testo integrale con note e bibliografia
1. La proposta di legge AC 1275/2023 sull’istituzione del salario minimo non si rivolge soltanto ai lavoratori subordinati, ma presta attenzione anche al lavoro autonomo nelle sue diverse forme, individuate nel contratto di agenzia o di rappresentanza commerciale, nel contratto di collaborazione che si concreti in una prestazione di opera coordinata e continuativa, prevalentemente personale, a carattere non subordinato, e nelle prestazioni d’opera intellettuale o manuale di cui all’articolo 2222 del codice civile.
Al di là dei contenuti concreti (v. infra), la proposta sollecita a considerare il quadro normativo con cui deve confrontarsi un’eventuale misura di compenso minimo (non necessariamente orario) per questi lavoratori.
Al riguardo, è innanzitutto da ricordare che l’attuale dibattito politico/legislativo sul salario minimo legale si è appoggiato sull’approvazione della Direttiva Ue 2022/2041, che, è noto, non riguarda i lavoratori autonomi. Non c’è dunque alcun obbligo d’attuazione in capo al legislatore nazionale derivante dalla normativa dell’UE.
D’altro canto, s’è di recente osservato che “l’ordinamento europeo presenta diversi steccati sul percorso di un eventuale intervento normativo di garanzia di corrispettivi equi ed adeguati a favore dei lavoratori autonomi”, non ultima l’equiparazione giurisprudenziale tra lavoratori autonomi e impresa che ha portato a ritenere non conformi alle norme sulla concorrenza e alla Dir. 2006/123/CE la fissazione di tariffe professionali .
2. Quanto all’ordinamento nazione, punto di partenza sono i dati costituzionali.
A fondare la Repubblica è anche il lavoro autonomo, secondo le sue plurime declinazioni. Esso è modalità di adempimento del dovere di cui all’art. 4, comma 2, mentre, in genere, non costituisce misura di realizzazione del diritto al lavoro o, comunque, non è a tal fine equiparabile al lavoro subordinato.
A confermarlo sono numerose indicazioni legislative.
Senza pretesa di completezza, se l’art. 18 d.lgs. n. 150 del 2015 indica la formazione per l’autoimpiego e gli incentivi al lavoro autonomo quali misure di politica attiva del lavoro, la predominanza a quel fine del lavoro subordinato risalta con chiarezza dall’art. 1, d.lgs. n. 81 del 2015, che fa del contratto a tempo indeterminato la «forma comune di rapporto di lavoro» , e, soprattutto, dagli art. 19, comma 3, 23 e 25, d.lgs. n. 150 del 2015, il primo sulla sospensione dello status di disoccupato, gli altri, rispettivamente, sull’assegno di ricollocazione e sull’offerta di lavoro congrua .
L’indicazione è significativa di una diversità di struttura tra le due forme di lavoro, prima che di scelte politiche.
Dato ormai per acquisito che l’art. 35, comma 1, Cost. copra non solo il lavoro subordinato, l’accennata differenza torna a manifestarsi in relazione al successivo art. 36, sotto più profili.
Nonostante le incertezze della dottrina , la giurisprudenza di legittimità ne ha per lo più escluso l’estensione ai lavoratori autonomi . Comunque, l’eventuale applicazione dovrebbe convivere con la riconosciuta legittimità di un contratto di lavoro autonomo gratuito, in alcuni casi perfino oggetto di espressa previsione legislativa altresì convivente con una disposizione sull’equo compenso . Ciò a fronte di una consolidata presunzione giurisprudenziale di onerosità del lavoro subordinato, che relega nell’atipicità il lavoro gratuito .
Diversamente da quest’ultimo, inoltre, il diritto all’equo compenso, ove riconosciuto, non discende mai in via diretta ed esclusiva dalla norma costituzionale, ma passa attraverso la mediazione della legge ordinaria, a volte congiuntamente al richiamo all’art. 35, comma 1, Cost.
3. Passando alla legislazione ordinaria, va intanto ricordato che l’ipotesi di un compenso orario minimo era stata prevista, in via sperimentale, dalla legge delega n. 183 del 2014 sia per i rapporti di lavoro subordinato sia per quelli di collaborazione coordinata e continuativa. A questi, peraltro, quel compenso era applicabile “fino al loro superamento”, formula indicativa di una valutazione dell’intero mondo delle co.co.co. alla stregua di un’effettiva condizione di subordinazione mascherata e dunque di una funzione antielusiva della misura.
In genere, però, il legislatore ha battuto strade diverse dal compenso minimo orario per intervenire nell’area del lavoro autonomo. In sintesi sono essenzialmente due le tecniche legislative cui è ricorso.
La prima è l’attribuzione di un diritto all’equo compenso.
Limitandoci alla legislazione vigente, esso è riconosciuto dalla l. n. 49 del 2023 a favore dei “rapporti professionali aventi ad oggetto la prestazione d'opera intellettuale di cui all'art. 2230” c.c. , e dalla l. n. 233 del 2012 ai giornalisti iscritti all’albo professionale, “titolari di un rapporto di lavoro non subordinato in quotidiani e periodici, anche telematici, nelle agenzie di stampa e nelle emittenti radiotelevisive” .
Peraltro, diversamente da quest’ultima, applicabile a tutti i giornalisti, la prima legge si rivolge soltanto alle attività professionali svolte in favore di imprese bancarie e assicurative, loro controllate o mandatarie, alle imprese con determinati requisiti occupazionali e di redditività (più di cinquanta lavoratori dipendenti o ricavi superiori a 10 milioni di euro nell’anno precedente l’incarico), alle pubbliche amministrazioni e alle società a partecipazione pubblica.
Senza richiamare espressamente l’art. 36 Cost., l’equo compenso consiste allora nella “corresponsione di un compenso proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, al contenuto e alle caratteristiche della prestazione professionale” ed inoltre conforme alle tariffe previste in alcuni decreti ministeriali.
Quanto ai giornalisti, in espressa attuazione della disposizione costituzionale, equo compenso è “la corresponsione di una remunerazione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, tenendo conto della natura, del contenuto e delle caratteristiche della prestazione nonché della coerenza con i trattamenti previsti dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria in favore dei giornalisti titolari di un rapporto di lavoro subordinato”.
Fermo il principio di proporzionalità e comune il richiamo al contenuto e alle caratteristiche delle prestazioni, le due nozioni si differenziano nell’indicazione del parametro di riferimento rilevante ai fini della concreta determinazione della misura del compenso, in relazione agli interessi perseguiti dalla legge. Nel primo caso, la tutela del libero professionista si collega a quella della concorrenza, al fine di evitare ribassi eccessivi dei compensi legati alla posizione di forza delle imprese o alle esigenze di economicità delle pubbliche amministrazioni. Nell’altro, a richiedere un riequilibrio è, a prescindere della forma giuridica, l’identità dell’attività professionale prestata: identità che, a sua volta, spiega il riferimento ai contratti collettivi dei lavoratori subordinati.
In entrambi i casi, si noti, l’equo compenso non coincide (con) né comporta l’individuazione di un minimo uniforme di trattamento economico.
4. Il rinvio ai contratti collettivi dei lavoratori subordinati rappresenta la seconda tecnica adottata dal legislatore.
Laddove adottato, peraltro, diversamente dal caso dei giornalisti, esso: a) identifica il livello minimo inderogabile di un trattamento economico che deve comunque essere proporzionato alla qualità e quantità del lavoro eseguito; b) opera in via residuale/sussidiaria, in mancanza di un contratto collettivo specifico di settore per i lavoratori autonomi.
Così era per il corrispettivo da riconoscere al lavoratore a progetto, ai sensi dell’ora abrogato art. 62, d.lgs. n. 276 del 2003, come modificato dalla l. n. 92 del 2012 e così è per i lavoratori autonomi che svolgono attività di consegna di beni per conto altrui, in ambito urbano e con l'ausilio di velocipedi o veicoli a motore, attraverso piattaforme anche digitali, di cui agli 47 bis e 47 quater, d.lgs. n. 81 del 2015.
Così dovrebbe essere per i soci lavoratori di cooperativa, in forza dell’art. 7, comma 4, l. n. 248 del 2007, secondo l’interpretazione fornitane dalla Corte Costituzionale . Peraltro, lo scrutinio di costituzionalità della norma ha preso origine da un caso in cui la prestazione resa dal socio lavoratore era di natura subordinata, come pure è questa la fattispecie che viene in rilievo nella giurisprudenza di legittimità . Invece, ai sensi dell’art. 3, d.lgs. n. 142 del 2011, i soci lavoratori non subordinati hanno sì diritto a un “trattamento economico complessivo proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato”, ma il livello minimo inderogabile è quello stabilito da “contratti o accordi collettivi specifici” oppure, in mancanza, dai “compensi medi in uso per prestazioni analoghe rese in forma di lavoro autonomo”.
Secondo alcuni, infine, riguarderebbe anche i lavoratori autonomi, e sarebbe da ricondurre entro questo quadro, il diritto che l’art. 16 d.lgs. n. 117 del 2017 attribuisce ai “lavoratori del Terzo settore” ad un “trattamento economico e normativo non inferiore a quello previsto dai contratti collettivi di cui all'articolo 51 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81” .
In ogni caso, a considerarle nel loro insieme, in tutte queste ipotesi è la dimensione chiusa del gruppo di riferimento, reso omogeneo da elementi estranei al rapporto di lavoro, a determinare il richiamo al contratto collettivo, sempre senza arrivare a stabilire un valore minimo uniforme del compenso.
5. Complessità, forse frammentarietà, del mondo del lavoro autonomo e irriducibilità strutturale con quello subordinato, anche nelle aree di confine o fattispecie insistenti nella c.d. area grigia tra i due, sono i due elementi rilevabili dalla breve ricognizione effettuata.
È costituzionalmente legittima in questo contesto una disciplina sull’equo compenso? È doverosa? Deve essere unitaria? E deve o può consistere nella definizione di un compenso minimo orario?
A conferma della positiva risposta alla prima domanda basti considerare l’esistenza indiscussa delle disposizioni del 2012 sopra richiamate. Tuttavia, ciò non significa anche doverosità dell’intervento, pure nell’ottica della combinazione tra gli artt. 35 e 36, ma anche il 3, comma 2, Cost., restando nella discrezionalità del legislatore l’opzione sull’an e sul quomodo della tutela.
L’eventuale intervento, inoltre, dovrebbe tener conto di quanto evidenziato in termini di complessità e diversità strutturale.
In tal senso, non è logico né adeguato predisporre una soluzione unitaria e uniforme sia che si rivolga ai soli autonomi sia che si estenda al lavoro subordinato, tanto più ove si traduca anche nella predeterminazione di un valore monetario minimo.
6. La proposta di legge sul salario minimo si muove solo in apparenza nella direzione indicata.
Invero, ad agenti e rappresentanti di commercio, collaboratori coordinati e continuativi con prestazione prevalentemente personale, prestatori d’opera intellettuale o manuale “il committente è tenuto a corrispondere un compenso proporzionato al risultato ottenuto, avuto riguardo al tempo normalmente necessario per conseguirlo” (art. 1, comma 3).
A tal fine, la proposta distingue in relazione all’esistenza di una contrattazione collettiva tra le diverse categorie di lavoratori autonomi. Per le prime tre succitate, essa rimanda in prima battuta ad accordi collettivi nazionali specifici per il settore di riferimento e stipulati dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative a livello nazionale.
A ben vedere, tuttavia, la previsione di legge scommette soprattutto sulla loro “mancanza”, che costituisce il presupposto in forza del quale la retribuzione «non può essere inferiore a quella stabilita dal CCNL che disciplina, nel medesimo settore, mansioni equiparabili svolte dai lavoratori subordinati, avuto riguardo al tempo normalmente necessario per fornire la stessa prestazione».
Quanto ai prestatori d’opera ex art. 2222 e seguenti c.c., scontata l’assenza di contratti collettivi, con una modifica dell’art. 2225 c.c. si passa direttamente a fissare il minimo inderogabile mediante rinvio a CCNL come nell’ipotesi precedente, salvo il riferimento al tempo della prestazione non riproposto.
L’esito finale, probabilmente non solo di principio, considerato, salvo il settore degli agenti e rappresentanti di commercio, i problemi che incontra la diffusione della contrattazione collettiva in quest’ambito , è una generale omologazione alla subordinazione, tanto maggiore ove si consideri la surrettizia modifica del contenuto obbligatorio dei contratti di agenzia, rappresentanza commerciale e di collaborazione , meritevole di maggiore ponderazione.