TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

Nell’introdurre il tema del convegno, che gli esimi relatori svilupperanno, ritengo opportuna una breve premessa, con accenni alla giurisprudenza costituzionale e alla sentenza n. 26246, emessa dalla Sezione Lavoro della Corte di cassazione il 6 settembre 2022.
Quest’ultima pronuncia è intervenuta nell’ambito di un procedimento, in cui due lavoratrici si erano viste dichiarare, dal Tribunale e dalla Corte d’appello, estinti i loro crediti per lavoro straordinario, in accoglimento dell’eccezione di prescrizione sollevata dal datore di lavoro. I giudici di merito avevano ritenuto che i loro rapporti di lavoro fossero assistiti da quel regime di stabilità che consentiva la decorrenza della prescrizione in costanza di rapporto, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, in particolare, secondo la sentenza n. 174 del 1972.
A sostegno della sua decisione, la Corte d’appello aveva rilevato che, nonostante le mo-difiche all’apparato sanzionatorio dei licenziamenti apportate dalla legge n. 92/2012, prima, e dal D.Lgs n. 23/2015, poi, l’ordinamento apprestava comunque al lavoratore una tutela rein-tegratoria nel caso di un licenziamento ritorsivo, conseguente cioè alla rivendicazione di crediti retributivi.
La Corte di cassazione ha annullato la sentenza d’appello, affermando che la prescri-zione decorre dalla cessazione del rapporto di lavoro, non essendo più garantita quella sta-bilità del rapporto stesso che, in base al “diritto vivente”, è condizione essenziale perché la prescrizione possa decorrere mentre esso è ancora in atto.
La pronuncia, in sostanza, ha preso le mosse dalla storica sentenza della Corte costitu-zionale, 10 giugno 1966, n. 63. Con quella decisione, adottata in un contesto normativo che prevedeva ancora la recedibilità ad nutum dal rapporto di lavoro, il giudice delle leggi indivi-duò l’ostacolo alla decorrenza della prescrizione in corso di rapporto nel metus del lavoratore, ossia, in sostanza, nel timore di essere licenziato, che lo avrebbe potuto indurre a non eser-citare il diritto all’equa retribuzione, sancito dall’art. 36 Cost.
Con la successiva sentenza 13 novembre 1969, n. 143, la Corte costituzionale rilevò che una simile condizione psicologica non ricorreva nel caso del dipendente pubblico. Il rap-porto d’impiego pubblico era infatti dotato di quella “resistenza’’ che escludeva il timore del recesso. Questa era «data da una disciplina che normalmente assicura la stabilità del rapporto, o dalle garanzie di rimedi giurisdizionali contro l’illegittima risoluzione di esso, le quali escludono che il timore del licenziamento possa indurre l’impiegato a rinunziare ai propri diritti».
Nel frattempo, dopo la sentenza n. 63/1966, erano entrate in vigore la legge 15 luglio 1966, n. 604, sui licenziamenti individuali, che limitava il recesso del datore di lavoro alle ipo-tesi in cui ricorresse un giustificato motivo, e, soprattutto, la legge 20 maggio 1970, n. 300, il cosiddetto “Statuto dei lavoratori”, il cui art. 18 imponeva la reintegrazione nel posto di la-voro del prestatore illegittimamente licenziato.
Con la sentenza n. 174 del 12 dicembre 1972, la Corte costituzionale, preso atto del mu-tato quadro normativo, rilevò che per un’ampia categoria di lavoratori del settore privato – quelli delle aziende di maggiori dimensioni – era assicurata, in virtù delle norme della legge n. 604/1966, combinate con le disposizioni dell’art. 18 della legge n. 300/1970, quella stabilità del rapporto, ossia quella tutela piena, rappresentata dalla reintegrazione in caso di licenzia-mento illegittimo, che valeva di per sé a escludere la sussistenza del metus indicato nella sentenza n. 63/1966. Di conseguenza, per quella categoria di lavoratori, la prescrizione, al pari che per gl’impiegati pubblici, decorreva in costanza di rapporto.
E, in effetti, l’art. 18 dello Statuto garantiva una stabilità caratterizzata dalla «completa reintegrazione nella posizione giuridica preesistente fatta illegittimamente cessare», come richiesto dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 174/1972, poiché prevedeva, oltre alla reintegrazione, anche una tutela indennitaria completa, con un risarcimento commisurato a tutte le mensilità di retribuzione che sarebbero spettate al lavoratore nel periodo compreso fra il licenzia-mento e la reintegrazione effettiva.
In seguito, la nozione di stabilità (detta comunemente tutela reale, in contrapposizione a quella obbligatoria, prevista per i dipendenti delle imprese con personale numericamente ridotto) è stata fatta propria dalla giurisprudenza di legittimità, con l’autorevole avallo delle Sezioni Unite, pronunciatesi con la sentenza 12 aprile 1976, n. 1268.
Questo quadro è rimasto stabile per decenni, fino a quando l’apparato sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi non ha subito una radicale revisione e modifica, dapprima con la leg-ge 28 giugno 2012, n. 92 (cosiddetta “Fornero”, dal nome dell’allora ministro del lavoro e delle politiche sociali), poi con il D.Lgs 4 marzo 2015, n. 23, intitolato “Disposizioni in ma-teria di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183”, uno dei provvedimenti legislativi che costituiscono la riforma del diritto del lavoro, cui comunemente ci si riferisce con la locuzione inglese Jobs Act.
In estrema sintesi, si può affermare che, con le riforme indicate, la regola della tutela reale come conseguenza indefettibile del licenziamento lato sensu illegittimo è venuta meno, essendosi a essa sostituita una varietà di conseguenze, con una netta preferenza del legisla-tore per la tutela indennitaria rispetto a quella reale.
Il venir meno della reintegrazione come rimedio unico e automatico alla declaratoria d’invalidità del licenziamento e la conseguente impossibilità di valutare ex ante il regime di protezione applicabile ha riaperto la questione della decorrenza del termine di prescrizione dei crediti retributivi.
Con la sentenza n. 26246/2022, la Suprema Corte ha osservato che, nella situazione normativa attuale, è impossibile prevedere, con una valutazione ex ante, se l’autorità giu-diziaria somministrerà al lavoratore la tutela reintegratoria nell’ipotesi di un licenziamento il-legittimo, considerata, per l’appunto, la molteplicità di conseguenze previste dalla legge e la necessità di una verifica ex post sulle circostanze di fatto, in stretta correlazione con le allegazioni e le deduzioni delle parti, dal cui esito dipenderà il tipo di tutela da applicare. Di conseguenza, ha affermato che la prescrizione non può decorrere in costanza di rapporto. Il dies a quo, pertanto, deve necessariamente essere individuato nel momento della cessazione del rapporto, con riguardo a tutti i diritti che non fossero già prescritti al momento dell’entrata in vigore della legge n. 92/2012, avvenuta il 18 luglio 2012.
La sentenza ha il pregio indubbio di risolvere in maniera chiara e inequivocabile una questione assai rilevante. Alcuni aspetti hanno suscitato perplessità nella dottrina, per esempio quello riguardante il sostanziale annullamento, ai fini della maturazione della prescrizione, del tempo trascorso prima del 18 luglio 2012. Ma questi aspetti saranno sicura-mente affrontati dai nostri relatori, che ci accingiamo ad ascoltare con vivo interesse.

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