testo integrale con note e bibliografia

1. - In un saggio di qualche anno fa, avevo cercato di mettere in luce il particolare “conflitto di razionalità” con cui i giudici del lavoro sono chiamati a fare i conti nell’applicare discipline che realizzano un bilanciamento fra le ragioni del diritto (che intende tutelare, anche con norme di rango costituzionale, la persona che lavora) e le ragioni dell’economia (le quali assumono rilevanza, in quel bilanciamento, per il valore che dev’essere loro attribuito anche per il tramite dell’art. 41, c. 1, Cost.).
Come in quella occasione avevo cercato di dimostrare, quel conflitto di razionalità è particolarmente acuto, a ragione del conflitto di interessi che caratterizza il rapporto di lavoro alle dipendenze di privati datori di lavoro, e che non ha eguali negli altri rapporti giuridici di natura patrimoniale .
E infatti, l’organizzazione di lavoro è sempre il “cuore” di quel più complesso organismo in cui consiste l’impresa, così che dalla efficienza della prima dipende, inevitabilmente, anche l’efficienza della seconda. Il che rende particolarmente rilevanti gli interessi organizzativi che il privato datore di lavoro intende soddisfare stipulando il contratto di lavoro subordinato .
Senonché, il legislatore, nel dettare la disciplina di tali interessi deve anche tenere conto dell’esigenza di protezione della persona che lavora, la quale assume i tratti di un “principio etico” anche per la maturata consapevolezza che l’asimmetria di potere che caratterizza nei fatti la relazione fra datore di lavoro e lavoratore, e che l’ordinamento è chiamato a contrastare (art. 3, c. 2, Cost.) , si manifesta non soltanto al momento della stipulazione del contratto di lavoro, ma anche nel corso del rapporto costituito da tale contratto .
Va allora evidenziato che l’istituto della prescrizione è una cartina di tornasole di questo particolare conflitto di interessi.
E infatti, è ormai risalente l’acquisizione che la capacità delle imprese di produrre ricchezza è conseguenza della loro efficiente organizzazione più che del compimento di singoli atti di intermediazione speculativa . In questa prospettiva, gli studiosi hanno anche messo in luce l’importanza che per l’imprenditore assume la possibilità di fare previsioni in funzione di una efficiente programmazione dell’impresa , il che richiede anche che egli abbia la possibilità di «fare piani sulla base del diritto» , in modo da poter pianificare l’attività della sua impresa facendo affidamento anche sulla prevedibilità delle conseguenze giuridiche delle sue decisioni .
Ne deriva che ai fini della efficiente programmazione dell’impresa, e quindi della sua efficiente organizzazione, assume particolare rilevanza il valore della certezza del diritto , dunque proprio quel valore che l’istituto della prescrizione è diretto a soddisfare .
Allo stesso tempo, però, l’istituto della prescrizione determina una evidente tensione con il principio etico di protezione della persona che lavora.
Per comprendere immediatamente la ragione di questa tensione, va ricordato che la prescrizione produce i suoi effetti per il «perdurare di un fatto che sia in opposizione al diritto del titolare» . La prescrizione determina, infatti, l’estinzione di quel diritto «quando si è protratta nel tempo la divergenza tra situazione di fatto e situazione di diritto» .
Pertanto, se questa è la fondamentale caratteristica della prescrizione, si comprende come la stessa possa determinare una tensione con quel principio etico perché se è vero, per quanto dicevamo prima, che nei fatti il rapporto fra lavoratore e datore di lavoro si caratterizza, immancabilmente, per una asimmetria di potere, per una ineguale distribuzione del potere, allora la prescrizione, essendo diretta a far prevalere, in funzione della esigenza di certezza, la situazione di fatto, rischia di far prevalere il potere di fatto che il datore di lavoro è in grado di esercitare anziché, come sarebbe necessario, l’esigenza di proteggere il lavoratore rispetto a quel potere.

2. - Non deve, quindi, sorprendere che proprio nella materia del diritto del lavoro si sia avuta, ad opera della sentenza della Corte costituzionale n. 63 del 1966, di cui già abbiamo sentito parlare e che ora vorrei analizzare più nel dettaglio, «la più dirompente novità che il regime della prescrizione abbia sperimentato negli ultimi decenni» .
Né deve sorprendere che nonostante il giudizio di legittimità costituzionale definito da tale pronuncia avesse ad oggetto altre disposizioni del codice civile , la sentenza n. 63/1966 della Corte costituzionale abbia introdotto «una disposizione speciale sulla decorrenza della prescrizione» che, come tale, costituisce una deroga «al principio posto dalla disposizione generale contenuta nell’art. 2935» .
Ricordiamo, infatti, qual è la regola generale dell’art. 2935 c.c.: «La prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere».
Come la dottrina ha messo in luce, proprio questa disposizione scolpisce la situazione di divergenza fra fatto e diritto di cui prima dicevamo, perché il «giorno in cui il diritto può essere fatto valere» è quello in cui l’interesse del creditore, che l’obbligazione è diretta a soddisfare (art. 1174 c.c.), «pur potendo realizzarsi, comincia ad essere insoddisfatto per inerzia o mancata reazione del titolare del diritto» . Quindi, alla possibilità giuridica della immediata soddisfazione dell’interesse del creditore, fa riscontro una situazione di fatto caratterizzata dalla perdurante insoddisfazione di tale interesse, per la inerzia del suo titolare .
È, quindi, significativo che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 63/1966, abbia voluto introdurre una deroga proprio rispetto alla regola generale sulla decorrenza della prescrizione contenuta nell’art. 2935 c.c., al fine di impedire che la dissociazione fra possibilità giuridica e situazione di fatto descritta da tale disposizione possa coincidere con il periodo in cui l’esercizio da parte del lavoratore dei suoi diritti nei confronti del datore di lavoro può trovare un ostacolo di fatto (art. 3, c. 2, Cost.) nel potere che quest’ultimo può esercitare nel corso del rapporto. Così come è significativo che l’«enunciato normativo non scritto» risultante da tale sentenza introduca quella deroga «ascrivendo l’effetto di impedire la decorrenza a quello che altrimenti sarebbe da considerare ostacolo di mero fatto» e che, in tal modo, diviene ostacolo «di diritto, perché riconosciuto dalla norma costituzionale e tipizzato proprio dalla norma introdotta dalla Corte nell’esercizio della sua funzione di controllo sulla legittimità delle leggi» .

3. - Va allora segnalato che una parte della dottrina ha di recente ritenuto di poter sottoporre a critica l’enunciato normativo introdotto dalla sentenza della Corte costituzionale n. 63/1966 affermando che «l’opzione di politica del diritto che la animava», «di tutela del lavoratore», avrebbe condotto la Consulta a motivare la sua decisione con alcune «semplificazioni» .
Senonché, tale critica non sembra poter essere condivisa, anzitutto perché la sentenza n. 63/1966 ha realizzato un prudente bilanciamento fra l’esigenza di protezione del lavoratore subordinato e le esigenze organizzative del datore di lavoro che, come detto, trovano nella certezza del diritto uno strumento di soddisfazione.
E infatti, la Corte costituzionale non ha seguito le tesi che, anche sulla base di un’interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni del codice civile, affermavano l’imprescrittibilità dei diritti dei lavoratori subordinati e, in particolare, ha ritenuto che l’opinione dottrinale che qualificava «il diritto alla retribuzione “sufficiente” come diritto della personalità» non potesse accogliersi «nella sua assolutezza» . Onde la Corte costituzionale ha realizzato un prudente bilanciamento anzitutto quando, pur riconoscendo come «imprescrittibile» il diritto della persona garantito dal primo comma dell’art. 36 Cost., ha considerato come pienamente prescrittibili «le pretese di carattere patrimoniale» collegate a tale diritto .
Tale presa di posizione della Consulta non è stata priva di conseguenze. Ad esempio, quando la giurisprudenza è stata chiamata a stabilire se la legge n. 4 del 1953, imponendo l’obbligo di consegnare un prospetto paga contestualmente al pagamento della retribuzione , avesse ormai reso inapplicabili al lavoro subordinato le prescrizioni presuntive previste dagli artt. 2955, n. 2, e 2956, n. 1, c.c., ha motivato la risposta negativa anche con la considerazione che la sentenza della Corte costituzionale n. 63/1966 ha ritenuto anche le prescrizioni presuntive compatibili con le norme di tutela dei lavoratori subordinati di rango costituzionale, salva soltanto la speciale regola sulla decorrenza della prescrizione introdotta da tale sentenza .
La sentenza della Corte costituzionale n. 63/1966 viene, però, criticata anche nel presupposto che la sua motivazione si fonderebbe su una «equazione tra prescrizione e rinuncia» che sarebbe «tecnicamente opinabile», in quanto è pacifico che mentre la rinuncia «è un negozio unilaterale abdicativo, e dunque un atto di volontà», la prescrizione «prescinde dalla esistenza di una volontà abdicativa, essendo sufficiente il fatto della inerzia protrattasi per un certo tempo» .
Senonché, anche tale critica, pur se fondata su un’opinione largamente condivisa , non sembra poter essere accolta.

4. - E infatti, il fulcro della motivazione della sentenza n. 63/1966 dev’essere, a mio avviso, individuato nella prima parte del punto 3 del Considerato in diritto, in cui la Corte costituzionale ha equiparato negozio di rinuncia e mera inerzia, ma per un aspetto diverso dalla manifestazione della volontà negoziale.
Tale parte della motivazione prende, infatti, in considerazione la disciplina del negozio di rinuncia contenuta nell’art. 2113 c.c. per dedurne che il legislatore, con tale disciplina, ha chiarito che è ben possibile che la volontà manifestata dal lavoratore nel corso del rapporto di lavoro, di rinunciare ad un diritto che gli spetterebbe nei confronti del datore di lavoro, anziché costituire «una libera espressione di volontà negoziale» possa essere il frutto del «timore del recesso, cioè del licenziamento», che «spinge o può spingere il lavoratore sulla via della rinuncia a una parte dei propri diritti», così che «si è voluto proteggere il contraente più debole contro la sua propria debolezza di soggetto interessato alla conservazione del rapporto» .
Pertanto, il significato letterale delle parole utilizzate dalla Corte («spinge o può spingere») induce ad affermare che la stessa abbia attribuito rilevanza al c.d. movente della dichiarazione di rinuncia, che sta prima (non soltanto cronologicamente, ma anche sul piano della logica giuridica) della manifestazione della volontà negoziale, costituendone la “remota motivazione” .
Sembra, quindi, anche possibile affermare che in tale parte della motivazione la Corte, nel riconoscere che il lavoratore «può essere indotto a non esercitare il proprio diritto per lo stesso motivo per cui molte volte è portato a rinunciarvi» , abbia equiparato rinuncia ed inerzia soltanto rispetto al loro possibile movente e non, quindi, rispetto alla dichiarazione di volontà negoziale. Il che consente di ritenere che la motivazione di tale pronuncia si sottragga alla critica sopra ricordata.

5. - Per concludere questo breve intervento vorrei, però, anche segnalare che la motivazione della sentenza n. 63/1966 sembra comunque poter essere sottoposta a critica. Non già, però, perché fondata su “semplificazioni” ma, se mai, per le diverse condizioni cui la Consulta ha subordinato l’applicazione dell’enunciato normativo risultante dalla sua sentenza, e che finiscono per limitarne eccessivamente gli effetti.
Per brevità ne segnalo soltanto una, che a me pare la più significativa.
La Corte, infatti, pur avendo riconosciuto che il lavoratore nel corso del rapporto di lavoro, a causa della sua posizione di soggezione nei confronti del datore di lavoro, incontra «ostacoli materiali» nell’esercitare i diritti che gli derivano da tale rapporto, sembra avere affermato che fra tali ostacoli potrebbe assumere giuridica rilevanza soltanto quello connesso con la specifica «situazione psicologica» in cui lo stesso lavoratore può trovarsi a causa del «timore del recesso, cioè del licenziamento» .
La scelta che la Corte costituzionale sembra avere in tal modo compiuto di subordinare l’applicazione dell’enunciato normativo risultante dalla sentenza n. 63/1966 a tale specifica condizione , ha posto le premesse per escluderne l’applicazione in relazione a rapporti di lavoro che, pur caratterizzandosi per un’accentuata situazione di sottoprotezione del lavoratore, quali sono quelli a termine intercorrenti con i privati datori di lavoro, non presentano quella specifica condizione.
E infatti, quando le Sezioni Unite, con la sentenza n. 575 del 2003, sono state chiamate a comporre il contrasto di giurisprudenza in relazione alla decorrenza della prescrizione in caso di successione di più contratti di lavoro a tempo determinato che siano «legittimi ed efficaci» , hanno ritenuto di non poter condividere l’indirizzo che aveva escluso la decorrenza in considerazione della «situazione psicologica di timore» in cui il lavoratore a termine comunque si trova nei confronti del datore di lavoro cui spetta «la decisione sulla continuazione o meno della prestazione lavorativa», perché hanno affermato che quella situazione psicologica di soggezione non corrisponde a «quel metus» cui ha attribuito rilevanza la Corte costituzionale con la sentenza n. 63 del 1966, perché «il timore del licenziamento» è un concetto ben preciso, che non può «essere utilizzato per patrocinare interpretazioni analogiche» .
Pertanto, ritenendo che fra i diversi possibili moventi dell’inerzia del lavoratore nell’esercitare i suoi diritti derivanti dal rapporto di lavoro possa assumere giuridica rilevanza, quale “ostacolo” idoneo a giustificare la speciale regola in materia di decorrenza della prescrizione, soltanto il movente connesso con il timore del licenziamento, si finisce per escludere che il timore del lavoratore di non veder rinnovato il contratto a tempo determinato possa costituire un movente altrettanto rilevante . E ciò, nonostante anche il legislatore abbia ormai riconosciuto che tale timore può costituire un movente particolarmente efficace della inerzia del lavoratore nell’esercitare i suoi diritti quando ha previsto, per l’impugnazione stragiudiziale del termine di durata apposto al contratto di lavoro, un termine di decadenza che è tre volte più ampio di quello previsto per l’impugnazione del licenziamento , in modo da offrire al lavoratore un’adeguata possibilità di superare quel timore .
Sembra, però, possibile affermare che la mancata espressa considerazione da parte della Corte costituzionale del movente connesso con la situazione psicologica in cui si trova il lavoratore assunto a tempo determinato, sia soltanto la conseguenza del fatto che all’epoca in cui la sentenza n. 63/1966 è stata pronunciata il contratto di lavoro a tempo determinato poteva essere ancora considerato una forma eccezionale di rapporto di lavoro, a causa degli stringenti limiti cui la legge subordinava l’apposizione del termine di durata al rapporto di lavoro . In tale quadro normativo, l’eventuale aspirazione del lavoratore a vedersi rinnovato il contratto di lavoro a tempo determinato poteva apparire non particolarmente degna di tutela , e ciò poteva quindi indurre a considerare non particolarmente rilevante l’eventuale timore dello stesso lavoratore di vedere insoddisfatta tale aspirazione.
Pertanto, a seguito del «vero e proprio mutamento di paradigma» determinato dalle riforme che, nell’ambito delle politiche di contrasto alla disoccupazione, hanno disciplinato le forme contrattuali di carattere temporaneo con l’obiettivo di farne uno strumento di attuazione del diritto al lavoro ex art. 4 Cost. , i tempi sembrano maturi affinché si riconosca anche nel timore del lavoratore di non vedere rinnovato il contratto di lavoro a termine con il quale sia stato assunto, un ostacolo giuridicamente rilevante all’esercizio dei diritti nei confronti del datore di lavoro, idoneo a giustificare la mancata decorrenza della prescrizione nel corso del rapporto .

 

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