testo integrale con note e bibliografia
1. Il richiamo di Riccardo Del Punta alla teoria delle Capabilities è ben noto, e vi sono numerosi saggi, anche in inglese, dove Riccardo valuta le possibili ricadute di questa teoria sugli istituti lavoristici e le connesse implicazioni in materia di interpretazione e attività legislativa .
Accanto alla teoria delle Capabilities, l’altro grande punto di riferimento teorico nel pensiero di Riccardo è la teoria della “libertà come non dominio” della scuola di pensiero repubblicana, molto più nota nel mondo anglosassone che nella nostra esperienza .
Si tratta di una scuola di pensiero che vede tra i sui principali punti di riferimento l’opera di Philip Pettit, in particolare nel libro “Il repubblicanesimo – una teoria della libertà e del governo”, pubblicato in Italia nel 2000 (Feltrinelli) e, con la Oxford University Press in inglese nel 1997, con il titolo “Republicanism: a theory of freedom and government” .
L’idea di fondo di questo saggio non è quella di dedicare uno specifico approfondimento alle teorie filosofiche che hanno in qualche modo influenzato il pensiero di Riccardo, ma illustrarne i contenuti essenziali, per poi valutare le possibili ricadute dell’ambito del diritto del lavoro, che era poi ciò che a lui interessava.
Ma prima di analizzare i contenuti è opportuna una premessa metodologica.
Riccardo, per formazione culturale, non era solito aderire incondizionatamente ad una specifica teoria sposandone integralmente il contenuto. Il suo non era un approccio dogmatico, ma molto pragmatico, pur con ampio spessore teorico.
La prima domanda che si faceva, anche in relazione alla teoria repubblicana della libertà come non dominio, era se potesse essere utile prenderla in considerazione e quali conseguenze ne sarebbero potute derivare in ambito lavoristico.
Aveva piena consapevolezza della impossibilità di individuare una teoria generale che potesse illuminare ogni aspetto dell’esperienza giuslavoristica, troppo complessa per essere racchiusa in una sola chiave di lettura.
Mentre nel mondo della fisica gli scienziati continuano ad interrogarsi sulla possibilità di individuare una “teoria del tutto”, che unifichi la fisica quantistica e la relatività generale in un’unica spiegazione, Riccardo riteneva che un simile approccio nel mondo del diritto del lavoro fosse velleitario e sostanzialmente inconsistente .
Viceversa singoli aspetti del pensiero di teorie filosofiche, o sociali o economiche, possono essere utili a guidare l’interpretazione e l’applicazione della normativa, la ricostruzione sistematica ed anche la stessa legislazione, in relazione a specifici istituti giuslavoristici.
La condivisione di valori espressi su altri piani del pensiero umano e la conseguente elaborazione di principi, possono aiutare ad orientarsi e a muoversi su binari di coerenza in rotte ben chiare.
La sua attenta valutazione di ogni aspetto dell’esperienza giuslavoristica nell’ambito di orientamenti culturali più vasti, lo portava a ritenere che l’opportunità di ancorarsi a scelte filosofiche generali, assumesse valenze diverse in sistemi caratterizzati da costituzioni rigide rispetto a realtà dove non esistono . Certamente nel mondo anglosassone la ricerca di valori e conseguenti principi ispiratori si pone in modo più stringente rispetto a sistemi, come il nostro, dove le scelte di valori e l’elaborazione di principi si trovano per buona parte già inseriti nella Costituzione, anche se attraverso un bilanciamento di interessi mai statico.
Pur con questo approccio metodologico mai totalizzante, Riccardo riteneva che la teoria delle capabilities di Amartya Sen e Martha Nussbaum e la teoria della libertà come non dominio di Philip Pettit, con le variazioni di Frank Lovett , potessero essere utili nel rileggere alcune parti del diritto del lavoro, in una prospettiva sistematica, precisando anche che concetti collegati a visioni filosofiche e politiche dovrebbero essere necessariamente filtrati per ricavarne applicazioni e linee guida nell’ambito del diritto del lavoro.
Riprendendo le parole illuminanti di Riccardo “quel che serve è un riferimento assiologico che, tenendo fermo il concetto dell’impegno sociale dello Stato in una con l’essenziale funzione di intermediazione svolta dai sindacati, e senza disconoscere il bisogno di protezione del lavoratore subordinato, sappia però guardare al di là di tale prospettiva difensiva, che poi è quella della socialdemocrazia classica, per proiettarsi verso l’obiettivo positivo della “soggettivazione” del lavoratore, da considerare come il più profondo tra i valori sottesi alla materia” . In una dimensione normativa incentrata, riprendendo ancora le parole di Riccardo, sul primato “ …..della “libertà sostanziale” di ciascuna persona di poter essere o fare quello che desidera e quindi su una libertà che si proietta oltre il liberalismo classico nella misura in cui presuppone che lo Stato si preoccupi delle effettive possibilità di soddisfacimento delle aspirazioni di vita dei suoi cittadini”
2. Fatte queste premesse metodologiche, la teoria repubblicana di Philip Pettit trova fondamento nell’analisi del rapporto tra cittadino e Stato nella Repubblica Romana, per esaminarne poi gli sviluppi nel corso del Medioevo e soprattutto nel Rinascimento, portando l’attenzione sul pensiero di alcuni autori anglosassoni nel XVIII secolo, per coglierne gli sviluppi nella rivoluzione americana e poi via via sino ai nostri giorni.
La teoria assume tra i suoi concetti fondanti quello della libertà intesa come non dominio, da ritenersi distinta rispetto all’idea classica del pensiero liberale della libertà come non interferenza .
La teoria repubblicana si concentra sulla possibilità attribuita ad una parte di esercitare un potere arbitrario sull’altra. E ciò non richiede che il potere sia effettivamente esercitato, con conseguente interferenza. La sola possibilità che lo sia è sufficiente a comprimere la libertà di non essere dominati. Mentre l’approccio del pensiero liberale considera interferenza ogni intervento eteronomo della legge, il pensiero repubblicano recupera il ruolo della legge come strumento essenziale di contrasto all’arbitrio del potere, ponendo limiti a tutela della libertà sostanziale.
Anche la separazione dei poteri legislativo, giudiziario ed esecutivo e la creazione di strumenti di controllo delle posizioni tendenzialmente dominanti, costituiscono un baluardo imprescindibile a difesa della libertà individuale .
Alla tendenziale astensione del pensiero liberale puro, la teoria repubblicana sostituisce la ricerca costante di una architettura costituzionale che limiti le occasioni di esercizio di un potere arbitrario.
Il pensiero di Pettit, che si pone su un piano più generale, non presta particolare attenzione al ruolo della contrattazione collettiva nella limitazione dell’arbitrio, ma certamente non lo esclude.
Nell’elaborazione di Frank Lovett, l’attenzione al contrasto al dominio arbitrario è posta con maggiore accentuazione sul piano delle relazioni sociali e delle relative dinamiche.
In particolare Lovett individua tre elementi che possono caratterizzare la relazione tra datore di lavoro e lavoratore sotto il profilo del dominio: il concetto di dipendenza (dependency), lo squilibrio di potere (power imbalance) e l’arbitrio (arbitrariness) .
La dipendenza è presente ogni qual volta il costo di uscita dalla relazione da parte del lavoratore sia tale da scoraggiare il passaggio ad altro tipo di lavoro, con conseguente dipendenza e deterrenza rispetto a tale passaggio.
In questa prospettiva la dipendenza può riguardare anche lavoratori che godono di buoni trattamenti economici e non dovrebbe essere confusa con la subordinazione che è strettamente inerente alla relazione di rapporto di lavoro subordinato.
Il secondo fattore di dominio, lo squilibrio di poteri, è fisiologicamente collegato alla relazione contrattuale di lavoro subordinato dove l’esercizio del potere direttivo rientra nelle prerogative manageriali.
Infine l’arbitrio è collegato all’assenza di efficaci limiti sostanziali e/o procedurali di natura legale all’esercizio delle prerogative manageriali.
Se per un verso Pettit pone l’accento sulla libertà dal dominio arbitrario non solo a livello istituzionale ma anche nell’ambito delle relazioni contrattuali, l’attenzione di Lovett viene posta sostanzialmente sugli strumenti sociali che possono garantire una maggior libertà dal dominio come, ad es., un reddito universale di base incondizionato.
Da questa esposizione, inevitabilmente sommaria, si potrebbe ricavare la convinzione che il pensiero repubblicano di Pettit e Lovett non sia particolarmente originale, e riprenda spunti che si sono sviluppati in varie aree culturali sin dal diciottesimo secolo.
Ma ciò che a Riccardo interessava, probabilmente non era tanto l’originalità (che peraltro non può mai essere assoluta), quanto il tentativo di offrire una ricostruzione filosofica-politica e istituzionale organicamente collegata ad un preciso punto focale: la libertà sostanziale di individui e gruppi.
E ciò non costituisce affatto un dato acquisito per sempre, come può ricavarsi dalla spinta tendenzialmente egemonica che vari sistemi autoritari pretendono oggi di esercitare, giustificando l’eliminazione delle libertà democratiche, considerate una ipocrita foglia di fico, come necessaria ed auspicabile, nel nome della protezione di presunti valori tradizionali, religiosi e culturali e di una presunta maggiore efficienza di governo, spesso smentita dai fatti.
Nel contesto attuale molti Governi autocratici propongono il loro modello come direttamente contrapposto alle democrazie occidentali ed ai loro valori.
In questa prospettiva la protezione della libertà individuale, di quella che Riccardo definiva libertà sostanziale, ed il contrasto ad ogni forma di discriminazione, vengono visti come inutili orpelli delle decadenti società occidentali.
Senza dimenticare che, nell’ambito dell’Unione Europea, due paesi (Polonia e Ungheria) hanno adottato provvedimenti legislativi che compromettono gravemente la separazione dei poteri.
In questo contesto storico, che Riccardo ha vissuto con preoccupazione nella fase finale della sua vita, ogni manifestazione di pensiero che si prefigge l’obiettivo di difendere ed espandere tutte le manifestazioni di libertà contro poteri arbitrari, deve forse essere valutata con attenzione e non con sufficienza, al di là di ogni considerazione sulla sua maggiore o minore originalità.
3. In una pubblicazione di qualche anno fa sui fondamenti filosofici del diritto del lavoro , vari autori anglosassoni hanno esaminato i possibili collegamenti tra teorie filosofiche di carattere generale e diritto del lavoro tra cui, ma non solo, la teoria di libertà come non dominio e la teoria delle capabilities, su cui ha portato particolare attenzione Riccardo.
In un intervento intitolato Civic Repubblican Political Theory and Labour Law , David Cabrelli e Rebecca Zahn, analizzano in dettaglio la teoria civica repubblicana di Pettit e Lovett evidenziandone le convergenze e divergenze, sottolineando la distinzione dalla teoria classica liberale della libertà come non interferenza, con possibili effetti di riequilibrio contrattuale su quella che viene definita come correttezza sostanziale (substantive fairness) nella relazione contrattuale.
Questa maggiore libertà nella ricostruzione di Cabrelli e Zahn può essere raggiunta attraverso la protezione procedurale e sostanziale della legge, che costituisce una interferenza auspicabile a fronte di un evidente squilibrio contrattuale sia nei rapporti di lavoro subordinato sia nell’ambito di quei rapporti contrattuali relativi a lavoratori definiti negli ordinamenti anglosassoni come semi-dependent workers.
Questa interferenza legislativa dovrebbe auspicabilmente concentrarsi sul tema della cessazione del rapporto (Wrongful and unfair dismissal) nella realizzazione di norme a tutela di una retribuzione minima, o comunque a protezione dei salari (minimum wage and wage protection) e norme limitative dei poteri manageriali in ordine a variazioni della relazione contrattuale (ad es. mansioni o luogo di lavoro).
Un ruolo particolare nell’applicazione di queste normative ha, secondo questi autori, il controllo di buona fede, istituto implicito nei termini della relazione contrattuale anche nella Common Law, identificato anche come “mutual trust and confidence”.
In particolare, nell’ordinamento inglese, ma anche in Australia e negli Stati Uniti, può essere oggi rinvenuto un dovere generale di buona fede cui viene attribuito un contenuto minimo, in assenza di specifiche previsioni, di comportamento corretto ed onesto (“the “core” requirement of the good-faith duty is that a party behaves honestly”).
Nella valutazione della correttezza del comportamento, secondo la Corte d’Appello inglese, assume un ruolo rilevante il giudizio di ragionevolezza (reasonableness) “…this duty may be breached by conduct taken in bad faith, which could include conduct which would be regarded as “commercially unacceptable by reasonable and honest people” , in un caso in cui la minoranza dei soci contestava la decisione della maggioranza di rimuovere l’amministratore delegato e il direttore generale, considerata come abuso di maggioranza, con pregiudizio per i soci di minoranza.
Negli ordinamenti anglosassoni la buona fede va di fatto a confluire con una valutazione della condotta sotto il profilo della correttezza che a sua volta appare strettamente legata alla ragionevolezza (reasonableness) e si sovrappone al principio di “mutual trust and confidence”.
Un comportamento di malafede nelle circostanze concrete del caso, può integrare una violazione contrattuale con conseguente possibile risarcimento del danno. Nel Regno Unito il concetto di “mutual trust and confidence” è stato ritenuto da molti autori idoneo a creare obblighi specifici in campo lavoristico, come il divieto di comportamenti vessatori che ledano la dignità del lavoratore, l’obbligo di non usare in modo irragionevole e sproporzionato le prerogative e poteri manageriali e, talvolta, per introdurre obblighi procedurali (ad esempio obbligo di preavviso nell’assunzione di determinate decisioni organizzative che incidono sulla posizione del singolo). La giurisprudenza si è progressivamente adeguata, seppur con qualche iniziale resistenza, che viceversa non ha avuto nell’utilizzare la buona fede per ritenere illegittimi, in determinate circostanze, scioperi proclamati .
Il parametro o lo standard di reasonableness è quindi utilizzato negli ordinamenti di common law . Nell’ambito di una riflessione globale sulle prospettive del diritto del lavoro Guy Davidov indica, tra gli standards che ritiene opportuno utilizzare per il raggiungimento degli obiettivi lavoristici più avanzati, la buona fede, le prerogative manageriali, e la proporzionalità, posta in stretta relazione con la ragionevolezza, intesa come razionalità della decisione .
Pur dopo una iniziale resistenza, ancorata alla tradizionale visione della Common Law, nella giurisprudenza si è così progressivamente ritenuto esistente un implicito obbligo di buona fede, nell’ambito di una relazione fondata sulla reciproca fiducia, che può assumere una funzione integrativa, prescrivendo determinati comportamenti.
I giudizi di buona fede e ragionevolezza, nella valutazione del comportamento datoriale nell’ambito della relazione contrattuale lavoristica, possono portare secondo Cabrelli e Zahn ad una diminuzione dello squilibrio contrattuale di poteri, e quindi ad un minore dominio.
“As for the implied terms of good faith or mutual trust and confidence, to the extent that they control the power imbalance in personal work relationships and the level of arbitrariness exerted by the employer, it is abundantly clear that part of their ethos is to produce a diminution in domination” .
4. La connessione tra l’idea di libertà sostanziale come non dominio e le tutele legislative tese a riequilibrare lo squilibrio della relazione contrattuale e lavoristica è evidente, ed è stata valorizzata da Riccardo Del Punta , cogliendo il chiaro nesso tra disciplina legale a tutela della parte debole, limitativa dei poteri datoriali, e riduzione del dominio stesso. riduzione che si realizza non soltanto con limitazioni legali al potere, ma anche attraverso meccanismi partecipativi .
Cercando di individuare ulteriori modalità di limitazione dell’esercizio arbitrario del potere datoriale nell’ambito della relazione contrattuale lavoristica, si può portare l’attenzione non tanto e non solo sulle specifiche norme di fattispecie che assolvono a questa funzione limitativa e riequilibratrice, ma anche su strumenti di carattere generale, in parte previsti dalla stessa legge in parte ricavabili da principi, quali le clausole generali di buona fede e correttezza e l’applicazione del principio di ragionevolezza.
In questa prospettiva può anche essere toccato il tema molto controverso dell’abuso del diritto.
5. Preliminarmente è comunque opportuno sottolineare come le clausole di buona fede e correttezza hanno rilevanza per entrambe le parti del rapporto e quindi anche per il soggetto debole della relazione contrattuale lavoristica. In questo senso appaiono neutre. Stesse considerazioni in ordine alla ragionevolezza che costituisce strumento di carattere generale nella valutazione concreta del comportamento non solo del datore di lavoro ma anche del lavoratore, così come per l’abuso del diritto che può ricomprendere anche abusi dei lavoratori nell’esercizio dei loro diritti.
Tuttavia, pur non essendo preordinati esclusivamente alla riduzione del “dominio datoriale”, questi strumenti generali possono senz’altro assolvere ad una funzione riequilibratrice e di limitazione dell’esercizio arbitrario del potere da parte del datore di lavoro.
6. Nella nostra legislazione il richiamo alle clausole generali di buona fede e correttezza è espressamente contenuto in diversi articoli nel codice civile (artt. 1375 – 1376 – 1337 – 1358 – 1391 – 1460 c.c. per la buona fede e art. 1175 c.c. per la correttezza,) ed esiste in merito una vastissima letteratura in ambito civilistico, processualcivilistico, amministrativistico, commercialistico, tributario e giuslavoristico .
Pur essendo stati avanzati dubbi sulla certezza del diritto e sulla prevedibilità delle decisioni , è un dato di fatto che anche il principio di ragionevolezza sia richiamato non raramente dalla Corte di Cassazione e dalla giurisprudenza di merito, dalla Corte di Giustizia, così come dalla stessa Corte Costituzionale nell’ambito del giudizio di legittimità sulle leggi, dove, come è stato autorevolmente evidenziato da Marta Cartabia “…. ha ormai guadagnato una sua autonomia rispetto al testo della Costituzione” e viene utilizzato congiuntamente a quello di proporzionalità, senza alcuna distinzione, pur avendo in realtà entrambi una loro autonomia concettuale, attraverso la tecnica del bilanciamento dei diritti . Frequenti sono i richiami alla ragionevolezza nei principi di diritto contrattuale europeo (PECL) e nel DCFR (Draft Common Frame of Reference) del 2009 .
Ma anche nell’ambito della normativa civilistica vi sono numerosi richiami alla ragionevolezza.
Così a mero titolo esemplificativo nell’art. 1711 comma 2 c.c., secondo cui il mandatario può discostarsi dalle istruzioni ricevute qualora circostanze ignote al mandante e tali che non possano essere comunicate in tempo, facciano ragionevolmente ritenere che il mandante abbia dato la sua approvazione, ed ancora nell’art. 1365 c.c., secondo cui quando in un contratto si è espresso un caso al fine di spiegare un patto, non si presumono esclusi i casi non espressi ai quali, secondo ragione, può estendersi lo stesso patto.
Od ancora si fa riferimento a un tempo ragionevole entro cui l’agente ha diritto alla provvigione anche su affari conclusi dopo lo scioglimento del contratto (art. 1648 comma 3 c.c.).
In materia di concorrenza e liberalizzazioni, l’art. 1 della legge 24 marzo 2012 n. 27, al comma 1, lettera B, prevede che siano abrogate le norme che pongono divieti e restrizioni alle attività economiche non adeguati o non proporzionati alle finalità pubbliche perseguite, nonché disposizioni nell’ambito di programmazioni e pianificazioni territoriali o temporali “ …. che pongono limiti, programmi e controlli non ragionevoli ovvero non proporzionati rispetto alle finalità pubbliche dichiarate” condizionando l’avvio di nuove attività economiche o l’ingresso di nuovi operatori economici.
Al secondo comma si prevede poi che le disposizioni che recano divieti e restrizioni varie all’esercizio di attività economiche “sono in ogni caso interpretate e applicate in senso tassativo, restrittivo e ragionevolmente proporzionate alle perseguite finalità di interesse pubblico generale”.
Nell’ambito del diritto del lavoro vi è il riferimento a ragionevoli accomodamenti prima di procedere al licenziamento del disabile, sulla base delle Convenzioni Internazionali ONU, delle norme dell’ordinamento eurounitario, e della stessa disposizione di legge nazionale (art. 9, comma 4 ter, legge 9.8.2013 n. 99), a cui è seguita una sentenza di fondamentale importanza della Sezione Lavoro della Cassazione la n. 6947/2021 , che ha approfonditamente trattato il tema della ragionevolezza.
Rispetto all’abuso del diritto è noto anche come l'art. 7 del progetto definitivo del codice civile contenuto tra le disposizioni generali sull'applicazione della legge prevedeva che «nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per cui il diritto medesimo gli è riconosciuto», e che tale disposizione non è stata poi inserita nel testo finale. Un accostamento all’abuso del diritto può rinvenirsi, pur con differenziazioni, nel divieto di atti emulativi ex art. 833 c.c.. A sua volta l'art. 54 della Carta Europea dei Diritti Fondamentali, (Carta di Nizza) è intitolato nella rubrica «Divieto dell'abuso del diritto» prevedendo che «nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata nel senso di comportare un diritto di esercitare un'attività o compiere un atto che miri alla distruzione dei diritti o delle libertà riconosciuti nella presente Carta o di imporre a tali diritti e libertà limitazioni più ampie di quelle previste dalla presente Carta». In tema v. anche art. 17 della CEDU.
In ambito tributario l’abuso del diritto è disciplinato dall’art. 10 bis della legge 212/2000, ed è integrato in presenza di operazioni prive di sostanza economica, preordinate ad ottenere solo benefici fiscali, in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario .
L'abuso del diritto è disciplinato in Germania (paragrafo 226 codice civile), in Portogallo, (art. 334 codice civile), in Spagna (art 7, comma 2, disposizioni preliminari al codice civile), in Olanda (art. 13 codice del 1992), in Grecia (art. 281 del codice civile), in Svizzera (art. 2 del codice civile), ed è invece fondato su una base giurisprudenziale in Francia.
7. Richiamati alcuni riferimenti normativi agli istituti generali di cui stiamo parlando, il tema della distinzione tra clausole generali di buona fede e correttezza, ragionevolezza e abuso del diritto è stato più volte affrontato nel diritto civile con soluzioni diverse, anche se poi di fatto i profili di interferenza sono molteplici.
Certamente l’aspetto definitorio ha sempre grande rilevanza. Tuttavia, nell’analizzare questi strumenti, il profilo di maggiore interesse per le ricadute concrete non è tanto quello definitorio, quanto quello funzionale del loro modo di operare.
Se le clausole generali di correttezza e buona fede sono norme aperte che rinviano a regole sociali di condotta e richiedono un impegno a salvaguardare l’interesse e l’utilità dell’altra parte, costituendo espressione di solidarietà sociale, la ragionevolezza è considerata “Criterio utile al fine di coniugare interessi diversi e individuare situazioni congrue e adeguate all’ordinamento vigente e ai suoi valori” .
Come è stato evidenziato nell’ambito del diritto civile, la ragionevolezza rappresenta il collante costante e necessario tra il caso concreto e il sistema giuridico di riferimento consentendo di scegliere tra più soluzioni possibili quella più conforme, più adeguata e più congrua agli interessi coinvolti e ai valori normativi presenti in un dato ordinamento .
È opinione prevalente ritenere che rappresenti un criterio o canone di valutazione distinguendosi cosi da una mera clausola generale che costituisce una norma incompleta . Tuttavia si è sottolineato come “…nel momento applicativo tali astratte distinzioni e concettualizzazioni si dissolvono come neve al sole sia perché spesso, come visto, la ragionevolezza è utilizzata dal legislatore quale sinonimo di buona fede, diligenza, equità etc …, sia perché i concetti non sono concepibili isolatamente e la ragionevolezza, come rilevato dalle stesse Sezioni Unite (S.U. 18.01.2001 n. 5 NDR) può cooperare in alcuni casi con le tradizionali clausole generali per la decisione del caso concreto e con finalità valutative” .
Si può aggiungere che anche la figura dell’abuso del diritto, per chi la considera possibile , presenta profili di interferenza con la clausola generale di buona fede e con la ragionevolezza.
La Cassazione ha ritenuto configurabile un abuso del diritto in tutti i casi in cui il titolare di un diritto soggettivo, pur in assenza di divieti formali, lo eserciti con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, ed al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali i poteri sono attribuiti .
Anche l’abuso del diritto può essere riferito all’esercizio del diritto da parte di entrambi i contraenti, e quindi anche della parte debole. La Cassazione l’ha spesso utilizzato con riferimento a comportamenti del lavoratore (uso improprio di permessi, comportamenti ostruzionistici formalmente ammissibili ma abusivi in quanto diretti a costringere il datore di lavoro ad assumere certe decisioni, ad esempio nel caso ricordato, a trasferire il lavoratore) . Tuttavia certamente l’abuso del diritto può essere riferito anche a comportamenti datoriali.
La formulazione è ampia ed eterogenea con accostamento a correttezza e buona fede, ma anche sostanzialmente alla irragionevolezza, seppur non espressamente menzionata.
Il concetto di abuso è legato alle modalità di esercizio del diritto, ma anche la valutazione di buona fede e ragionevolezza può essere fatta in concreto nel momento dell’esercizio del diritto. Nell’abuso del diritto l’accento si pone in modo diretto sulla sproporzione del sacrificio subito dall’altra parte e sulla deviazione dalle ragioni per cui i poteri sono stati attribuiti.
Siamo di fronte a istituti e strumenti di carattere generale, che hanno loro distinte definizioni, ma sono parzialmente sovrapponibili, soprattutto in sede applicativa, e che non sono necessariamente preordinati alla tutela della parte più debole del rapporto rispetto all’esercizio arbitrario di poteri, ma che possono in concreto assolvere efficacemente a questa funzione.
8. Prima di approfondire le modalità operative di questi istituti, si può osservare come il tema della libertà come non dominio e del controllo sull’esercizio arbitrario dei poteri attribuiti, si inserisce in un contesto contrattuale caratterizzato comunque da un rapporto di subordinazione che per definizione presuppone l’attribuzione di specifici poteri organizzativi e di direzione in capo al datore di lavoro, sul presupposto che l’organizzazione gerarchica imprenditoriale possa garantire efficienza, e quindi complessivamente un miglioramento delle condizioni socio economiche della società civile.
Pertanto, inevitabilmente, la relazione contrattuale lavoristica di per sé è espressione di un dominio, ma il tema di fondo resta sempre quello del bilanciamento tra una forma organizzativa economica che si è dimostrata efficiente e la tutela della libertà individuale rispetto ad atti organizzativi che si discostano dal modello legale o, comunque, eccedono in modo arbitrario.
Come noto sia Riccardo Del Punta che Bruno Caruso e Tiziano Treu hanno sottolineato nel diritto del lavoro una possibile correzione nella identificazione della causa, portando l’attenzione sulla collaborazione (peraltro già presente nell’art. 2094 c.c.) con attenuazione del profilo strettamente gerarchico, alla luce delle trasformazioni produttive in corso, che richiedono spesso professionalità più elevate, il cui apporto collaborativo ha una valenza più ampia rispetto a professionalità più semplici e attenua la stretta sottoposizione al potere direttivo.
Tuttavia, anche in questo scenario, la valutazione di buona fede, correttezza e ragionevolezza del comportamento delle parti resterebbe immutata.
Nella prospettiva del bilanciamento di interessi, che di volta in volta può portare alla prevalenza dell’uno o dell’altro, il metro di giudizio su ciò che può apparire eccessivo e arbitrario è per un verso il superamento del limite legale e, per altro verso, in casi più limitati, la mancanza di ragionevolezza nell’atto o nel comportamento posto in essere, la contrarietà a correttezza e buona fede e talvolta il profilo dell’abuso.
La ragionevolezza assume peraltro una duplice valenza, in quanto eccezionalmente in assenza di limiti legali espressi costituisce essa stessa il metro di valutazione di un adeguato contemperamento tra interessi opposti, assolvendo una funzione integrativa, ma anche in presenza di norme di fattispecie, la loro interpretazione e, soprattutto, la loro applicazione al caso concreto, è normalmente collegata al parametro della ragionevolezza, che assume rilievo, talvolta sotto il profilo della interpretazione generale della norma, più spesso nella specifica applicazione al caso concreto.
Infine talvolta la ragionevolezza è espressamente richiamata nella fattispecie ed oggetto conseguente di interpretazione e valutazione nel momento applicativo.
La ragionevolezza pertanto si pone prevalentemente come criterio interpretativo – applicativo; meno frequentemente può assumere una funzione integrativa, e talvolta è essa stessa elemento della fattispecie.
9. Tra gli interventi legislativi è stato già ricordato quello relativo al licenziamento del disabile che deve essere preceduto dalla ricerca di ragionevoli accomodamenti.
La Cassazione, nel definire i “ragionevoli accomodamenti”, ha affermato che il controllo di correttezza e buona fede nella esecuzione del rapporto viene ad essere lo strumento attraverso cui si può esprimere una valutazione di ragionevolezza.
Nella prospettiva indicata dalla Corte di legittimità, questo tipo di controllo implica una comparazione tra l’interesse del datore di lavoro al libero svolgimento dell’iniziativa economica e l’interesse del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro, che costituisce modalità di realizzazione della propria personalità.
Si tratta di un controllo sulla congruità causale degli atti del datore di lavoro che, secondo la Cassazione, pur non potendo costituire un criterio generale di valutazione degli atti datoriali, assume un’autonoma rilevanza quando il legislatore, come nel caso di specie, richiama il canone della ragionevolezza nella valutazione delle scelte datoriali, in relazione agli adeguati accomodamenti.
Pur consapevoli della indeterminatezza del concetto di ragionevolezza, che trova una sua valorizzazione soltanto nelle circostanze del caso concreto, i giudici di legittimità ritengono che comunque dal riferimento alla ragionevolezza, collegata alla correttezza e buona fede, si possano trarre dal punto di vista metodologico delle indicazioni utili alla individuazione del comportamento dovuto e alla sua eventuale valutazione giudiziale.
In particolare non si può prescindere dalla buona fede oggettiva, che implica l’obbligo di preservare gli interessi dall’altra parte, purché ciò non comporti un apprezzabile sacrificio dell’interesse della parte. Anche in quella sentenza l’interferenza tra ragionevolezza e buona fede emerge esplicitamente.
Il contemperamento degli interessi, attraverso una adeguata valutazione di quelli dell’altra parte, deve tradursi in un comportamento attivo del datore di lavoro nella ricerca degli accomodamenti che consentano comunque di preservare l’utilità della prestazione lavorativa, senza pregiudicare le situazioni soggettive degli altri lavoratori.
Questo giudizio dovrebbe essere condotto secondo parametri collegati alla “comune valutazione sociale”.
Spetta al datore provare di aver cercato di trovare questi adattamenti, che potrebbero non essere realizzabili senza un eccessivo sacrificio dell’interesse datoriale.
Deve essere data la prova di uno sforzo “ … diligente ed esigibile per trovare una soluzione organizzativa appropriata, che scongiurasse il licenziamento, avuto riguardo ad ogni circostanza rilevante nel caso concreto” .
Come già evidenziato, per la Corte la ragionevolezza non può essere considerata criterio generale di valutazione degli atti datoriali, sotto il profilo della congruità causale, ma assume rilevanza ove richiamata dalla legge. L’affermazione suscita alcune riflessioni nell’ambito di una considerazione più generale sulla ragionevolezza.
10. Il tema centrale e più delicato è il rapporto tra uso di questi strumenti di carattere generale, con particolare riferimento alla ragionevolezza, e libertà imprenditoriale.
Un secondo tema, collegato al primo, è dato dal rischio di lesione del principio di legalità e dalla imprevedibilità delle decisioni , che determina incertezze sui mercati e conseguenti danni economici.
a) L’utilizzo di questi strumenti di carattere generale è molto comune quantomeno in riferimento alle clausole di buona fede e correttezza e alla ragionevolezza.
Viceversa, l’abuso del diritto è strumento molto discusso, ma realisticamente dobbiamo considerare il fatto che la Cassazione lo ritiene ammissibile e lo utilizza.
Il principio di legalità non mi sembra sia messo in pericolo di per sé, dal momento che la buona fede e la ragionevolezza fanno parte della legalità e non ne possono essere considerati estranei. D’altra parte il Giudice, nell’applicare il diritto, fa riferimento ad una molteplicità di fonti (dalla Costituzione al diritto eurounitario, alle Convenzioni Internazionali ratificate alle leggi), che a loro volta generano principi, e questi principi vengono valutati spesso in un’ottica di bilanciamento, dove un ruolo non marginale assume la ragionevolezza, vista la sua prevalente natura di criterio di valutazione.
Il problema non è tanto l’uso di strumenti di carattere generale, ma la mancanza di equilibrio nella decisione ove sia ignorato e comunque sistematicamente sacrificato uno degli interessi in gioco (ad esempio la libertà di impresa).
In questa prospettiva il principio di legalità è rafforzato e non intaccato dall’uso di strumenti di carattere generale e l’attenzione si sposta sull’uso ragionevole o meno di questi strumenti da parte dell’interprete.
In definitiva se la ragionevolezza è certamente uno strumento di contrasto all’arbitrio del potere, non si può escludere di trovarsi di fronte ad una utilizzazione a sua volta arbitraria e unidirezionale del principio di ragionevolezza.
Con la consapevolezza che resta comunque un ambito insondabile di valutazione del caso concreto affidato alla sensibilità culturale di chi giudica ed espresso nella motivazione e nella sua capacità persuasiva, strumento imprescindibile di controllo democratico sull’operato del giudice .
b) La Cassazione ha escluso che “…possa configurarsi nei rapporti di lavoro un obbligo giuridico a valenza generale di “ragionevolezza” nell’esercizio dell’attività di impresa, tale da consentire un esteso sindacato giudiziale diretto, ex post, di congruità causale degli atti del datore di lavoro” , ammissibile invece quando la ragionevolezza è menzionata espressamente dalla legge come elemento della fattispecie.
Viceversa, secondo una parte di opinione dottrinale, “in questa dimensione causale – funzionale il potere trova un limite nella stessa razionalità strumentale, che impone adeguatezza e congruenza tra i mezzi e i fini dell’azione, affinché l’amministrazione del rapporto si svolga in maniera corretta, equilibrata, funzionale, secondo vincoli interni di razionalità teleologica” .
La precisazione della Cassazione è in linea con l’impossibilità di sindacare nel merito le scelte datoriali, ribadita per le norme generali anche dall’art. 30 del Collegato Lavoro.
Ciò di per sé, secondo lo stesso pensiero della Cassazione, non impedisce una valutazione di ragionevolezza attraverso le clausole generali di correttezza e buona fede in tutti i casi in cui sia necessaria una comparazione di aspettative e diritti. Si tratta di riferimenti noti all’uso delle clausole generali nei concorsi privati, nelle procedure di promozione, nella scelta dei lavoratori in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo plurimo etc..
In effetti l’ammissione di una generale possibilità di valutazione della ragionevolezza degli atti imprenditoriali, inevitabilmente sfocia poi in una valutazione di merito, con lesione della libertà di impresa.
Mi sembra tuttavia che la valutazione di ragionevolezza possa assumere in generale rilevanza, a prescindere da un espresso richiamo della legge, a fronte di una evidente arbitrarietà dell’atto, che di per sé può essere lesiva della libertà e della dignità della persona, esprimendo un disvalore sostanziale.
Se al lavoratore o alla lavoratrice viene chiesto di indossare un determinato indumento (una cravatta di un determinato colore o un tipo di gonna), la richiesta appare arbitraria ove non sia collegata ad alcuna ragionevole esigenza organizzativa, come ad esempio la divisa per il personale aereo, che risponde a esigenze di riconoscibilità e di immagine aziendale. Se questo collegamento non sussiste e non vi è una spiegazione logica plausibile della richiesta, il potere direttivo viene utilizzato in modo arbitrario, e quindi illecito.
Non si tratta di una valutazione di merito perché è palese la mancanza di collegamento tra l’esercizio del potere direttivo e le esigenze organizzative che lo giustificano e l’interferenza con la sfera giuridica e la dignità del soggetto che lo subisce.
L’arbitrarietà viene così a coincidere con un comportamento palesemente privo di razionalità, o determinato da fini diversi e impropri rispetto a quelli per cui il potere è stato concesso, con modalità di esercizio che si traducono in un abuso del diritto.
Si potrebbe pensare ad una valutazione quantitativa del grado di irragionevolezza che fa rientrare nell’ambito dell’arbitrarietà sindacabile dal Giudice quei comportamenti palesemente irragionevoli.
Potrebbe essere anche usato l’aggettivo “manifesta” irragionevolezza, anche se è una parola che non ha avuto, immeritatamente, molta fortuna nell’ambito del diritto del lavoro.
La gravità del disvalore consente una valutazione di arbitrarietà come palese mancanza di ragionevolezza, che determina l’illiceità del comportamento, ed è un giudizio sempre collegato alle specifiche circostanze del caso concreto che non costituisce interferenza di merito, ma al contrario contrasta un abuso.
Andare oltre, con una valutazione di congruità causale e di adeguatezza tra mezzi e fini mi sembra che costituisca ingerenza di merito lesiva di interessi costituzionalmente protetti.
Appare condivisibile, quindi, l’opinione di chi ritiene che non esista un obbligo giuridico generale di ragionevolezza, la cui violazione sia censurabile in sede giudiziale.
11. La ragionevolezza assume funzioni diverse nelle sue modalità d’uso andando spesso, come già detto, a sovrapporsi, seppur non integralmente, con correttezza, buona fede e l’abuso del diritto, ed in particolare:
1) la funzione prevalente è quella di criterio valutativo nella soluzione del caso concreto, che assume una connotazione immanente al sistema, visto che “il diritto… non può non considerarsi fondato sulla ragione e deve quindi essere “ragionevole” .
Tuttavia, in un’ottica di bilanciamento di interessi e di salvaguardia delle prerogative imprenditoriali, ciò non si traduce in una valutazione generale di ragionevolezza a fronte di qualsiasi atto o comportamento datoriale.
1a) le modalità valutative (rapporto tra ragionevolezza e proporzionalità)
Nei limiti in cui è ammissibile, il giudizio di ragionevolezza si pone in stretto rapporto con la proporzionalità.
La Cassazione, esaminando il tema dei ragionevoli accomodamenti, ha affermato che il giudizio di ragionevolezza si aggiunge a quello di proporzionalità, e potrebbero esservi casi in cui sia possibile un accomodamento proporzionato, ma che appare irragionevole perché, ad es., va ad incidere sulla posizione di altri lavoratori. La distinzione è apprezzabile, ma si pone su un crinale molto sottile, perché in fondo si potrebbe dire che quando l’adeguamento incide sulla posizione di altri lavoratori, in sostanza incide in modo sproporzionato sull’organizzazione aziendale, e di nuovo emerge il legame profondo tra ragionevolezza e proporzionalità.
Se la proporzionalità permea il giudizio di ragionevolezza, si tratta allora di verificare se sia possibile indirizzarlo in canoni metodologici che ne consentano una valutazione più suscettibile di condivisione. Si può porre in questi termini così il tema della utilizzabilità di test di proporzionalità. Si tratta di un metodo usato dalle corti superiori nell’ambito della verifica di legittimità delle leggi, ma anche dalla Corte di Giustizia e dalla CEDU, talvolta esteso dai giudici nazionali al controllo dell’uso dei poteri imprenditoriali. In particolare; 1) la verifica di un collegamento razionale tra mezzi e scopi, con i secondi effettivamente implementati dai primi, 2) una valutazione di minor impatto possibile, così che la realizzazione di un diritto avvenga nel modo che garantisca la minor lesione o compressione possibile del diritto altrui, 3) la lesione subita da un diritto deve essere proporzionale ai benefici che derivano da quella azione.
Questi test, normalmente richiamati nella prospettiva di limitare le prerogative manageriali, possono essere usati per identificare i limiti ai “ragionevoli accomodamenti” richiesti al datore di lavoro. Nell’ambito di queste valutazioni assumono certamente grande rilevanza le dimensioni e le risorse finanziarie dell’azienda, in una prospettiva di bilanciamento di interessi.
2) Accanto alla proporzionalità, un altro strumento di controllo della ragionevolezza dei comportamenti, sempre e solo quando tale controllo può manifestarsi, è dato dalla coerenza logica dei comportamenti rispetto ai fini, ponendosi così sul piano della razionalità.
Si può aggiungere che i criteri di valutazione della ragionevolezza possono essere collegati anche a giudizi analoghi a quelli presenti nella giurisdizione amministrativa, che si sta spostando sempre più dal piano dell’interesse legittimo alle clausole generali di correttezza e buona fede e dal piano dell’atto a quello del rapporto .
Così il travisamento dei presupposti, la manifesta illogicità e incoerenza del comportamento datoriale, la contraddittorietà, possono costituire elementi utili al giudizio, traducendosi in una valutazione di logicità che ben integra, unitamente alla proporzionalità, il metro della ragionevolezza.
3) La ragionevolezza è stata talvolta utilizzata non in sede applicativa rispetto alle circostanze specifiche del caso, ma nell’interpretazione della norma, con risultati di grande impatto rispetto al testo.
Così in tema di dequalificazione nella vigenza del vecchio testo dell’art. 2103 c.c.. la norma prevedeva l’illegittimità di ogni forma di dequalificazione con la nullità di ogni patto contrario. Ciò nonostante la Cassazione ha poi espressamente ammesso il patto di dequalificazione in alternativa al licenziamento, partendo dal caso della inidoneità alle mansioni, per passare poi ad ogni ipotesi di licenziamento per GMO, e giungere infine a stabilire l’obbligo del datore di lavoro di offrire al lavoratore, in alternativa al licenziamento, un posto di lavoro disponibile anche se in mansioni inferiori .
A giustificazione della evoluzione interpretativa, la Cassazione ha operato una tipica operazione di bilanciamento di interessi, sulla base del canone della ragionevolezza.
È stato confrontato l’interesse a non essere dequalificato con quello alla conservazione del posto di lavoro e, ragionevolmente, è stato ritenuto prevalente quest’ultimo.
Conseguentemente è stato prima ammesso il patto di dequalificazione per evitare il licenziamento e poi posta in essere una limitazione nel potere di recesso, imponendo al datore l’offerta del posto in mansioni inferiori, se esistente.
Siamo di fronte ad un caso in cui il patto di dequalificazione era considerato nullo in virtù di una espressa previsione legale di nullità.
Il giudizio di ragionevolezza ha prevalso in sede interpretativa su una nullità legale, pur in assenza di una disposizione legislativa che potesse apparire derogatoria rispetto alla previsione di nullità.
Si tratta di un esempio che dimostra la forza per certi versi “dirompente” dello strumento della ragionevolezza, portata ai confini dell’interpretazione e forse anche oltre.
4) Una vera e propria funzione integrativa della ragionevolezza può ravvisarsi nel caso del licenziamento in prova.
Si tratta di un recesso libero, ma in alcuni casi, come ad esempio l’inadeguatezza della durata effettiva della prova, il licenziamento è stato considerato illegittimo, in quanto manifestazione di un esercizio arbitrario di un potere altrimenti liberamente esercitabile, a fronte di un inadempimento all’obbligo di consentire lo svolgimento effettivo della prova .
La conclusione è stata raggiunta considerando l’evidente sviamento rispetto alla funzione del patto di prova.
In tal modo si è integrata la norma che si limita a prevedere la possibilità di recesso ad nutum, limitandolo in ragione della illiceità del comportamento datoriale.
Alla base di questa conclusione vi è un giudizio che può essere definito di ragionevolezza, ma che potrebbe anche portare ad una valutazione dell’esercizio del potere di recesso in termini di abuso del diritto.
A conferma della quantomeno parziale sovrapponibilità dei concetti in sede applicativa una ulteriore ipotesi di illecito secondario, riconducibile ad una valutazione di ragionevolezza, ma anche ad un abuso del diritto, potrebbe essere individuata in caso di licenziamento per un fatto che in astratto assume rilievo disciplinare, ma nelle circostanze specifiche viene utilizzato strumentalmente.
Mi riferisco al licenziamento per un ritardo minimo che, a fronte della manifesta pretestuosità, può essere sanzionato con la reintegrazione per insussistenza del fatto, e non con il solo risarcimento del danno, in quanto assunto in palese violazione del principio di ragionevolezza, con manifestazione di abuso del diritto.
Si tratta comunque di ipotesi limitate rispetto alla funzione prevalente della ragionevolezza quale criterio valutativo per la soluzione del caso concreto.
12. In estrema sintesi, la teoria della “libertà come non dominio”, che ha costituito uno dei punti di riferimento di Riccardo Del Punta, ha evidenti collegamenti con la limitazione dei poteri arbitrari nell’ambito giuslavoristico e, sia nel mondo anglosassone, sia nella nostra esperienza, può collegarsi a quegli strumenti di carattere generale che possono assolvere a questa funzione, pur sul crinale scivoloso del bilanciamento tra libertà di impresa e protezione della libertà sostanziale del lavoratore.