituzione degli amministratori da parte del giudice.
Alla luce di tali nuovi spazi di intervento del giudice valgano alcuni spunti conclusivi.
Il Piano di salvaguardia dell’occupazione, al pari della comunicazione scritta dell’intenzione di procedere alla chiusura della sede o dello stabilimento, va presentato non solo ai sindacati, ma anche – in linea con la ratio di una normativa che espressamente contempla la protezione del tessuto produttivo nazionale e locale – a tutti quei soggetti che hanno interesse a valutare le ricadute occupazionali ed economiche che l’operazione aziendale produce sullo specifico territorio, e quindi le regioni interessate, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, il Mise ecc.
Affinché tali soggetti possano valutarne la portata effettiva, il piano deve indicare, tra le altre cose, le azioni per la salvaguardia dei livelli occupazionali (compreso l’eventuale ricorso agli ammortizzatori sociali nonché la ricollocazione presso altro datore di lavoro); le azioni finalizzate alla rioccupazione o all’autoimpiego, quali formazione e riqualificazione professionale, anche tramite il ricorso ai fondi interprofessionali; le prospettive di cessione dell’azienda di suoi rami, con finalità di continuazione dell’attività, oltre ad eventuali progetti di riconversione del sito produttivo anche per finalità socio-culturali utili al territorio interessato.
Il comma 228 dell’art. 1 della l. n. 234 del 2021 prevede che il datore di lavoro elabori un piano per limitare le ricadute occupazionali ed economiche derivanti dalla chiusura e deve indicare una serie di azioni e progetti.
Dunque, la domanda è se il giudice investito della rimozione degli effetti nei confronti di un’impresa che non rispetta gli obblighi di legge (ma anche di contratto) e che nel caso concreto fa presumere di non essere un soggetto che possa adempiere correttamente alla rimozione degli effetti, possa essere sostituito da un “tecnico” nominato dal giudice per l’esame e il compimento delle azioni previste dalla normativa.
Una sorta di commissario ad acta o amministratore giudiziale con finalità ripristinatorie della legalità.
Il Giudice dell’art. 28 Stat. lav. non ha poteri tipizzati e limitati per cui anche sulla base dell’evoluzione del sistema normativo a cui prima si accennava potrebbe nominare un amministratore giudiziario ad hoc.
Per altra via, anche il Pubblico Ministero, ex art. 2409 c.c. in caso di gravi irregolarità nell’adempimento dei doveri degli amministratori, può chiedere al Tribunale di nominare un amministratore giudiziario, determinandone i poteri e la durata. Infine, ulteriore elemento che sostiene l’ipotesi di un intervento giudiziario forte è costituito dalla previsione per cui la nuova procedura è esclusa qualora i datori di lavoro si trovino in condizioni di squilibrio patrimoniale che ne rendono probabile la crisi o l’insolvenza e che possono accedere alla procedura di composizione negoziata per la crisi di impresa (v.si comma 226 art. 1 l. n. 234 del 2021).
In quest’ultimo caso è espressamente previsto che è al Giudice che occorre rivolgersi per misure protettive o cautelari nonché le decisioni di conferma, revoca o riduzione della durata di tali misure (art. 18 e 19 Codice della crisi).
E nell’emettere tali provvedimenti è inevitabile che il Giudice si interroghi ed intervenga su aspetti gestori che fino pochi anni fa gli erano preclusi.
Ragion per cui, oggi, è ineludibile interrogarsi sugli spazi che vengono aperti al conferito potere di rimozione degli effetti della condotta antisindacale attraverso la nomina di un ausiliario che garantisca la corretta informazione e presentazione del piano in luogo dell’imprenditore che ha dimostrato di violare precisi obblighi contrattuali o di legge come quelli sulla più recente normativa che (impropriamente) va sotto il nome di antidelocalizzazione.