TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. La lettura tradizionale dell’art. 36 cost..

Da sempre, l’art. 36 cost. contrappone due categorie di difficile conciliazione, come la sufficienza e la proporzione del trattamento economico alla qualità e alla quantità del lavoro, nonostante tali profili siano in reciproca tensione. La disposizione mira a una protezione della persona, nella sua dimensione sociale, congiungendo aspetti etici e professionali, e l’art. 36 cost. è una norma precettiva, di diretta efficacia nei rapporti privati, con il rinvio ai minimi tabellari, affinché sia determinato il trattamento dovuto a ciascuno. Questa concezione è stata inevitabile in un ordinamento privo di un meccanismo di attribuzione di efficacia generale ai negozi di categoria. Anche nell’ipotesi di applicazione di un accordo scelto dal datore di lavoro, l’art. 36 cost. opera a garanzia del livello retributivo di base, per scoraggiare una intensa concorrenza ai danni dei prestatori di opere. Tali criteri sono stati confermati dalla recente giurisprudenza, a ribadire l’inutilità di una fissazione legale della remunerazione minima.
Infatti, “il primo comma dell'art. 2070 cod. civ. non agisce nei riguardi della contrattazione di diritto comune, che ha efficacia vincolante limitata agli iscritti e a coloro che all’accordo abbiano prestato adesione. Pertanto, nell'ipotesi di un rapporto regolato dal negozio proprio di un settore non corrispondente a quello dell'attività svolta, il lavoratore non può aspirare all'applicazione di una intesa diversa se il datore di lavoro non vi sia obbligato per appartenenza sindacale, ma solo richiamare tale disciplina come termine di riferimento, ai sensi dell’art. 36 cost., deducendo la mancata conformità al precetto costituzionale del trattamento economico” .
Quindi, l’art. 36 cost. è centrale; se, in modo legittimo, un datore di lavoro richiama un accordo di una differente area merceologica, come può accadere, vista l’inesistenza di vincoli desumibili dall’art. 2070 cod. civ., l’art. 36 cost. ha le medesime conseguenze, con una indiretta valorizzazione costituzionale della categoria, ai soli fini della selezione del trattamento minimo. Persino la libertà sindacale trova una deroga di fronte all’art. 36 cost., che garantisce la parità di trattamento nell’area merceologica a livello nazionale a proposito della retribuzione di base e si impone su qualunque, diversa decisione dell’impresa. Per lo meno ai fini dell’identificazione dei minimi tabellari, la libertà sindacale negativa subisce una limitazione, in quanto ciascun datore di lavoro deve applicare un contratto di categoria o, per lo meno, riconoscere un regime non inferiore a quello previsto dall’accordo più coerente sul piano merceologico.
La deviazione dall’art. 39 cost. è netta, ma inevitabile, perché, in questo limitato ambito, l’ordinamento antepone l’effettività della protezione dei prestatori di opere alla salvaguardia della libertà delle imprese. Fino all’ultima giurisprudenza, i due canoni della sufficienza e della proporzione finivano per coincidere e il singolo trovava protezione per un trattamento che, seppure ai livelli minimi, considerava la natura e l’impegno delle mansioni. Fuori da tale salvaguardia, resta solo il diritto all’applicazione delle migliori clausole degli accordi individuali, aziendali o territoriali, e anche di quelle del contratto nazionale, nelle parti non rientranti nell’oggetto dell’art. 36, primo comma, cost.. In secondo luogo, la mancata identificazione legale della retribuzione sufficiente la rende diversa per le varie categorie. Per funzioni omogenee, in differenti settori, resta articolato il compenso idoneo a tutelare la dignità del dipendente e la stessa libera esistenza della sua famiglia.
Nel suo connettersi con l’art. 36, primo comma, cost., l’accordo di categoria non reca un principio di uguaglianza, con l’opposta consacrazione delle disomogeneità proprie di ciascuna area, legate alla tradizione più che all’innovazione e ad ambiti negoziali consolidati e, dunque, ai rispettivi livelli di benessere. L’art. 36, primo comma, cost. mette in discussione la stessa categoria, poiché i suoi confini determinano quelli dell’operare di diverse retribuzioni sufficienti, in contrasto con la naturale, seppure irrealizzata aspirazione a una concezione universalistica della giustizia distributiva. In carenza di una determinazione legale della categoria, impossibile per un implicito vincolo costituzionale, nel sistema attuale, dopo il superamento dell’ordinamento corporativo e il venire meno di poco fortunate sperimentazioni, come quelle della legge Vigorelli, l’applicazione dell’uno o dell’altro contratto dipende dalle libere determinazioni collettive, ma ha un impatto pesante sulla protezione costituzionale del prestatore di opere.
Tali impostazioni sono state in parte contraddette dalle ultime sentenze, peraltro in linea con le tesi tradizionali sul riconoscimento di un potere del giudice di determinazione della remunerazione dovuta, nonostante le indicazioni consensuali. Alla stregua dell’art. 36, primo comma, cost., il giudice può utilizzare la disciplina di una area diversa, “a semplici fini parametrici o di raffronto” . Proprio per il rilievo del contratto nazionale, “il potere di emettere una decisione secondo equità si differenzia da quello di determinare la retribuzione” e, nel primo caso, la sentenza è adottata a prescindere dallo stretto diritto e presuppone l'istanza delle parti, mentre, nel secondo, non è necessaria alcuna richiesta apposita e la pronuncia “è assunta secondo le norme di diritto” .
In definitiva, “il giudice può prendere a parametro il contratto anche se il datore di lavoro non aderisce all'associazione stipulante” , perché tale richiamo identifica la retribuzione; anzi, questo è il valore del consueto orientamento sull’art. 36, primo comma, cost., con la sanzione pretoria del valore anticoncorrenziale delle clausole sul cosiddetto “minimo costituzionale”. Qualora il giudice si voglia discostare dall’accordo in astratto applicabile, “deve fornire adeguata motivazione, ed è onere del datore di lavoro indicare gli elementi dai quali risulti l'inadeguatezza in eccesso delle retribuzioni previste, in considerazione di situazioni locali o della qualità della prestazione offerta” .
L’art. 36 cost. è il cardine dell’intero sistema, perché fonda il risalto delle intese nazionali e, al tempo stesso, comporta più retribuzioni sufficienti, con una programmata e strutturale diversificazione. Se l’interpretazione dell’art. 36 cost. è ormai scontata, perché tutela tutti i lavoratori, anche quelli in condizioni di illegittimità completa, e conferisce loro una diretta e incisiva azione, a presidio del loro interesse patrimoniale, per converso urta contro la nostra sensibilità una asimmetrica protezione della dignità e della libertà del dipendente e della sua famiglia, in contrasto con opposte idee universalistiche. Se mai, la tradizione e i modelli organizzativi delle associazioni sindacali e di quelle dei datori di lavoro rendono inevitabile la conclusione di molti contratti nazionali. L’assetto attuale delle categorie dipende dall’abitudine e la definizione della retribuzione non è il frutto di una pianificazione, seppure consensuale; anzi, la tradizione sovente sconsiglia un ripensamento critico, per stanchezza e per il timore del rovesciamento di condotte abituali. Non mancano le novità nell’articolazione dei contratti, ma sono rare. In difetto, non si comprenderebbe la frequente applicazione alle imprese informatiche dell’accordo per quelle metalmeccaniche, riflesso del tempo nel quale l’attività di ufficio sfruttava la macchina da scrivere.

2. Le ultime decisioni sul contratto collettivo dei cosiddetti servizi fiduciari.

Rispetto all’art. 36 cost., il valore dell’uguaglianza dovrebbe avere un risalto determinante, poiché viene in discussione la dimensione della persona e della sua dignità sociale, cioè la componente estranea a logiche di scambio. Tuttavia, per una sorta di ragione di Stato e, cioè, per un tributo all’effettività, l’applicazione dell’art. 36, primo comma, cost. non è solo estranea alle fonti eteronome, ma è basata sulla disomogeneità programmata del trattamento. Da un lato, viene meno qualunque pretesa universalistica. Dall’altro, il negoziato mantiene la sua intrinseca connotazione privatistica e sfugge alla funzionalizzazione.
Per le imprese diffuse sull’intero territorio nazionale, la determinazione omogenea della remunerazione minima conferisce grandi vantaggi ed è un po’ sterile indagare su come si compongano il principio di sufficienza e quello di proporzione della retribuzione alla qualità e alla quantità del lavoro, poiché su tale dilemma domina il riferimento dell’art. 36 cost. ai minimi, differenti nelle aree merceologiche. Se l’art. 36 cost. vuole specificare un regime “non commisurato soltanto alla quantità e alla qualità del lavoro prestato, ma (…) altresì adeguato alle esigenze minime di vita (…) del lavoratore e della sua famiglia” , tali differenti funzioni sono perseguite con il rinvio alle clausole negoziali . Se si guarda alla sintesi degli interessi negli ultimi… settanta anni, in carenza di interventi eteronomi significativi, l’art. 36 cost. regola prima di tutto (e, forse, solo) l’efficacia soggettiva dei contratti su una parte limitata del loro oggetto .
A conferma della completa inutilità di un intervento normativo sulla fissazione della retribuzione minima (con l’unico, plausibile risultato di un indebolimento della contrattazione collettiva), le recenti sentenze hanno riproposto una visione universalistica della tutela dell’art. 36 cost., in linea con la giurisprudenza tradizionale, ma con l’innovativa ricerca della remunerazione sufficiente in difformità dalle indicazioni dei negozi sindacali . Il caso era singolare, per la presenza di molti prestatori di opere addetti ad attività di semplice attesa, i portieri di grandi complessi immobiliari, con un fare ridotto al minimo e la mera custodia dei locali, senza la loro pulizia e, per lo più, con interventi sporadici in caso di inconvenienti o situazioni sorprendenti. A differenza delle guardie giurate, tali dipendenti non hanno in dotazione alcuna arma, sono seduti per la netta maggioranza del tempo e spesso si possono dedicare alla lettura o alla consultazione di apparati informatici, come è nella logica del servizio loro demandato. Quindi, in forza del criterio di proporzione, il contratto collettivo aveva immaginato una remunerazione molto contenuta, anche perché, in difetto, il datore di lavoro non avrebbe avuto troppo interesse alla conservazione di tali collocazioni professionali.
Le decisioni della Suprema Corte erano inevitabili , proprio per l’entità del compenso, in relazione a varie forme di sostegno del reddito, con la corresponsione di importi simili o persino superiori per chi non svolga alcuna attività. Del resto, la guardia compiuta presso gli stabili del datore di lavoro rientra nell’orario ; ora, dopo le note sentenze, sufficienza e proporzionalità non coincidono più, per i livelli minimi della remunerazione, con il superamento della prassi precedente e con la valorizzazione di un compenso di base necessario. Tuttavia, nonostante la ravvisata contrarietà delle clausole all’art. 36 cost., le critiche rivolte ai sindacati stipulanti sono ingenerose, poiché, almeno, i loro negozi consideravano la proporzione fra il salario e il livello qualitativo del fare e le numerose decisioni dei giudici di merito e di legittimità hanno portato a una progressiva, ma drastica riduzione del ricorso a portieri nei grandi stabili con immobili destinati alla locazione. Quindi, a bassa remunerazione, con competenze corrispondenti, le opportunità occupazionali si sono ridotte in fretta.
L’identificazione di una retribuzione sufficiente quale limite all’operare del criterio di proporzione corrisponde non solo all’interpretazione letterale dell’art. 36 cost. (“comunque”), ma a quella sistematica, poiché la norma vuole impedire che il nesso economico fra la qualità del fare e la sua remunerazione la abbassi oltre il limite della giustizia redistributiva. Le conclusioni sono fondate, ma la loro importanza non deve essere sopravvalutata. Per sua natura, presenta difficoltà la determinazione dell’equa retribuzione delle prestazioni di semplice attesa; per altro verso, i portieri dei grandi stabili non sono adibiti a compiti di fare nel senso attivo dell’espressone e, per esempio, non svolgono pulizie. Quindi, nel caso del contratto nazionale dei servizi fiduciari, la qualifica più bassa ha una insolita presenza di dipendenti, al contrario di quanto accada nella quasi totalità delle simili posizioni di inquadramento (quanti sono i lavoratori della qualifica A attivi nelle università degli studi?), nonostante improvvisati articoli apparsi sugli organi di stampa non se ne siano avveduti.
Fondamentale sul versante ricostruttivo, il principio di diritto delle recenti sentenze ha una portata applicativa contenuta. Se mai, il problema è dato dagli accordi sindacali di categorie in cui la remunerazione è limitata nonostante le mansioni siano molto più impegnative, come accade per gli operatori ausiliari o gli addetti a servizi socio – sanitari inquadrati nell’ambito delle intese delle società cooperative sociali. Invece, di immaginare un brutale intervento eteronomo di rideterminazione della remunerazione minima, il sistema politico si dovrebbe chiedere come mai… i suoi amministratori comunali (di qualunque organizzazione) cerchino di ridurre il corrispettivo degli appaltatori dei servizi assistenziali, così impedendo una equa retribuzione dei loro dipendenti e soci lavoratori.

3. Il contratto delle imprese cosiddette “multiservizi”, il trattamento economico per le qualifiche più basse e i relativi dubbi di coerenza con i principi costituzionali.

Si annuncia un nuovo terreno di scontro, con esiti imprevedibili, cioè la discussione sulla sufficienza dei minimi tabellari del contratto delle imprese cosiddette “multiservizi”, va da sé per le qualifiche più basse. A differenza di quanto accade per i portieri degli studentati, le attività coinvolgono molti prestatori di opere e l’eventuale rettifica giurisprudenziale della remunerazione di base metterebbe le imprese in seria difficoltà, per il numero di dipendenti coinvolti. A fronte di pronunce che invocano l’accordo quale legittimo termine di riferimento per l’attuazione dell’art. 36, primo comma, cost., per esempio affermando che “le società cooperative di produzione e lavoro non possono applicare il contratto collettivo nazionale stipulato dall’Associazione Cisal servizi, ma, per attività di pulizia, devono richiamare quello cosiddetto delle imprese multiservizi” , altre pronunce hanno opinioni opposte.
Non sorprendono e sono persuasive le affermazioni per cui, “qualora una società cooperativa svolga facchinaggio, si deve riferire al contratto collettivo delle imprese di logistica, non a quello cosiddetto delle imprese ‘multiservizi’, ai sensi dell’art. 3 della legge n. 142 del 2001” ; qui non si pone una questione di intrinseca insufficienza del trattamento, ma di incoerenza del negozio sindacale rispetto alle funzioni espletate . Se mai, desta sorpresa il conflitto interno a uno stesso organo giudiziario, per cui, da un lato, si è detto, “una impresa cooperativa deve attuare il contratto della sua associazione sindacale, in particolare quello cosiddetto delle imprese ‘multiservizi’”, così che, “in difetto di precise allegazioni del lavoratore, sulle ragioni dell’insufficienza del trattamento economico non si può ravvisare l’inadeguatezza delle previsioni di un accordo stipulato dalle maggiori organizzazioni sindacali” . Dall’altro lato, si è sostenuto, “il contratto collettivo cosiddetto delle imprese “multiservizi” presenta un trattamento economico non adeguato ai sensi dell’art. 36 cost.” . La drastica contrapposizione di opinioni preannuncia più estesi dubbi e una frattura nelle posizioni della giurisprudenza, se non altro per il numero di lavoratori coinvolti, il livello superiore della retribuzione rispetto a quella del contratto dei servizi fiduciari e la ragionevole preoccupazione delle difficoltà operative, se non della preannunciata insolvenza di molte aziende.
Non a caso, abbastanza di frequente, l’intesa sulle imprese cosiddette “multiservizi” è stata considerata rilevante come termine di paragone e, quindi, come esempio di una conclamata sufficienza, poiché, si è detto, “una società cooperativa di produzione e lavoro, aggiudicataria di una procedura di selezione e dedita all’attività di pulizia e di guardiania di un immobile, appunto come appaltatrice del servizio, non può applicare il contratto dei portieri e dei custodi di immobili, ma quello cosiddetto ‘multiservizi’, stipulato dalle associazioni delle imprese cooperative” , e lo stesso principio è stato enunciato a proposito di chi “sistemi gli scaffali in un esercizio commerciale” od offra i biglietti in un museo, per l’accesso ai locali .
Prima o poi divamperà lo scontro sindacale, con il trascinamento di quello giurisprudenziale; l’esito è imprevedibile, poiché, nonostante i tentativi del giudice di legittimità dell’autunno del 2023 di ancorare a dati oggettivi la valutazione sull’insufficienza della remunerazione, l’apprezzamento è discrezionale, se non libero. Il punto diverso a proposito del contratto delle aziende “multiservizi” non è solo la retribuzione in assoluto più alta, ma l’incidenza dei salari sull’andamento complessivo dell’iniziativa economica, conclusione irrealistica a proposito dei portieri dei cosiddetti studentati o, comunque, di complessi abitativi destinati alla locazione. L’eventuale, diffusa censura sull’inadeguatezza del trattamento sulla scorta del contratto per le imprese “multiservizi” le porterebbe al tracollo, con l’insolvenza di molte strutture, a maggiore ragione nell’attuale (singolare) contesto, per il mancato decorso del termine di prescrizione in pendenza del rapporto.

4. Il contratto delle imprese dedite al trasporto aeronautico, il trattamento economico degli assistenti di volo e la sufficienza della retribuzione.

Ancora più importante è stata la sentenza sul trattamento retributivo degli assistenti di volo, poiché “viola l’art. 36 cost.” . Si discute dei residui della vecchia compagnia di bandiera e degli ultimi contratti stipulati da Cgil, Cisl e Uil. La pronuncia sottolinea come la retribuzione sia prossima al reddito di cittadinanza, non lontana da quella dei portieri degli studentati, per una attività faticosa, che richiede la perfetta conoscenza dell’inglese e titoli abilitativi specifici, in sintonia con la regolazione pubblicistica, in Italia del Codice della navigazione. Una volta ambita, questa professione è ora divenuta una sorta di simbolo di categorie poco remunerate. A differenza del caso dei portieri, qui le mansioni sono impegnative, dal punto di vista fisico, psicologico e professionale (lunghi periodi in piedi, contatto con il pubblico, addestramento per il superamento di situazioni difficili nei rapporti con i viaggiatori, lontananza da casa, difficoltà a conservare normali relazioni familiari). Sebbene la condizione sia riferita ai dipendenti di quanto resta della vecchia compagnia di bandiera, la decisione desta molta sorpresa.
Vi è una sorta di sovvertimento della tradizione e il ritorno di una qualche “giungla retributiva”, questa volta nel settore privato, a usare una espressione cara a un mio concittadino. Anzi, tale… foresta sta diventando sempre più inospitale, se si accetta la metafora, al punto da coinvolgere prestatori di opere una volta ritenuti benestanti. La pronuncia ha risolto il problema sulla scorta del principio di sufficienza e, quindi, ha solo confermato i criteri della citata giurisprudenza di legittimità. Non si è interrogata sulla possibilità di un sindacato giudiziale sulla proporzione della retribuzione all’effettiva qualità delle prestazioni, compito finora lasciato al mercato e, quindi, alle scelte dei contratti collettivi. L’organizzazione moderna valorizza le competenze. Pertanto, la ricerca dell’utile aziendale ha luogo con un dialogo articolato con il dipendente, i negozi sindacali non sono spesso neppure il punto di partenza delle trattative individuali e le richieste dei lavoratori richiamano parametri di mercato lontani dai minimi. Se le organizzazioni sindacali non sono i custodi credibili della parità di trattamento, non lo può essere il giudice, senza il potere di vietare clausole migliorative, sulla base di inevitabili valutazioni soggettive . Nel sistema dei superminimi, non tutti i bravi hanno successo e molte ingiustizie sono commesse in modo quotidiano. Tuttavia, questa logica non ha alcuna credibile alternativa e il corrispettivo non è in funzione delle vere qualità, ma di quelle percepite e riconosciute. L’equilibrio è raggiunto in uno spazio vuoto di diritto e tutti, i lavoratori e le imprese, vogliono che rimanga tale.
I meccanismi di determinazione della retribuzione non riescono più a evitare che, per una larga area di persone collocate nei segmenti più bassi dell’organizzazione, la remunerazione sia contenuta, spesso in misura eccessiva, al punto che è a rischio la stessa dignità, seppure per soggetti assunti con contratti legittimi . Agli altri va ancora peggio. Ci si può chiedere se ciò dipenda dalla sfrenata competizione internazionale, che comprime i salari, in specie per chi sia impegnato in funzioni elementari, o da una oggettiva difficoltà delle associazioni sindacali nell’esercizio della rappresentanza. Esse dovrebbero cercare di raggiungere risultati meno insoddisfacenti nel riequilibrio delle opportunità di tutti i lavoratori.

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