testo integrale con note e bibliografia

1. Vorrei svolgere alcune considerazioni critiche sulla decisione 36127 del 2023 delle Sezioni Unite, che a me pare deludente sia per la soluzione finale adottata, sia per le motivazioni che vengono addotte, non rispondendo esse alle sollecitazioni dell’ordinanza 6051 del 2023. Né tale soluzione può essere giustificata, come non è sfuggito al prof. Centofanti nella sua eccellente ricostruzione storica dell’istituto della prescrizione , dal rilievo dato ai riflessi sul contenimento del debito pubblico, che appare, alla fine, la vera ragionevole motivazione (punto 8.1 della sentenza) della scelta adottata dalle Sezioni Unite.
Tale fatto non dovrebbe giustificare in alcun modo l’avvenuta compressione del buon diritto all’uguaglianza tra le varie categorie di lavoratori e la conseguente negazione del principio di effettività, giustamente richiamato nell’ordinanza di rimessione (punto 4 motivazione), punto fermo del diritto unionale, come più volte ha sancito la Corte di giustizia europea. Qui ricordo, per tutte, il punto 110 della sentenza Mascolo (del 26.11.2014, in causa C-22/13), dove si risponde al Governo italiano, che tentava di giustificare gli abusi nell’utilizzo dei contratti a termine nel settore scolastico anche con ragioni di bilancio, come i principi fondanti dell’Unione non possono essere disattesi per mere ragioni di bilancio pubblico.
Tanto quantomeno in teoria. Poi è anche vero che pure la Corte di Lussemburgo non è esente da cadute, come recentemente è accaduto con la sentenza FNV del 18.4.2022 (in causa C-237/20), dove la Corte, nel “salvare” la procedura olandese del “pre-pack”, rompe un consolidato percorso giurisprudenziale in tema di trasferimento di azienda, con l’effetto di consentire un accordo preventivo chiaramente finalizzato a consentire la prosecuzione dell’azienda in difficoltà economiche, trasferendo all’acquirente solo una parte dei lavoratori, così tradendo di fatto le finalità della Direttiva, finalizzata principalmente, come dice la sua stessa intitolazione, “al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese”. Laddove invece l’Avvocato generale Pitruzzella aveva concluso in modo opposto, del tutto coerente con quanto aveva fatto la Corte nel 2009 con la sentenza 11.6.2009 (in causa C-561/07), con la quale aveva condannato l’Italia per avere mantenuto in vita gli art. 47, commi 5 e 6, della legge 29 dicembre 1990, n. 428, che perseguivano un risultato analogo a quello della particolare procedura olandese.

2. Dunque, e per tornare al tema del mio intervento, non resta che prendere al momento atto (salvo un possibile passaggio alle Alte Corti europee) della decisione delle Sezioni Unite. Nondimeno, sulla base dei medesimi principi stabiliti nella sentenza 36127/2023, qui criticata, è possibile evidenziare fattispecie nelle quali si deve giungere ad una soluzione diversa, con conseguenti effetti contradditori del nuovo sistema elaborato dal Supremo consesso, che non appaiono giustificare il diverso trattamento che ne deriva per i lavoratori pubblici, a seconda del settore dove hanno operato in regime di precarietà.
Le Sezioni Unite sanciscono, infatti, che, nel caso di una successione dei contratti a termine, “la prescrizione dei crediti retributivi decorre in costanza di rapporto, attesa la mancanza di ogni aspettativa del lavoratore alla stabilità dell'impiego e la conseguente inconfigurabilità di un metus in ordine alla mancata continuazione del rapporto suscettibile di tutela” (punto 8.2 sentenza). Ma se così è, occorre allora rilevare come, nell’ordinamento vigente, vi sono situazioni nelle quali è invece ravvisabile una concreta prospettiva della stabilizzazione del rapporto precario, prevista espressamente dalla normativa del settore. Qui ne esaminerò velocemente solo tre, per mantenere i tempi del mio contributo, ma non sono sicuramente i soli.
Un primo esempio è quello costituito dai lavoratori socialmente utili (ASU) operanti nella Regione siciliana, la cui legislazione disciplina rapporto Asu presentando aspetti diversi da quello di natura contrattuale ex art. 2 d.lgs. 165/2001 oggetto di analisi da parte delle Sezioni Unite. Infatti, tale rapporto, sin dall’origine, è stato costituito considerando e prevedendo la possibilità della stabilizzazione del lavoratore utilizzato.
Tanto risulta dalla legislazione adottata dalla Regione siciliana (che richiama anche la normativa nazionale), la quale ha delineando un percorso di possibile assorbimento dei precari in utilizzo presso l’ente stesso. In primis, già la l.r. 85 del 1995 prevedeva una serie di agevolazioni economiche per gli enti pubblici e le imprese che si fossero impegnate all’assunzione, anche part time, dei lavoratori già impegnati in lavori di utilità collettiva.
Più avanti nel tempo, l’intenzione del legislatore regionale si fa ancora più chiara. La legge regionale 20 del 2003 prevedeva, all’art. 39, co. 5, che “Gli enti locali (…) possono effettuare assunzioni, anche part-time, di soggetti destinatari del regime transitorio dei lavori socialmente utili dagli stessi utilizzati, nell'ambito delle rispettive disponibilità finanziarie, con le modalità di cui all'articolo 78, comma 6, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 e successive modifiche ed integrazioni. Per le predette finalità, l'Assessorato regionale del lavoro, della previdenza sociale, della formazione professionale e dell'emigrazione è autorizzato a corrispondere ai citati enti un incentivo una tantum pari ad un importo massimo di 30 migliaia di euro per ciascun lavoratore assunto, che viene proporzionalmente ridotto nel caso di assunzioni part-time”.
A sua volta, l’art. 77 della l.r. 17/2004 affermava che: “1. Per l'anno 2005, al fine di garantire specifiche esigenze istituzionali, le disposizioni limitative alle assunzioni negli enti locali e negli enti soggetti a controllo e vigilanza della Regione non trovano applicazione per le assunzioni dei lavoratori destinatari del regime transitorio dei lavori socialmente utili, nei limiti delle dotazioni organiche e fermo restando il rispetto del patto di stabilità regionale e nazionale”.
Ancora, l’art. 6 della l.r. 24/2010 disponeva che: “1. Le amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 5, nel rispetto delle disposizioni di cui ai commi 10, 11 e 12 dell’articolo 17 del decreto legge 1 luglio 2009, n. 78, convertito con modificazioni dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, nonché nel rispetto degli istituti e dei principi previsti dal decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 e della programmazione triennale del fabbisogno del personale, nei limiti di quanto previsto dai rispettivi ordinamenti, e nel rispetto dei limiti di cui al comma 1 dell’articolo 13 della presente legge nonché delle disposizioni di cui al comma 557 dell’articolo 1 della legge 27 dicembre 2006, n. 296 e successive modifiche ed integrazioni, possono procedere alla stabilizzazione del personale destinatario del regime transitorio dei lavori socialmente utili di cui al fondo unico del precariato istituito dall’articolo 71 della legge regionale 28 dicembre 2004, n. 17”, mentre all’art. 7, si legge che: “1. Nelle more dell’attuazione delle procedure di stabilizzazione, permanendo il fabbisogno organizzativo e le comprovate esigenze istituzionali volte ad assicurare i servizi già erogati, le amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 5, secondo le disposizioni di cui ai commi 24 bis e 24 ter dell’articolo 14 del decreto legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito con modificazioni dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, possono proseguire per l’anno 2011 e per l’anno 2012, e comunque nei limiti degli stanziamenti di bilancio, in costanza di rapporto, i contratti in essere alla data di entrata in vigore della presente legge, del personale destinatario del regime transitorio dei lavori socialmente utili di cui al fondo unico del precariato istituito dall’articolo 71 della legge regionale 28 dicembre 2004, n. 17”.
Come si vede, la stabilizzazione era prevista ab origine anche attraverso appositi finanziamenti regionali ed è, ovviamente, rimessa alla volontà dell’Ente.
Analoghe disposizioni erano previste per i lavoratori il cui rapporto veniva, negli anni, trasformato in contratto a termine.

3. Risulta così abbastanza chiaro che la legislazione siciliana si muoveva nel senso di favorire l’assunzione definitiva dei lavoratori impegnati in attività socialmente utili, mettendo a disposizione degli enti pubblici utilizzatori strumenti idonei a favorire la loro stabilizzazione.
Nessun ente siciliano era obbligato a stabilizzare, ovviamente, ma neppure è certo che non decidesse di farlo (come poi è avvenuto negli ultimi anni, anche a seguito del contenzioso giudiziale instaurato dai lavoratori interessati e dalla approvazione della legge Madia del 2017) e proprio in considerazione del fatto che, come si è visto, la possibilità era espressamente prevista dalla legislazione in tema (la quale, anzi, era giunta prevedere e disciplinare la stabilizzazione come naturale conclusione del processo di utilizzo). 
È evidente che la permanenza del rapporto è condizione necessaria al fine di poter approfittare della stabilizzazione, tenuto conto che nulla vietava ai Comuni di rinunciare all’utilizzo di uno o più degli Asu (o dei contrattisti) in servizio.   Ciò in quanto nessun lavoratore in queste condizioni è tutelato nell’ipotesi nella quale agisca in giudizio per far valere i suoi diritti di natura economica (con conseguente danno per l’ente interessato), essendo facoltà di quest’ultimo di rinunciare alla proroga del rapporto socialmente utile (o del contratto a termine in corso) in qualunque momento, con ricollocazione dell’interessato nel relativo bacino di competenza, con perdita per il lavoratore della possibilità di essere stabilizzato dall’Ente utilizzatore, ovvero di stabilizzare solo un certo numero di lavoratori o unicamente quelli con certe qualifiche o caratteristiche, con esclusione di una parte di essi.
Né può replicarsi che se si trattasse di una discriminazione ritorsiva potrebbe consentirsi la ricostituzione del rapporto, posto che il mancato rinnovo può agevolmente imputarsi, da parte dell’ente, a problemi di organico o ad altri di natura istituzionale difficilmente sindacabile in sede giudiziaria, sicché la prova per il lavoratore può presentarsi diabolica, così come nel caso del lavoratore privato post Jobs Act, a fronte di un recesso di natura economica (v. punto 6 e punto 8 della citata Cass. 26246/2022), essendo evidente che la permanenza del rapporto è condizione necessaria al fine di poter approfittare della stabilizzazione, ne consegue sussistenza del metus con, seguendo il ragionamento delle SS.UU, la conseguente interruzione della prescrizione sino all’avvenuta stabilizzazione o alla certezza che questa non verrà mai effettuata.

4. Situazione non dissimile ha riguardato il personale del Ministero degli Interni assunto nel periodo dal 2002 al 2005 negli Uffici immigrazione istituiti dalla legge Bossi-Fini (legge 30 luglio 2002, n. 189), dapprima come lavoratori somministrati e, nel 2008, assunti con un concorso come lavoratori a termine.
Il relativo bando di concorso, all’art. 4, comma 9 ter, del d.l. 31.8.2013 n. 101, così disponeva: «9-ter. Per assicurare il mantenimento dei necessari standard di funzionalità dell'Amministrazione dell'interno, anche in relazione ai peculiari compiti in materia di immigrazione, il Ministero dell'interno è autorizzato a bandire procedure concorsuali riservate al personale individuato dalle disposizioni di cui ai commi 4 e 5 dell'articolo 4 del decreto-legge 21 maggio 2013, n. 54, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 luglio 2013, n. 85, nel rispetto dei requisiti soggettivi di cui al comma 6 del presente articolo. Fino al completamento della procedura assunzionale, alla quale si applica il limite del 50 per cento delle risorse finanziarie disponibili, sulla base delle facoltà assunzionali previste dalla legislazione vigente, è autorizzata la proroga dei contratti a tempo determinato relativi allo stesso personale nei limiti numerici e finanziari individuati con decreto del Ministro dell'interno, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, entro il 30 novembre di ciascun anno. All'onere relativo alle predette proroghe, nel limite massimo di 20 milioni di euro annui, si provvede mediante utilizzo di quota parte delle entrate di cui all'articolo 18, comma 1, lettera a), della legge 23 febbraio 1999, n. 44, che sono annualmente riassegnate ai pertinenti capitoli dello stato di previsione del Ministero dell’interno (21)».
Dunque, è evidente che a partire dall’agosto 2013 si è interrotta la prescrizione in corso, in considerazione della disposta proroga dei contratti in essere presso il Ministero, finalizzata alla loro già prevista stabilizzazione, poi avvenuta, infatti, attraverso l’immissione diretta nell’organico del Ministero negli anni successivi.
Non è così rinvenibile nella specie la consapevolezza di non avere alcun diritto ad una stabilizzazione posto che il legislatore l’aveva già prevista e disposta come certa e prossima negli anni a venire, come in effetti è avvenuto per tutti gli addetti agli Uffici immigrazione.
È invece apprezzabile il timore che eventuali contenziosi potessero portare al mancato rinnovo del contratto (con la perdita della possibilità di essere stabilizzati), anche qui con la conseguenza della sospensione della decorrenza della prescrizione per tutta la durata del rapporto sino al momento dell’avvenuto suo consolidamento attraverso l’assunzione definitiva.

5. Un terzo caso riguarda una categoria le cui vicende sono ben note negli ultimi anni a tutti gli operatori del diritto.
La durata dell’incarico di Giudice di pace era disciplinata, in origine dalla l. 374/1991 la quale, all’art. 7, co. 1 prevedeva che: “1. In attesa della complessiva riforma dell'ordinamento dei giudici di pace, il magistrato onorario che esercita le funzioni di giudice di pace dura in carica quattro anni e può essere confermato per un secondo mandato di quattro anni e per un terzo mandato di quattro anni. I giudici di pace confermati per un ulteriore periodo di due anni in applicazione dell'articolo 20 della legge 13 febbraio 2001, n. 48, al termine del biennio possono essere confermati per un ulteriore mandato di quattro anni, salva comunque la cessazione dall'esercizio delle funzioni al compimento del settantacinquesimo anno di età”.
La durata degli incarichi è poi stata regolata dal d.lgs. 116/2017 che, all’art. 29, disponeva che: “1. I magistrati onorari in servizio alla data di entrata in vigore del presente decreto possono essere confermati a domanda sino al compimento del settantesimo anno di età”.
La loro disciplina è poi oggi stata sostituita, come è noto, dall’art. 1, co. 629, della legge di bilancio 2022, che ha modificato l’art. 29 (e in minima misura l’art. 30) del d.lgs. 116/2017, introducendo una nuova disciplina per l’esaurimento del contingente dei magistrati onorari in servizio (in vista dell’introduzione di nuove figure di magistrati onorari).
I magistrati onorari in servizio hanno, in primo luogo, la possibilità di vedersi confermati “a domanda sino al compimento del settantesimo anno d’età” (co. 19). A tal fine, sono approntate tre procedure valutative (rispettivamente, per il 2022, per il 2023 e per il 2024), indette con delibera dal Consiglio Superiore della Magistratura. All’esito di tale procedura (da svolgersi su base circondariale secondo la disciplina di cui al co. 4), i magistrati onorari che abbiano conseguito con successo la conferma saranno inquadrati secondo il trattamento economico di cui ai co. 6 e 7 (a seconda che optino per il regime di esclusività delle funzioni onorari), parametrato “allo stipendio e alla tredicesima mensilità, spettanti alla data del 31 dicembre 2021 al personale amministrativo giudiziario di Area III”. Insomma, gli interessati saranno equiparati, di fatto, a funzionari giudiziari presso il Ministero della Giustizia.
Qui non entriamo, ovviamente, nel merito di tale riforma, limitandoci a rilevare come, dal 1991 ad oggi, di fatto i giudici di pace abbiano goduto della garanzia di poter rimanere a svolgere i loro compiti e mantenere il loro rapporto di servizio, sino a giungere, di fatto, ad una vera e propria stabilizzazione.
Anche in questo caso, pare arduo escludere l’esistenza del metus, ovvero del presupposto sulla base del quale le Sezioni Unite escludono possa operare la sospensione della prescrizione, posto che un’eventuale azione giudiziale avrebbe potuto portare al mancato rinnovo del loro incarico, con provvedimenti la cui impugnabilità, avanti alla magistratura amministrativa, attesa la ampia discrezionalità connaturata a valutazioni di idoneità e adeguatezza allo svolgimento del relativo ruolo o compito, non garantisce certamente la sicurezza del ripristino del rapporto.
Ricordo infine, ma solo fuggevolmente, la questione della prescrizione dei crediti previdenziali dei pubblici impiegati, com’è noto sospesa ex art. 3, co. 10 bis, della legge 335/1995, con numerose proroghe succedutesi nel corso degli anni, per ora fino al 31.12.2024 (ex art. 1, comma 16, lett. A, d.l. 30.12.2023, n. 215). La questione andrebbe sicuramente approfondita, ma qui mi limito a condividere la divertente situazione in cui ci si trova leggendo le costituzioni in causa dell’Inps, dove, a seconda della sede giudiziaria e dell’avvocato designato a trattare la causa, si sostiene l’effettività della sospensione o la si nega, in attesa del consolidarsi di una giurisprudenza sul punto.

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