TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA 

1. La prescrizione nel senso di estinzione del diritto per decorso del tempo, la cui etimologia deriva dalla “prae-scriptio”, e cioè dall’eccezione preliminare relativa al tempo decorso che veniva formulata negli atti giudiziari dei processi civili di fronte al Pretore dell’epoca romana , costituisce un istituto generale del diritto che ha attraversato con varietà di formule e di svolgimenti la storia giuridica della civiltà umana.
Nell’ordinamento giuridico italiano esso pervade orizzontalmente tutti i principali rami del diritto.
Nel diritto civile è previsto sia come fattore, generalmente previa tempestiva eccezione, di estinzione del diritto in base a una disposizione generale (art. 2946 c.c., che prevede un termine decennale) e a previsioni specifiche di prescrizioni più brevi talora più rilevanti della stessa indicazione generale, sia come possibilità di perdita del diritto per maturazione non contrastata di altrui possesso prolungato della cosa (usucapione, art. 1158-1167 c.c., a suo tempo denominata anche prescrizione acquisitiva).
Al riguardo un significativo intervento nella normativa codicistica si è avuto con la sentenza della Corte Costituzionale 29.2.2024 n. 32, con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 2952, 2° comma, c.c., nel testo previgente a quello introdotto con l’art. 22, comma 14, del D.L. 18.10.2012 n. 179, conv. in L. 17.12.2012 n. 221, nella parte in cui prevedeva la prescrizione biennale dei diritti derivanti dai contratti di assicurazione sulla vita, invece che quella decennale, il che ha integrato, a tutela dei soggetti più deboli quali gli assicurati, un controllo di ragionevolezza anche sulla durata del termine di prescrizione.
Nel diritto penale italiano la prescrizione ha una rilevanza particolare, in quanto istituto che può determinare, per un’eccessiva distanza dall’epoca del reato e/o per un eccessivo prolungamento del giudizio penale, con l’estinzione del reato la caduta della potestà punitiva dello Stato, tranne che non si tratti di crimini di alto disvalore, quali quelli punibili con l’ergastolo anche come effetto dell’applicazione di circostanze aggravanti (art. 157, 8° comma, c.p.) o in generale di crimini di guerra e contro l’umanità (Convenzione ONU 26.11.1968 e Convenzione del Consiglio di Europa 25.1.1974, quali espressione di una consuetudine internazionale) .
Da qui discende anche il persistente travaglio legislativo in materia.
L’istituto della prescrizione pervade anche la vastissima area delle infrazioni punite con sanzioni amministrative (e quindi anche di quelle progressivamente depenalizzate), in cui ne rientrano moltissime relative alla materia del lavoro, per le quali l’apparente favor della depenalizzazione è smentito dall’esclusione della prescrizione penale e quindi dall’applicazione della più rigorosa disciplina della prescrizione civile, che prevede la possibilità di atti interruttivi ad oltranza della prescrizione (nella specie, quinquennale ex art. 28 L. 24.11.1981 n. 689) e la conseguente sua non decorrenza (ex art. 2945, 2° comma, c.c.) fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio.
La prescrizione assume un ruolo centrale anche nella normativa tributaria, con una disciplina (in generale quinquennale con decorrenza dal termine di dichiarazione dei redditi dell’anno precedente), ma estremamente articolata in relazione alle varie infrazioni e alla loro gravità.
Anche in materia di responsabilità contabile la prescrizione assume una particolare importanza, quale forma di limitazione nel tempo della responsabilità degli amministratori e dipendenti pubblici. Il relativo termine, normalmente quinquennale e che decorre, in caso di occultamento doloso del danno, dalla sua scoperta (art. 1, comma 2, L. 14.1.1994 n. 20), può essere interrotto una sola volta, prevedendosi che il termine complessivo di prescrizione non può comunque eccedere i sette anni dall’esordio dello stesso, con sospensione però per il periodo di durata del giudizio (art. 66 D. Lgs. 26.8.2016 n. 174, Codice di giustizia contabile).
Né sono ignoti casi di prescrizione preclusiva, (quale quello ad esempio dell’art. 3, 9° comma, L. 8.8.1995 n. 335, considerato, ex art. 1, 2° comma, della stessa legge, espressione di un principio generale), in cui il principio normale della possibilità di pagare un debito prescritto si capovolge, impedendo al debitore o al soggetto interessato un effetto di sanatoria.
La prescrizione potrebbe quindi essere ricostruita anche nel quadro di una teoria generale della prescrizione, i cui lineamenti fondamentali risultano agevolmente individuabili, da un lato, nella tendenza ad uniformare la valutazione ordinamentale alla corrosione derivante dal decorso del tempo e, dall’altro, nell’esclusione dell’accettazione di tale corrosione a fronte di valori superiori intrinseci alla dignità umana.
2. Il diritto del lavoro italiano è entrato da sessant’anni con un ruolo di protagonista nella problematica generale della prescrizione e, poiché il rapporto fra prescrizione e lavoro subordinato ha attraversato nell’evoluzione del diritto italiano quattro fasi, di cui l’ultima di più recente stabilizzazione, può rendersi opportuna la ricostruzione di tali quattro fasi.
La prima fase è quella che va dalla nascita del diritto del lavoro italiano (ultimi decenni del XIX secolo) fino al 1964-1966.
In tale periodo di circa ottant’anni era mancata un’attenzione (forse più che una sensibilità) al problema dei limiti che la disciplina della prescrizione poneva all’effettività della tutela dei diritti retributivi dei lavoratori.
Si considerava quindi come fatto acquisito e intangibile che tali diritti, in quanto di natura patrimoniale, fossero soggetti alla prescrizione, anche se si discuteva in ordine all’applicabilità della prescrizione quinquennale prevista dall’art. 2144 del codice civile del 1865 (conforme all’art. 2277 del Code Napoléon) o della mera prescrizione presuntiva annuale prevista dall’art. 2139 (conforme all’art. 2271 del Code Napoléon).
La questione era stata poi definita con l’emanazione del codice civile del 1942, in quanto, prevedendo questo all’art. 2948 non solo la conferma dell’applicazione della prescrizione quinquennale a “tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi” (formula già presente nell’art. 2144 del codice civile del 1865) ma anche alle “indennità spettanti per la cessazione del rapporto di lavoro”, è stata univoca l’applicazione della stessa alle retribuzioni periodiche, unitamente peraltro a quella della prescrizione presuntiva di cui all’art. 2955 n. 2 (per le retribuzioni corrisposte a periodi non superiori a un mese) e all’art. 2956 n. 1 (per le retribuzioni corrisposte a periodi superiori a un mese).
Mancò quindi sul tema quell’attenzione, che pur portò nella fase finale della prima guerra mondiale e poi nel primo dopoguerra alla legge sull’impiego privato (nella sua versione definitiva R.D.L. 13.11.1924 n. 1825, conv. in L. 18.3.1926 n. 562) e alla significativa norma ivi contenuta dell’art. 17 di nullità di ogni patto contrario se non più favorevole all’impiegato, nella fase di elaborazione del codice civile all’art. 2113 c.c. e nel secondo dopoguerra e nel periodo costituzionale alla valorizzazione del lavoro.
Vi fu per circa 80 anni un “sonno” al riguardo.
3. Ma, quando i tempi sono maturi, il risveglio dal sonno può essere anche casuale.
In realtà, il decennio 60’ portava con sé una spinta di rinnovamento e anche di ottimismo normativo, derivante da una serie composita di fattori non più ripetibili (l’indicazione propulsiva della Costituzione, la rilegittimazione della stessa con le manifestazioni di massa di luglio del 1960, una presenza giovanile numericamente rilevante e, in ampia misura, idealmente impegnata, una situazione economica favorevole con un debito pubblico pari nel 1964 a un quasi miracoloso 27% del PIL, la mancanza di concorrenza economica da parte di Paesi diversi dall’Occidente).
In tale quadro non vi è da stupirsi che in un giudizio di lavoro, nel quale era stata prospettata l’eccezione di illegittimità costituzionale tout court delle norme che venivano a prevedere la prescrizione delle retribuzioni per contrasto con l’art. 36 Cost., i (benemeriti) giudici del collegio del Tribunale di Ancona decisero, in accoglimento di istanza della difesa del lavoratore, di emettere succinta ordinanza 16.10.1964 di sollevamento della questione di costituzionalità .
È poi perfettamente noto lo svolgimento ulteriore, e cioè che la sagacia del relatore Giuseppe Branca riuscì a far passare, con la sentenza 10.6.1966 n. 63, l’accoglimento della questione sia pur non nella versione forte, che avrebbe comportato l’imprescrittibilità assoluta dei diritti retributivi e quindi la loro azionabilità perenne, ma nella versione minor del differimento del termine di decorrenza della prescrizione al giorno successivo a quello della cessazione del rapporto di lavoro subordinato.
Iniziò così la seconda fase, che si articola in due periodi.
Nel primo periodo (10.6.1966/10.6.1970, giorno precedente alla data di entrata in vigore della L. 20.5.1970 n. 300) nessuno dubitava dell’efficacia della sentenza n. 63/1966 nel lavoro subordinato privato e quindi della definitiva (irreversibile) espunzione della decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi in costanza di rapporto.
Proprio alla fine del 1970 (e in un contesto non scevro da insidie per lo stesso Stato democratico, v., il pur abortito colpo di Stato di Junio Valerio Borghese del 7-8 dicembre 1970) si levò la voce più autorevole del diritto del lavoro italiano , per osservare che l’introduzione di un regime generale di invalidità dei licenziamenti e di piena tutela risarcitoria, quale introdotto dall’art. 18 della legge 20.5.1970 n. 300, poteva far significare il superamento del presupposto, basato su una situazione di metus del lavoratore per le conseguenze di una sua azione di rivendicazione, durante il corso del rapporto, che era stato alla base della motivazione della sentenza n. 63/1966, anche se non ve ne era traccia nella dispositivo.
Si prospettava quindi una sorta di “nemesi” o di “boomerang”, in quanto l’introduzione di una disciplina garantista per i licenziamenti avrebbe fatto perdere ai lavoratori la tutela, scaturita dalla sentenza n. 63 del 1966, costituita dalla possibilità di agire a conclusione di un rapporto di lavoro per tutti i diritti retributivi maturati.
Per circa sei anni l’orientamento prevalente, anche quale espresso dalla Corte di Cassazione nelle sentenze n. 3283/1973, 2913/1974 e 3857/1975, tutte relative a rapporti di lavoro di autoferrotranvieri, fu quello della inidoneità dell’art. 18 ad influire in senso recessivo sugli effetti della sentenza della Corte Costituzionale n. 63 del 1966, per cui in sostanza in quel decennio (10.6.1966/11.4.1976) si ebbe per i lavoratori l’applicazione sia della tutela dell’art. 18, sia della possibilità di agire alla cessazione del rapporto per tutti i diritti maturati nel corso dello stesso.
4. Ma gli anni ‘70, in particolare dal 1973, non erano come gli anni ‘60: con la crisi petrolifera del 1973/74 e con le c.d. domeniche a piedi si era rivelata l’interdipendenza fra Stati ed economie e la debolezza di quelli occidentali; le azioni delle Brigate Rosse e di altri gruppi analoghi avevano alienato la simpatia per le rivendicazioni operaie; il clima non era più quello degli avanzamenti di tutela degli anni ‘60.
La ricaduta fu che, anche alla luce delle precedenti indicazioni recessive date dalla Corte Costituzionale con le sentenze n. 143/1969 e 174/1972, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione rividero l’orientamento delle tre sentenze precedenti e affermarono che con l’entrata in vigore della legge n. 300/1970 e con il connesso regime di “stabilità” erano venuti meno, per i rapporti soggetti all’applicazione dell’art. 18, i presupposti della sentenza n. 63 del 1966, per cui ritornava in auge la decorrenza della prescrizione in costanza del rapporto di lavoro.
E poiché non ebbero successo gli sforzi dottrinari e sporadiche decisioni giurisprudenziali per modificare tale nuovo orientamento, si determinò la terza fase, c.d. del doppio binario, per cui la stabilità derivante dall’applicazione dell’art. 18 comportava la reviviscenza (oggettivamente impensabile dopo la sentenza n. 63/1966) della decorrenza della prescrizione in pendenza del rapporto, mentre per i rapporti esclusi dall’art. 18 e anche per quelli di c.d. instabilità putativa, in cui non era sicura l’applicazione dell’art. 18, la prescrizione decorreva dalla cessazione del rapporto.
Unico temperamento a quel tempo dato fu quello, già fissato in particolare dalla sentenza della Corte Costituzionale 12.12.1972 n. 174, del principio per cui “una vera stabilità non si assicura se all’annullamento dell’avvenuto licenziamento non si faccia seguire la completa reintegrazione nella posizione giuridica preesistente fatta illegittimamente cessare”.
Tale terza fase si è protratta per 36 anni.
5. Essa sarebbe durata ancora se nel 2011 non si fosse determinata una nuova situazione economica - politica, che portò alla costituzione il 16.11.2011 di un governo tecnico, presieduto dal Senatore Mario Monti, con la convergenza delle principali forze politiche dell’epoca, compresa quella del Partito Democratico, espressione, almeno secondo i criteri usuali, delle istanze del lavoro.
Ne conseguì che quello, che aveva tentato di fare il governo Berlusconi nel 2003 (e cioè un allentamento della tutela sanzionatoria per i licenziamenti illegittimi) e a cui per la verità aveva poi specificamente rinunciato (tanto che dal 2004 non se ne parlava più), fu fatto dal governo Monti con una complessiva modificazione dell’art. art. 18, quale introdotta con l’art. 1, comma 42, della L. 28.6.2012 n. 92, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 3.7.2012 e quindi entrata in vigore il 18.7.2012.
Si aprì così la quarta fase, che è quella in atto e che risulta, dopo le sentenze della Corte di Cassazione del 2022 e le decisioni successive, consolidata e ormai stabilizzata.
Non occorreva infatti particolare introspezione giuridica per rilevare che l’art. 18 modificato era profondamente diverso dal precedente , sia perché, al di fuori dei casi di licenziamento nullo, non offriva neppure la certezza della reintegrazione, sia, perché anche quando questa vi fosse stata, la garanzia del ripristino retributivo era limitata a un anno, e quindi a una misura estremamente limitata, specie considerando, non solo la durata del giudizio già nelle due fasi del giudizio di primo grado, ma la larghissima possibilità che la valutazione di illegittimità negoziale del licenziamento poteva essere data in sede di giudizio di secondo grado o di rinvio o addirittura di secondo rinvio.
Era palese quindi che il nuovo art. 18 era strutturato nel senso di non assicurare una “completa reintegrazione nella posizione giuridica preesistente fatta illegittimamente cessare”.
E la situazione è poi diventata ancor più carente di tutela con il D. Lgs. 4.3.2015 n. 23, che, pur emanato da un governo formalmente corrispondente a un partito vicino al mondo del lavoro, aveva reso ancor più impervio lo stesso esito di una reintegrazione.
Non vi è stato quindi nulla di sorprendente se, in conformità alla valutazione già svolta dalla meno insensibile dottrina del 2012 e pur alla luce degli avanzamenti di tutela per i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo derivanti dalle sentenze della Corte Costituzionale 1.4.2021 n. 59 e 19.5.2022 n. 125, la Corte di Cassazione-Sezione Lavoro, all’esito delle decisioni svoltesi nella pubblica udienza del 6.7.2022, ha emesso le sentenze 6.9.2022 n. 26246, 20.10.2022 n. 30957 e 20.10.2022 n. 30958 ed anche 13.10.2022 n. 29981, con le quali ha affermato il principio della non decorrenza della prescrizione per tutti i rapporti di lavoro (salvo applicazione convenzionale del precedente art. 18) dal 18.7.2012, data di entrata in vigore della legge n. 92/2012.
Tale insegnamento si è poi stabilizzato con una serie di successive ordinanze, fra cui quelle n. 36108/2022, 1981/2023, 4305/2023, 4321/2023, 12907/2023.
Ne consegue in tale quarta fase, iniziatasi il 18.7.2012, che, salvo che per i diritti retributivi già estinti per un quinquennio alla data del 17.7.2012, per gli altri non può tenersi conto ai fini della prescrizione del periodo del rapporto di lavoro decorrente dal 18.7.2012.
6. La legge 28.6.2012 n. 92 aveva aperto un’altra querelle in ordine alla sua applicazione ai dipendenti ad impiego pubblico, anch’essa invero agevolmente risolvibile, essendo evidente alla luce dell’art. 1, comma 8 (che rimetteva al Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione, sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, di individuare e definire “anche mediante iniziative normative, gli ambiti, le modalità e i tempi di armonizzazione della disciplina relativa ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche”), la mancanza di volontà legislativa di una sua diretta applicazione a tale settore .
Per cui di nuovo non sono state sorprendenti le sentenze della Corte di Cassazione 9.6.2016 n. 11868 e 6.10.2017 n. 23424, con cui si è chiarito che per i dipendenti pubblici, compresi i dirigenti pubblici valeva la disciplina dell’originario art. 18.
Ma lo stesso governo, che aveva emanato il D. Lgs. 4.3.2015 n. 23, è voluto intervenire anche sulla materia del licenziamento dei dipendenti pubblici, sostanzialmente ripetendo l’enfasi riduttiva del risarcimento per licenziamento illegittimo già presente nel comma 4 dell’art. 18 modificato, sia pure con una maggiorazione, disponendo con l’art. 21 del D. Lgs. 25.5.2017 n. 75 e in sede di modifica dell’art. 63 del D. Lgs. 30.3.2001 n. 165, che il giudice riconosce, in caso di licenziamento invalido, un’indennità risarcitoria “comunque in misura non superiore alle 24 mensilità, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative”.
Di nuovo non occorreva un particolare approfondimento che così si infrangeva un principio effettivamente ultrasecolare, poiché, anche quando fino al 30.6.1997 la materia era attribuita alla giurisdizione amministrativa, l’annullamento dell’atto (provvedimento) di licenziamento comportava il ripristino integrale anche sul piano retributivo, salvo la detrazione, ove ve ne fossero i presupposti, dell’aliunde perceptum .
Né la situazione normativa è mutata per effetto dell’art. 19 del D. Lgs. 10.3.2023 n. 24, secondo cui le persone “licenziate a causa della segnalazione, della divulgazione pubblica o della denuncia all'autorità giudiziaria o contabile hanno diritto a essere reintegrate nel posto di lavoro, ai sensi dell'articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 o dell'articolo 2 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, in ragione della specifica disciplina applicabile al lavoratore”, non traendosi da esso alcuna modifica dall’art. 63 del D. Lgs. n. 165/2001.
Si sono così determinate le condizioni per cui la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, con un’ordinanza interlocutoria nei confronti della quale si sono avuti formali apprezzamenti quale quella del 28.2.2023 n. 6051, ha disposto la trasmissione al Presidente di una causa relativa, fra l’altro, all’applicazione della prescrizione ai dipendenti pubblici.
L’esito però è stato questa volta, con sentenza delle Sezioni Unite 28.12.2023 n. 36197, di cui è stato relatore lo stesso Consigliere già relatore della sentenza 26246/2022, negativo, in quanto con diretta scelta si è escluso che la limitazione dell’indennità risarcitoria a una misura non superiore alle 24 mensilità avesse l’effetto di determinare un metus nei confronti del dipendente pubblico e quindi di posticipare la decorrenza della prescrizione alla cessazione del rapporto di lavoro.
La sentenza presenta, per una parte, tratti motivazionali non suscettibili di condivisione, e ciò sia ove fa riferimento nel paragrafo 10 alle caratteristiche generali del pubblico impiego in quanto le stesse non escludono la perpetrazione di licenziamento illegittimo, sia ove qualifica “di entità non propriamente irrisoria” una indennità di 24 mensilità, potendo la stessa essere del tutto insufficiente a fronte di una sentenza di annullamento emessa, in un qualunque grado, dopo vari anni, tanto più che i dipendenti pubblici non usufruiscono neppure della NASPI.
Per cui tali aspetti non varrebbero ad incrinare il binomio “reintegrazione completa-decorrenza della prescrizione durante il rapporto di lavoro” acquisito da oltre 50 anni.
Più consistente è stato invece il richiamo ad esigenze diverse e di contemperamento con altri principi costituzionali che possono condurre ad optare per la condivisione e la definitiva tenuta della soluzione adottata.
E infatti, se pur la tutela della retribuzione dei dipendenti pubblici è un valore costituzionalmente garantito, non può non considerarsi l’incidenza, per gli stessi complessivamente (e non singulatim considerati), di altri principi di pari rilevanza costituzionale, quali quelli dell’art. 81 per cui “Lo Stato assicura l'equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico” e in particolare dell’art. 97, secondo cui “Le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l'ordinamento dell'Unione europea, assicurano l'equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico”, oltre che dell’art. 117, per cui lo Stato ha competenza esclusiva per l’armonizzazione dei bilanci pubblici.
E, anche se l’esperienza dei numerosi Stati che hanno dichiarato insolvenza (con palliativa eleganza default) dimostra che si è trattato necessariamente di selected default, non potendo uno Stato rinunciare alla prestazione e alla remunerazione degli agenti pubblici essenziali, è certo che la possibilità di esercizio dei propri diritti può essere ragionevolmente limitata dal pregiudizio che un esercizio degli stessi a distanza di tempo dai fatti che li hanno determinati potrebbe arrecare alle esigenze espresse dagli art. 81, 97 e 117 e in sostanza al mantenimento delle condizioni di regolare pagamento da parte delle amministrazioni pubbliche.
Si ritiene pertanto che anche per questo settore non siano idoneamente perseguibili altre iniziative di modifica dell’orientamento fissato dalle Sezioni Unite, né in sede di promovimento di questioni di costituzionalità, né con ricorso alla Corte Europea per i diritti dell’uomo di Strasburgo.
La disciplina normativa, quale in effetti individuabile almeno per il settore privato già dal 18.7.2012, risulta pertanto nei suoi caratteri generali stabilizzata sia per i lavoratori privati che per quelli pubblici a impiego privatizzato o non privatizzato.
7. Le sentenze della Corte di Cassazione del 2022 hanno determinato una rinnovata attenzione della dottrina sulla materia della prescrizione, per cui è opportuno sistematizzare il quadro determinato dalla nuova quarta fase, che, pur delineatosi già nel luglio 2012, si è consolidato nel 2022.
a) Può dirsi a distanza di 60 anni dall’ordinanza del Tribunale di Ancona 16.10.1964 che è definitivamente superata l’idea di considerare quantomeno i diritti retributivi come assolutamente, e quindi perennemente, imprescrittibili.
Pur nel loro valore ideale, il loro carattere patrimoniale osta ad estraniarli completamente dall’istituto della prescrizione e a consentire un loro esercizio senza limiti di tempo.
b) Va invece ribadita la lucidità dell’intervento della Corte Costituzionale del giugno 1966, avendo la stessa, non inventato, come pure si è detto, una norma, ma applicato due principi largamente presenti nel diritto civile, quello che è a base delle varie ipotesi di sospensione previste negli art. 2941 e 2942 c.c., di non decorrenza della prescrizione nei confronti di chi si trova in una situazione che rende difficile, o comunque disagevole e anche fonte di possibili pregiudizi, l’esercizio del diritto, (sussumibile nel classico brocardo “Agere non valenti non currit praescriptio”) e quello per cui in tutta una serie di rapporti, che pur possono avere carattere prolungato nel tempo, il termine di decorrenza della prescrizione è fissato in coincidenza con la cessazione del rapporto.
Ad es. nel rapporto di opera professionale, anche con un avvocato, che può prolungarsi nei vari gradi di giudizio per anni e talora per più di un decennio, l’esigibilità da parte dell’avvocato del diritto al compenso per le prestazioni già svolte, in particolare per un grado di giudizio, non esclude che la prescrizione per il compenso globale di tutte le prestazioni, che è, a parte quella presuntiva di cui all’art. 2956 n. 2 c.c., quella decennale, inizi a decorrere dal termine del rapporto, coincidente di norma con il passaggio in giudicato della sentenza conclusiva, salvo prosecuzione dell’incarico per la fase esecutiva e per gli eventuali giudizi di opposizione alla stessa.
Ma anche per un rapporto ad esecuzione propriamente continuativa come la locazione si è introdotto fin dal 1978 con l’art. 79 della L. 27.7.1978 n. 392 ed è stato confermato con l’art. 13 della L. 9.12.1998 n. 431 il principio del diritto del locatario di agire per la restituzione dei canoni versati in eccesso rispetto a norme previste a pena di nullità entro sei mesi dalla cessazione del rapporto, il che conferma la rilevanza di tale momento.
E perfino nella trama dei rapporti che discendono dalla procreazione può verificarsi che, ove il padre non riconosca il figlio e si instauri un giudizio per il riconoscimento della paternità, il diritto della madre al rimborso per il mantenimento non inizia a prescriversi dalla data delle singole erogazioni, ma (v. Cass. 31.7.2020 n. 16561) dal giorno del passaggio in giudicato della sentenza di riconoscimento della paternità, il che vuol dire che il padre può essere esposto a un indennizzo per i decenni pregressi.
E non si può dimenticare che anche per un rapporto di collaborazione continuativa e coordinata, quale quello fra imprese committenti e autotrasportatori, l’ordinamento introdusse, quando era in vigore il sistema di tariffe predeterminate fra un minimo e un massimo, c.d. a forcella, una norma, l’art. 2 del D.L. 29.3.1993 n. 82, conv. in L. 27.5.1993 n. 162, per cui i diritti degli autotrasportatori potevano essere fatti valere entro cinque anni dalla cessazione del rapporto, in quanto il termine di prescrizione era “sospeso quando vi sia un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa tra committente e vettore”.
La sentenza della Corte Costituzionale del giugno 1966 non ha dato luogo quindi a un’invenzione, ma al riconoscimento di un’esigenza reale, e cioè quella di consentire l’esercizio quantomeno dei diritti retributivi relativi al rapporto con decorrenza della prescrizione dalla cessazione del rapporto stesso.
c) Fu comune osservazione già negli anni 60’ – 70’ che la posizione di debolezza intrinseca del prestatore di lavoro non deriva solo dal timore del licenziamento, ma da numerosi altri fattori, fra cui la possibilità di essere esposto ad atti pur potenzialmente legittimi, quali, mutamento mansioni, trasferimento, ecc…, ma comunque pregiudizievoli, al venire meno della possibilità di carriera, ecc…, tanto che per questo vi fu un largo dissenso critico rispetto alla “risurrezione” della prescrizione nel corso del rapporto di lavoro.
Il rilievo è stato ora ripreso per segnalare che sussisterebbero ragioni per estendere il principio della non decorrenza della prescrizione anche ai diritti non retributivi del lavoratore, quale ad es. quello all’inquadramento nella qualifica superiore e al risarcimento del danno per ogni tipo di fatto lesivo, richiamandosi al riguardo il principio di rimozione degli ostacoli sociali di cui all’art. 3, 2° comma, Cost. .
Ma, a parte che i predetti diritti sono soggetti alla più lunga prescrizione decennale, gli equilibri complessivi delle contrapposte tendenze ideologiche, politiche, ma anche dottrinarie, non consentono di ritenere che la predetta aspirazione possa realizzarsi in un tempo prevedibile.
8. Più numerose sono le tendenze, volte a contrastare la stabilizzazione della quarta fase nella direzione di una sua sostanziale regressione.
a) Si è venuto ad auspicare, in primo luogo, un intervento legislativo, se non per contrastare il principio affermato dalla Corte di Cassazione per diminuirne l’impatto con la riduzione del termine di prescrizione (da quinquennale a triennale o addirittura ad annuale) o, in modo più sofisticato, con l’introduzione di un doppio termine di decadenza analogo a quello previsto dall’art. 6 della L. 15.7.1966 n. 604.
Ma per quanto l’assetto politico maggioritario (e in larga parte anche minoritario) attuale non brilli di entusiasmo per le istanze del mondo del lavoro, non è prevedibile a breve un intervento legislativo di forte impronta reazionaria sul tema.
b) Si è altresì auspicato un nuovo intervento della Corte Costituzionale, di cui invero non si scorgono i presupposti, avendo la stessa fin dalle sentenze fra il 1966 e il 1972 chiarito i limiti di costituzionalità della materia.
c) Sul piano interpretativo vi è stata anche la proposta di rimettere in discussione l’inclusione delle retribuzioni fra le voci soggette a prescrizione quinquennale di cui all’art. 2948 n. 4 c.c., ma, a parte il contrasto di questa indicazione con una tradizione pluricentenaria e con l’intrinseco carattere periodico dei singoli crediti, la conseguenza non potrebbe che essere quella dell’assoggettamento delle retribuzioni a una prescrizione decennale decorrente dalla cessazione del rapporto.
d) Il tentativo più significativo di elisione, quantomeno parziale, degli effetti della sentenza della Corte di Cassazione si è avuto con una rienfatizzazione del rapporto fra motivazione e dispositivo della sentenza n. 63 del 1966, sostenendosi che, siccome l’illegittimità parziale delle norme codicistiche era stata dichiarata per effetto del loro contrasto con l’art. 36 Cost., si dovrebbe tenere conto della nozione ridotta di retribuzione, quale applicabile nei casi di determinazione giudiziale suppletiva, il che porterebbe a ritenere prescrittibile nel corso del rapporto tutti i diritti relativi a ciò che fosse ulteriore, e quindi ad ogni trattamento migliore rispetto al minimo contrattuale, addirittura con esclusione anche della quattordicesima mensilità .
Ma si è già rilevato come il rapporto motivazione-dispositivo non può essere esasperato, o meglio strumentalizzato, per introdurre una disarticolazione del principio per cui al lavoratore deve essere consentito di agire al termine del rapporto per tutti i trattamenti retributivi a lui spettanti, anche perché nel concetto di retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro vi è un rinvio a tutto ciò che le parti hanno di fatto realizzato di considerare tale.
Deve pertanto concludersi che quella avutasi nel 2022 non è stata una “rivoluzione” sul tema della prescrizione, ma la logica, e ben prevedibile, rilevazione delle conseguenze determinate dalla L. 28.6.2012 n. 92 e poi ancor più aspramente dall’art. 3 del D. Lgs. 4.3.2015 n. 23, che non ha più previsto il ruolo di garanzia, in funzione di invalidazione del licenziamento, delle previsioni collettive o, ai sensi della sentenza di Cassazione 11.4.2022 n. 11665, di quelle desumibili da esse.
D’altra parte, ove mai un datore di lavoro volesse sottrarsi agli effetti di “contrappasso” di tali leggi, ben potrebbe convenire con i lavoratori l’applicazione, per la disciplina dei licenziamenti, dell’art. 18 nel testo vigente fino al 17.7.2012, con il che solo si potrebbe tornare per i rapporti che così fossero regolati alla terza fase, e cioè a quella del periodo aprile 1976-17.7.2012.
Da vari autori si è richiamato anche il contenuto delle “Osservazioni e proposte sulla revisione della legislazione sul rapporto di lavoro” a cura del Prof. Luigi Mengoni, approvate dall’Assemblea del CNEL nella seduta del 4.6.1985, in cui si prevedeva che, poiché non era ipotizzabile un intervento legislativo che ripristini l'ordinamento anteriore alla sentenza del 1966, considerato che una simile legge sarebbe esposta a una nuova dichiarazione di incostituzionalità, la sola soluzione praticabile era quella di ridurre il termine di prescrizione dei diritti di retribuzione a un periodo molto breve (due anni) e di disporne la decorrenza per tutti i prestatori di lavoro dalla data di cessazione del rapporto, il che avrebbe determinato anche la soppressione della prescrizione presuntiva di cui agli artt. 2655 n. 2 e 2656 n. 1, e avrebbe dovuto essere applicata anche per i diritti di cui al n. 5 dell'art. 2948 (indennità di fine contratto).
Ma gli equilibri complessivi sono troppo delicati per pensare che quella proposta, che comunque prevedeva un termine troppo breve a fronte di quello quinquennale tipico dei crediti periodici, possa essere ripresa senza tentativi di strumentalizzazione.
9. Una problematica singolare è sorta in ordine ai crediti retributivi sorti ed esigibili già prima del 18 luglio 2012.
Un brano presente nel paragrafo 9 della sentenza 26246/2022 e nel paragrafo 13.1. della sentenza 30957/2022 ha fatto sorgere il dubbio che la Corte abbia voluto affermare che il periodo di prescrizione precedentemente maturato dovrebbe essere neutralizzato, così che di un credito per il quale fosse decorso alla data del 17.7.2012 (ultimo giorno di applicazione del precedente art. 18 e quindi di stabilità) un periodo di esigibilità di cinque anni meno un giorno, si dovrebbe ritenere che, ove il rapporto sia cessato in data successiva, il lavoratore avrebbe avuto ulteriori cinque anni per azionarlo.
Ma è un’impressione erronea, poiché la Corte voleva solo sottolineare dogmaticamente che la non decorrenza della prescrizione non costituisce una delle cause tipiche di sospensione ex art. 2941 c.c., per cui è logica l’interpretazione che il periodo di prescrizione già maturato prima del 18 luglio 2012 mantiene la sua rilevanza, così che ad esso va aggiunto il periodo ulteriore successivo alla cessazione del rapporto di lavoro fino a raggiungere, salvo atti interruttivi, il periodo complessivo di cinque anni.
10. Nell’esperienza concreta il tema della prescrizione incide, oltre che sulla materia previdenziale con tutta una vasta e articolata complessità di svolgimenti, su quello particolarmente rilevante dell’azione risarcitoria del lavoratore per il danno da omessa o irregolare contribuzione ex art. 2116 c.c., esperibile entro un decennio dal momento della produzione del danno e quindi di norma dal momento in cui il lavoratore avrebbe avuto diritto a un trattamento pensionistico più elevato o, in certi casi, a quel trattamento pensionistico di cui proprio per la mancanza di contributi non può usufruire.
Il che vuol dire che il datore di lavoro può essere esposto anche dopo vari decenni a un’azione risarcitoria in questo genere, per cui diventano del tutto vacue le preoccupazioni sulla pesantezza, per i datori di lavoro, del termine quinquennale decorrente dalla cessazione del rapporto.
Ma al riguardo, accanto alla luce derivante dall’insegnamento giurisprudenziale suindicato, non si possono non segnalare le ombre.
La prima è che, nell’ambito di una elaborazione pur nel suo complesso chiara, vi è stata qualche sentenza (il riferimento va in particolare a Cass. 3.7.2004 n. 12213), che ha introdotto un assurdo iato nel periodo precedente, assumendo che, con riferimento al periodo precedente a quello di verificazione della perdita della prestazione previdenziale sarebbe configurabile un danno diverso, per cui l’azione di accertamento e di condanna generica al risarcimento di tale danno sarebbe soggetta a prescrizione decennale, il che non ha senso, poiché il danno è solo quello intrinseco alla perdita della prestazione previdenziale e l’azione precedente si configura come un’azione preventiva di accertamento, funzionale a quella futura ex art. 2116 c.c., per cui, non essendosi ancora verificato il danno, non è configurabile alcun inizio di prescrizione.
È quindi opportuno che in qualche sentenza futura la Suprema Corte prenda effettiva distanza da tale orientamento, cioè lo smentisca apertamente, per evitare che nella giurisprudenza di merito lo si richiami e si introduca un vuoto di tutela, che può durare vari anni e che sarebbe del tutto irragionevole quanto pregiudizievole.
L’altra ombra è più perniciosa, poiché allo stato risulta persistente.
A fronte del principio già fissato dall’art. 55 del R.D.L. 4.10.1935 n. 1827, conv. in L. 6.4.1936 n. 1155, per cui “non è ammessa la possibilità di effettuare versamenti, a regolarizzazione di contributi arretrati, dopo che, rispetto ai contributi stessi, sia intervenuta la prescrizione”, un legislatore sensibile, quale quello del IV Governo Fanfani del periodo 22.2.1962/16.5.1963 (primo Governo dal 1947 con l’appoggio esterno del Partito Socialista Italiano), introdusse con l’art. 13 della L. 12.8.1962 n. 1338 una norma di deroga, in base alla quale il datore di lavoro (ma in mancanza di suoi iniziativa anche il lavoratore interessato) poteva “esercitare la facoltà” di chiedere all’INPS la costituzione di una rendita vitalizia reversibile pari alla pensione o quota di pensione adeguata dell’assicurazione obbligatoria che spetterebbe al lavoratore in relazione ai contributi omessi, versando l’importo determinato dall’INPS sulla base di tariffe attuariali.
Per oltre venti anni non si è dubitato in dottrina e nella giurisprudenza che tale facoltà fosse esercitabile (v. sentenze di Cass. n. 1304/1971, 1298/1978, 5487/1983,170/1985, 5825/1995) “senza limiti temporali”.
Inopinatamente, per una mera vischiosità concettuale (e cioè nell’assunto aprioristico per cui bisognava per forza individuare un termine di prescrizione per l’esercizio di tale facoltà) si è sostenuto che il termine decorreva dalla scadenza dell’obbligo contributivo verso l’INPS (Cass. n. 6361/1984, 9270/1987, 10945/1998, 14680/1999, 3756/2003).
Con un’approfondita sentenza (Cass. 7853/2003) si è riaffermato il principio della possibilità di esercizio di tale facoltà senza limiti temporali, ma l’orientamento assertivo della prescrizione è poi ripreso sostanzialmente in modo consolidato (v. già Cass. n. 983/2016) mantenendosi fino all’epoca attuale.
Vero è che, pur nell’ambito dell’esigenza di individuare un termine di prescrizione, esso è stato, da alcune più attente sentenze (Cass. n. 21300/2014 e 1179/2015), fissato, in conformità con l’elaborazione dell’art. 2116 c.c., “al momento del prodursi dell’evento dannoso, coincidente, in caso di omesso versamento dei contributi previdenziali, con il raggiungimento dell’età pensionabile”.
Ma, poiché anche questo orientamento, che attenuerebbe di gran lunga gli effetti vanificanti dell’altro, non è stato più ripreso, resta la situazione, di particolare gravità, di una norma introdotta per consentire a datori di lavoro e lavoratori di regolarizzare scoperture contributive pregresse e di una interpretazione giurisprudenziale che, creando uno sbarramento ad appena quindici anni dalla data dell’omissione contributiva, sta vanificando la portata della norma stessa.
Si tratta quindi di una questione, che meriterebbe, in mancanza di ripensamenti giurisprudenziali, l’emanazione di una norma di interpretazione autentica, che faccia riattribuire alla disposizione dell’art. 13 il valore che aveva, con effetti benefici, sia per i datori di lavoro che per i lavoratori, come già rilevato da un prestigioso giuslavorista .
11. La materia della decadenza non aveva mai avuto nel diritto del lavoro un’importanza analoga a quella della prescrizione, anche per la riluttanza della giurisprudenza ad attribuire validità alle clausole di decadenza convenzionale talora presenti nei contratti collettivi, con applicazione della norma dell’art. 2965 c.c. che prevede la nullità dei patti con cui si stabiliscano termini di decadenza che rendano eccessivamente difficoltoso a una delle parti l’esercizio del diritto.
Essa ha assunto però una singolare rilevanza, allorché il IV Governo Berlusconi (8.5.2008/16.11.2011) volle farsi promotore di un intervento legislativo, poi compiuto con la L. 4.11.2010 n. 183, che, nell’evidente intento di disincentivare azioni tardive, previde l’applicazione del c.d. doppio termine di decadenza (60 giorni dall’atto impugnato e successivi 180 giorni per l’inizio dell’azione giudiziale) a tutta una serie di azioni ulteriori rispetto all’impugnazione del licenziamento ex art. 6 L. 15.7.1966 n. 604.
Ma si è trattato di un tentativo in larga parte illusorio, in quanto vanificato dalla giurisprudenza, e pertanto idoneo a trarre in inganno i datori di lavoro che sui predetti termini di decadenza avessero apprestato le loro difese.
Le vicende di tre previsioni possono essere significative.
Essendosi prevista all’art. 32, 3° comma, lett. b), l’applicazione del predetto doppio termine “al recesso del committente nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche nelle modalità a progetto, di cui all’art. 409 n. 3 c.p.c.”, la giurisprudenza ne ha escluso l’applicazione ai casi di risoluzione per causa diversa da un atto formale di recesso del committente (quale la scadenza del termine, o anche un atto di recesso dello stesso collaboratore), per cui la norma ha avuto applicazione solo in una limitatissima serie di casi .
In ordine alla complessa materia del trasferimento d’azienda di cui all’art. 2112 c.c., essendosi prevista l’applicazione del doppio termine “alla cessione del contratto di lavoro avvenuta ai sensi dell’art. 2112 del codice civile con termine decorrente dalla data del trasferimento”, si è ritenuto (v. Cass. n. 13179/2017, 9469/2019, 9750/2019, 28750/2019, 8039/2022) che la norma riguardava solo i casi in cui il lavoratore si opponeva al trasferimento e non quelli in cui intendeva fruirne, così che i datori di lavoro si sono trovati senza possibilità di eccepire sbarramenti temporali, di fronte ad azioni di lavoratori che sostenevano di essere stati dipendenti di aziende o di rami di azienda trasferiti al nuovo datore di lavoro.
Infine quella che sembrava essere una norma di chiusura, e cioè l’art. 32, 4° comma, lett. d), che prevedeva l’applicabilità del doppio termine “in ogni altro caso in cui, compresa l'ipotesi prevista dall'articolo 27 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, si chieda la costituzione o l'accertamento di un rapporto di lavoro in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto”, si è rivelata un’arma scarica, avendo la giurisprudenza ritenuto che tale norma possa essere richiamata solo in presenza di un atto scritto del datore di lavoro, considerato effettivo dal lavoratore, che avesse negato in tale modo formale la sua titolarità del rapporto di lavoro (Cass. 1431/2020, 30490/2021, 40652/2021, 404/2023, 5346/2023).
Così che l’intera norma dell’art. 32 si è rivelata più una fonte di pregiudizi per i datori di lavoro che si erano appoggiati su di essa che non una norma per loro effettivamente utile.
Lo stesso si è verificato per i datori di lavoro, che, non avendo ricevuto entro 60 giorni dall’atto di licenziamento o comunque contestato un atto scritto di impugnazione a firma del lavoratore o del sindacato, si fidavano del rigore interpretativo originario (v. Cass. Sezioni Unite n. 5395/1982 e 2179/1987) e sulla connessa decadenza.
La più recente giurisprudenza (Cass. n. 3139/2019, 16416/2019, 9650/2021) ha infatti considerato sufficiente che il difensore manifesti di agire per il proprio assistito, potendo dimostrare il conferimento di un’anteriore procura scritta anche successivamente al decorso dei 60 giorni e perfino nel corso del giudizio.

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