TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
1. Il tentativo di revisione dell’istituto della decorrenza della prescrizione nell’impiego pubblico: l’ordinanza della Suprema Corte di Cassazione n. 6051 del 28 febbraio 2023.
Con l’ordinanza interlocutoria del 28 febbraio 2023, n. 6051, la Sezione Lavoro della Suprema Corte di Cassazione ha disposto la trasmissione del procedimento al Primo Presidente per l’eventuale rimessione alle Sezioni Unite delle seguenti questioni, ritenute di particolare importanza:
a) se la prescrizione dei crediti retributivi dei lavoratori nel pubblico impiego contrattualizzato debba decorrere dalla fine del rapporto di lavoro, a termine o a tempo indeterminato, o, in caso di successione di rapporti, dalla cessazione dell’ultimo, come accade nel lavoro privato;
b) se, nell’eventualità di abuso nella reiterazione di contratti a termine, seguita dalla stabilizzazione presso la stessa P.A. datrice di lavoro, la prescrizione dei crediti retributivi dei lavoratori nel pubblico impiego contrattualizzato debba decorrere dal momento di tale stabilizzazione;
c) se la prescrizione dei crediti retribuitivi dei lavoratori nel pubblico impiego contrattualizzato, nell’ipotesi sub b), sia comunque preclusa, interrotta o sospesa ove la P.A. neghi il riconoscimento del servizio pregresso dei dipendenti .
Con tale ordinanza di rimessione la Suprema Corte ha ritenuto necessaria una revisione dell’istituto della decorrenza della prescrizione dei crediti dei lavoratori dell’impiego pubblico che per decenni, è stato considerato dotato di maggiore stabilità rispetto a quello dei lavoratori privati sul presupposto plasmato dalla Corte Costituzionale nella sentenza del 10 giugno 1966, n. 63 .
L’esigenza di tale rivisitazione si è resa necessaria, evidentemente dal contesto sociale e normativo profondamente mutato rispetto all’epoca in cui si è pronunciata la Corte Costituzionale, ed è proprio sulla base della constatazione che i mutamenti normativi hanno notevolmente influito sul tradizionale orientamento giurisprudenziale in tema di prescrizione dei crediti retributivi che la Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto necessaria la revisione di un istituto appartenente ad un contesto giuridico ormai superato.
Prima di procedere all’analisi della problematica sottoposta alle Sezioni Unite e successivamente decisa dalle medesime, appare necessario accennare brevemente alla evoluzione giurisprudenziale che ha interessato il tema della decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi , tanto con riferimento ai rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato quanto con riferimento a quelli a tempo determinato.
Come noto, la sentenza della Corte costituzionale 10 giugno 1966, n. 63, focalizzandosi sulla condizione psicologica del lavoratore identificata nel timore del licenziamento, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 2948, n. 4, 2955, n. 2, e 2956, n. 1, c.c. ed ha introdotto la regola del differimento della decorrenza della prescrizione al momento della cessazione del rapporto di lavoro per tutti quei rapporti che non sono dotati «di quella resistenza, che caratterizza invece il rapporto d’impiego pubblico» .
Tale decisione è stata successivamente integrata dalla medesima Corte la quale ha delimitato il campo di applicazione inizialmente indicato . Ed infatti, in un primo momento, ha escluso dall’area di applicazione della regola del differimento della decorrenza della prescrizione i rapporti di lavoro intercorrenti sia con enti pubblici economici sia con enti pubblici non economici
In conseguenza delle novità introdotte dalla l. n. 604 del 1966 e dalla l. n. 300 del 1970, con la sentenza 12 dicembre 1972, n. 174, ha allargato la categoria dei rapporti caratterizzati dalla resistenza al timore del licenziamento ricomprendendovi anche tutti i rapporti di lavoro privato garantiti dalla c.d. tutela reale .
Successivamente agli interventi normativi che hanno modificato significativamente la disciplina dei licenziamenti individuali , la dottrina ha elaborato soluzioni contrastanti .
In un contesto giuridico contraddistinto da tale grado di incertezza è intervenuta la Suprema Corte di Cassazione, la quale, con la sentenza 6 settembre 2022, n. 26246, ha ritenuto di dover escludere che il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come regolato per effetto della l. n. 92/2012 e del d.lgs. n. 23/2015, sia assistito da un regime di stabilità . In ragione di ciò ha concluso che, nell’ambito dei rapporti di lavoro privato, il termine di prescrizione decorre dalla cessazione del rapporto di lavoro per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della l. n. 92/2012. Con riferimento, invece, ai rapporti di pubblico impiego contrattualizzato, la Corte di Cassazione, sempre nella sentenza del 6 settembre 2022, n. 26246, ha precisato che si possa escludere il metus del lavoratore in quanto la reintegrazione risulta effettivamente essere la sanzione «contro ogni illegittima risoluzione» in conseguenza della modifica apportata all’art. 63 d.lgs. n. 165/2001.
Fatta la necessaria premessa, occorre valutare attentamente le motivazioni che hanno indotto la Suprema Corte ad una rivisitazione dell’istituto della decorrenza della prescrizione dei crediti di lavoro nel rapporto di pubblico impiego per condividerne o meno la fondatezza giuridica delle argomentazioni addotte.
La necessità di approfondire l’orientamento tradizionale per il quale la prescrizione dei crediti retributivi nel pubblico impiego contrattualizzato decorre in costanza di rapporto sarebbe sollecitata, secondo la Corte di Cassazione, dal fatto che il contesto attuale è notevolmente diverso rispetto a quello esistente nell’epoca in cui si è sviluppata la giurisprudenza costituzionale in materia. Ciò, innanzitutto, perché la maggior parte del lavoro pubblico è stato contrattualizzato con l’entrata in vigore del d.lgs. n. 29/1993, successivamente sostituito dal d.lgs. n. 80/1998 e definitivamente trasposto nel d.lgs. n. 165/2001 ad oggi vigente con le modifiche apportate, e sottoposto alla regolamentazione della disciplina codicistica e normativa prevista per il rapporto di lavoro privato con alcune eccezioni .
La Corte si chiede, quindi, se sia ragionevole mantenere un sistema che individua un diverso regime della decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi dei lavoratori a seconda semplicemente della loro dipendenza da un datore privato piuttosto che pubblico, soprattutto in ragione del fatto che il nostro ordinamento si fonda sui principi di non discriminazione, di uguaglianza formale e sostanziale e di ragionevolezza.
Sotto un primo profilo, la Corte rileva che l’art. 63 d.lgs. n. 165/2001 che prevede la reintegrazione del pubblico impiegato nel caso di licenziamento illegittimo non integra nella nuova formulazione il perfetto ripristino della situazione precedente, avendo la norma limitato il risarcimento del danno per la perdita della retribuzione ad un massimo di ventiquattro mesi.
Evidenzia che si tratta, dunque, di un regime sanzionatorio sicuramente diverso rispetto a quello che caratterizzava l’originario testo dell’art. 18 St. Lav. e, in ogni caso, incapace di garantire il completo ripristino della posizione giuridica preesistente al licenziamento come, invece, richiesto per una completa stabilità del rapporto dalla Corte Costituzionale .
Sotto un secondo profilo, l’ordinanza di rimessione ritiene che anche con riferimento ai contratti di lavoro a tempo determinato sottoscritti nel pubblico impiego ci si trovi di fronte alla medesima situazione a quella prevista nel caso di reiterazione dei contratti di lavoro a tempo determinato nell’impiego privato in quanto, anche in questo caso si può agevolmente rintracciare l’esistenza di quella condizione psicologica di timore del lavoratore nell’esercizio dei propri diritti, dal momento che quest’ultimo sa bene che solo accettando la reiterazione potrà essere assunto dalla Pubblica Amministrazione.
Sotto un ulteriore profilo, inoltre, la Suprema Corte nell’ordinanza di rimessione rileva l’irragionevolezza del sistema stesso per il fatto di rendere eccessivamente difficile, se non praticamente impossibile, l’esercizio dei diritti derivanti dal riconoscimento dell’anzianità di servizio maturata dai lavoratori prima assunti a tempo determinato e poi stabilizzati. Ed infatti, a parere della Corte, se non venisse modificato il criterio della decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi si finirebbe per riconoscere un diritto privo di sostanza, in quanto il pericolo che corre il lavoratore è quello di ottenere il riconoscimento dell’anzianità di servizio dei contratti di lavoro a tempo determinato senza poi poter rivendicare integralmente le dovute differenze retributive, ormai in parte estinte a causa della decorrenza della prescrizione.
L’ordinanza di rimessione ritiene, altresì, che con il mutamento socio giuridico debba essere rivisto anche il concetto di metus del lavoratore limitato alla sola reintegrazione nel rapporto di lavoro illegittimamente risolto.
Rileva in particolare che il lavoratore vive in una costante e perenne condizione di timore rispetto al datore di lavoro, condizione determinata dal naturale squilibrio di forza contrattuale che, da sempre, caratterizza il rapporto di lavoro . Qualora si parta da questa diversa prospettiva, l’indagine sulla resistenza del rapporto di pubblico impiego dovrà necessariamente essere più ampia e, quindi, tenere conto anche di tutti gli altri elementi attinenti allo svolgimento del rapporto di lavoro, tra cui, ad esempio, l’abuso dell’esercizio dello ius variandi oppure il potere del datore di lavoro di trasferire i propri dipendenti o di tutti gli altri strumenti ritorsivi nella disponibilità del datore di lavoro come il mobbing e lo straining.
Sotto tale profilo l’ordinanza di rimessione rileva l’impossibilità di concludere che la previsione di un particolare regime sanzionatorio in caso di licenziamento illegittimo sia sufficiente ad escludere a priori il timore del lavoratore nell’esercizio dei propri diritti .
Dopo avere valutato la normativa interna, l’ordinanza di rimessione ritiene che la decorrenza della prescrizione nel pubblico impiego in costanza di rapporto di lavoro debba essere rivisitata anche alla luce dei principi generali forniti dalla Carta Costituzionale ed in particolare con riferimento al principio generale di correttezza dell’azione amministrativa ai sensi dell’art. 97 della nostra Carta. Invero, il comportamento del datore di lavoro pubblico non deve favorire, anche nell’esercizio di diritti riconosciuti dall’ordinamento interno, condotte non conformi ai principi di correttezza, soprattutto se tenute da soggetti particolarmente qualificati, come una P.A., nei confronti del proprio dipendente, nel quale sia stato ingenerato un legittimo affidamento in ordine all’esistenza o meno di pretese giuridiche.
Infine, l’ordinanza evidenzia che la decorrenza della prescrizione nel rapporto di lavoro pubblico non possa decorre in costanza del rapporto di lavoro, circostanza questa che desume dai principi comunitari i quali prevedono che bisogna tenere conto dei motivi del ritardo nella proposizione delle pretese giudiziali che, anche ai sensi dell’art. 6 CEDU, non devono trovare irragionevoli ostacoli nell’istituto della prescrizione, ma possono essere limitate solo in conseguenza di un’inerzia colpevole.
Con riferimento alla giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea, infine, rileva che secondo il massimo organismo giudiziario eurounitario, la prescrizione non decorre, pendente il rapporto, ogni qualvolta il datore di lavoro non abbia assicurato al dipendente la possibilità di esercitare il suo diritto (nella specie: alle ferie) . All’uopo, evidenzia la sentenza della Corte di Giustizia del 22 settembre 2022, in causa C-120/21, con la quale si afferma che «L’articolo 7 della direttiva 2003/88/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 4 novembre 2003, concernente taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro, e l'articolo 31, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea devono essere interpretati nel senso che: ostano a una normativa nazionale in forza della quale il diritto alle ferie annuali retribuite maturato da un lavoratore in un periodo di riferimento si prescrive alla scadenza di un termine di tre anni che comincia a decorrere alla fine dell'anno in cui tale diritto è sorto, qualora il datore di lavoro non abbia effettivamente posto il lavoratore in grado di esercitare il diritto summenzionato».
Queste sostanzialmente risultano essere le motivazioni contenute nell’ordinanza di rimessione con la quale la Sezione Lavoro ha chiesto alle Sezioni Unite una rivisitazione della disciplina della decorrenza della prescrizione del rapporto di impiego pubblico.
2. La cristallizzazione dell’istituto dopo l’intervento delle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 36197 del 28 dicembre 2023: i limiti della pronuncia.
L’ordinanza di rimessione è stata oggetto di valutazione da parte delle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 36197 del 18 dicembre 2023 la quale ha indicato il seguente principio di diritto «La prescrizione dei crediti retributivi dei lavoratori nel pubblico impiego contrattualizzato decorre sempre – tanto in caso di rapporto a tempo indeterminato, tanto di rapporto a tempo determinato, così come di successione di rapporti a tempo determinato – in costanza di rapporto (dal momento di loro progressiva insorgenza) o dalla sua cessazione (per quelli originati da essa), attesa l’inconfigurabilità di un metus. Nell’ipotesi di rapporto a tempo determinato, anche per la mera aspettativa del lavoratore alla stabilità dell'impiego, in ordine alla continuazione del rapporto suscettibile di tutela» .
La decisione delle Sezioni Unite cristallizza l’istituto della decorrenza della prescrizione durante il rapporto di lavoro nell’impiego pubblico lasciando, però, irrisolti molti aspetti rilevati dalla ordinanza di rimessione.
Le problematiche che avevano portato ad una rimeditazione della materia avevano ad oggetto tre tipi di argomentazioni.
La prima di carattere giuridico interno e di confronto con la mutata regolamentazione della materia (contrattualizzazione dell’impiego pubblico) nonché con la nuova realtà del mondo del lavoro nella quale la soggezione nel rapporto tra dipendente e datore (metus) non sarebbe dipendente solo dalla eventuale reintegrazione nel posto di lavoro ma anche da fattori diversi (mutamento di mansioni, trasferimenti, mobbing).
La seconda di carattere costituzionale e, cioè, presupponendo quel principio generale di correttezza di cui all’art. 97 della nostra Carta il quale, proprio nel caso delle pubbliche amministrazioni, deve favorire, la sicurezza del lavoratore di poter esercitare e far valere i propri diritti.
La terza di carattere comunitario dovendo il diritto interno uniformarsi a quelli che sono i principi generali dettati dalla normativa e dalla giurisprudenza comunitaria, la quale muove dal diverso presupposto che la prescrizione non può limitare un diritto del lavoratore qualora il medesimo non sia stato formalmente informato che non esercitandolo perderà inevitabilmente quel diritto.
Orbene, delle tre diverse argomentazioni le Sezioni Unite ne hanno poste al proprio vaglio solo due, lasciando inevasa la dimensione comunitaria che già sulla materia aveva dato indicazioni .
Con riferimento al diritto interno e alla evoluzione normativa in materia di prescrizione, le Sezioni Unite sono rimaste ancorate alla iniziale decisione della Corte Costituzionale e alle successive integrazioni nonché ai principi dettati originariamente dalla medesima Suprema Corte .
Con riferimento al metus del lavoratore ribadiscono l’inconfigurabilità di una situazione psicologica di soggezione del dipendente pubblico tenuto conto della stabilità del rapporto di lavoro che prevede la reintegrazione nel caso di illegittima risoluzione del rapporto medesimo . In particolare, le Sezioni Unite precisano come assuma rilevanza essenziale, quale criterio discretivo ai fini di individuazione della decorrenza del termine di prescrizione, proprio il metus .
Orbene, la decisione sotto alcuni profili appare conforme ai principi generali del nostro ordinamento. In effetti, il mutato quadro giuridico, a parere di chi scrive, non ha totalmente uniformato la disciplina del rapporto di lavoro tra pubblico e privato.
Il legislatore con il d.lgs. n. 165/2001 ha introdotto una specifica regolamentazione del rapporto di lavoro pubblico, inapplicabile al rapporto privatistico che va addirittura a regolare in modo differente identici istituti .
Anche la tutela reale (reintegrazione nel posto di lavoro nel caso di illegittima risoluzione del rapporto da parte del datore) prevista dall’art. 63 d.lgs. n. 165/2001 risulta conforme alla precedente disciplina tenuto conto del fatto giuridico che i procedimenti di licenziamento dinanzi al Giudice del lavoro seguono un iter privilegiato e si risolvono normalmente in un anno dalla loro introduzione.
Persino la valutazione delle norme costituzionali (art. 97 Cost.) non sembra deporre a favore di una equiparazione tra rapporto di lavoro pubblico e rapporto di lavoro privato, considerando ormai diritto vivente la granitica e consolidata giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione in materia di assunzione nell’impiego pubblico e di risarcimento del danno per violazione del termine apposto ai contratti di lavoro a tempo determinato per intrasformabilità dei medesimi in rapporti di lavoro a tempo indeterminato .
Per ciò che riguarda, invece, la motivazione di una revisione della materia con riferimento ai profili comunitari, le Sezioni Unite non hanno fornito alcuna valutazione, lasciando dunque impregiudicate tutte le considerazioni contenute nell’ordinanza di rimessione limitandosi a riconoscere di non poter sottacere, ai sensi dell’art. 6 della CEDU «l’essenziale tutela dell’accesso al giudice…».
Sotto tale profilo, pertanto, la decisione risulta parziale e non risolve la problematica sollevata dall’ordinanza di rimessione di una revisione del sistema della decorrenza della prescrizione in costanza di rapporto nel pubblico impiego, lasciando impregiudicata ogni discussione.
A parere di chi scrive la decisione di non valutare l’istituto sotto il profilo delle norme comunitarie nasce dalla consapevolezza delle medesime Sezioni Unite di non intervenire in una materia che potrebbe avere risvolti economici tali da incidere sul bilancio pubblico .
Orbene, a prescindere dalla neutralità della magistratura alle vicende economiche dello Stato, risulta nella giurisprudenza comunitaria principio generale secondo cui l’azione giudiziaria per il riconoscimento di diritti non può essere limitata dall’intervento normativo o giudiziario a salvaguardia del bilancio pubblico .
A questi principi si è recentemente adeguata anche la Corte Costituzionale secondo la quale i soli motivi finanziari, volti a contenere la spesa pubblica o a reperire le risorse per far fronte a esigenze eccezionali, non bastano a giustificare un intervento legislativo destinato a ripercuotersi sui giudizi in corso .
La mancata valutazione da parte della Sezioni Unite di una rivisitazione dell’istituto sotto il profilo della giurisprudenza comunitaria dimostra la forza delle argomentazioni proposte con l’ordinanza di rimessione, anche per la diversa prospettiva da cui partono dovendo il nostro sistema giuridico interno adeguarsi alla superiore disciplina unionale.
3. La diversa prospettiva in materia di decorrenza della prescrizione dei diritti del lavoratore fornita dalla normativa e dalla giurisprudenza comunitaria: brevi riflessioni.
Con l’ordinanza di rimessione la Suprema Corte di Cassazione propone per la prima volta nel nostro ordinamento una lettura innovativa del rapporto esistente tra lavoratore e datore di lavoro pubblico, spostando il centro dell’attenzione del rapporto medesimo dal metus alla tutela dell’esercizio del diritto che deve essere sempre ed in ogni caso garantito.
La diversa prospettiva comporta necessariamente, anche la rivisitazione di istituti quali quello della prescrizione che non deve essere uno strumento impeditivo per l’esercizio del diritto.
Tale valutazione non solo risulta condivisibile ma anche la sola che possa adeguare l’ordinamento nazionale alle normative ed ai principi dettati dalle Istituzioni Europee.
La tutela della retribuzione, infatti, è stata da ultimo disciplinata con la direttiva UE 2019/1152 del 20 giugno 2019 relativa a condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili nell’Unione Europea, la quale, al 20° considerando, ha stabilito che «Le informazioni da fornire sulla retribuzione dovrebbero includere tutti gli elementi della retribuzione indicati separatamente, compresi, se del caso, i contributi in denaro o in natura, il pagamento del lavoro straordinario, i premi e altri compensi, percepiti direttamente o indirettamente dal lavoratore per il suo lavoro. La comunicazione di tali informazioni non dovrebbe pregiudicare la libertà del datore di lavoro di prevedere ulteriori elementi della retribuzione quali i pagamenti una tantum. Il fatto che elementi della retribuzione dovuti a norma di legge o di un contratto collettivo non siano stati inclusi in tali informazioni non dovrebbe costituire un motivo per non fornirli al lavoratore» .
Ancor più pregnante e diretta appare la tutela contenuta nella direttiva UE 2023/970 del 10 maggio 2023 volta a rafforzare l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra uomini e donne per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore attraverso la trasparenza retributiva e i relativi meccanismi di applicazione , con particolare riferimento all’art. 21 nel quale regola l’istituto della prescrizione, stabilendo che «I termini di prescrizione non iniziano a decorrere prima che la parte ricorrente sia a conoscenza, o si possa ragionevolmente presumere che sia a conoscenza, di una violazione» .
Risulta, pertanto, evidente come il diritto comunitario in materia di tutele del lavoro abbia spostato definitivamente il centro delle proprie attenzioni dal metus alla praticabilità del diritto vantato che non deve essere reso difficile nel proprio esercizio nemmeno da discipline legislative quali quelle in materia di prescrizione.
Sul punto, infatti, si è recentemente pronunciata la Corte di Giustizia Europea, la quale proprio con riferimento alla normativa tedesca che prevede la prescrizione delle ferie del lavoratore entro tre anni dalla data del mancato esercizio del diritto ha rilevato che «L’articolo 7 della direttiva 2003/88/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 novembre 2003, concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro, e l’articolo 31, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea devono essere interpretati nel senso che:
ostano a una normativa nazionale in forza della quale il diritto alle ferie annuali retribuite maturato da un lavoratore in un periodo di riferimento si prescrive alla scadenza di un termine di tre anni che comincia a decorrere alla fine dell’anno in cui tale diritto è sorto, qualora il datore di lavoro non abbia effettivamente posto il lavoratore in grado di esercitare il diritto summenzionato» .
Più in particolare, la Corte di Giustizia Europea ritiene che non si possa ammettere, con il pretesto di garantire la certezza del diritto, che il datore di lavoro possa far valere il proprio inadempimento per trarne beneficio nell’ambito del ricorso di tale lavoratore sulla base del medesimo diritto, eccependo la prescrizione di quest’ultimo.
Infatti, da un lato, la Corte evidenzia che in un’ipotesi del genere, il datore di lavoro potrebbe esimersi dagli obblighi di sollecito e di informazione ad esso incombenti.
Dall’altro, ribadisce che una siffatta esenzione apparirebbe ancor meno accettabile in quanto significherebbe che il datore di lavoro, il quale potrebbe in tal modo validamente eccepire la prescrizione del diritto alle ferie annuali del lavoratore, si sarebbe astenuto dal porre il lavoratore in condizione di esercitare effettivamente tale diritto per tre anni consecutivi.
La Corte rileva ulteriormente che quando il diritto del lavoratore alle ferie annuali retribuite è prescritto, il datore di lavoro si avvantaggia di una simile circostanza.
La Corte, infine, conclude evidenziando che in tali circostanze, ammettere che il datore di lavoro possa invocare la prescrizione dei diritti del lavoratore, senza averlo effettivamente posto in condizione di esercitarli, equivarrebbe a legittimare un comportamento che causa un arricchimento illegittimo del datore di lavoro a danno dell’obiettivo stesso del rispetto della salute del lavoratore di cui all’art. 31, paragrafo 2, della Carta .
Orbene, si potrebbe obiettare che il principio sancito dalla Corte di Giustizia debba essere limitato alla fattispecie contemplata e cioè alle ferie del lavoratore che trovano una specifica disciplina nell’ordinamento comunitario.
Tale eccezione però risulterebbe priva di pregio giuridico sotto due distinti profili.
Il primo perché la disciplina comunitaria ha ormai regolato anche i diritti retributivi del lavoratore con le direttive sopra riportate, le quali prevedono espressamente un obbligo di informazione sulla materia e sulla eventuale perdita del diritto alla retribuzione medesima prevedendo peraltro la decorrenza del termine di prescrizione solo dalla formale comunicazione da parte del datore di lavoro della perdita definitiva del diritto vantato.
Il secondo perché sarebbe difficile per la medesima Corte di Giustizia giustificare una diversa applicazione delle regole in materia di prescrizione su diritti diversi del lavoratore in considerazione della omogeneità del rapporto di lavoro.
Lo spostamento del centro di attenzione da parte dell’Unione dal metus alla tutela dell’effettivo esercizio del diritto vantato dal lavoratore, comporta l’adeguamento delle regole interne del nostro ordinamento che debbono essere interpretate quali discipline che non possono ostacolare o rendere maggiormente difficile l’esercizio dei diritti derivanti dal rapporto di lavoro.
Anzi, sul punto la Corte di Giustizia Europea chiarisce che le norme che regolano il rapporto di lavoro oltre a non ostacolare o a rendere più difficile l’esercizio del diritto da parte del lavoratore, non debbono avvantaggiare il datore di lavoro.
Tale circostanza è stata correttamente evidenziata anche nell’ordinanza di rimessione, la quale nel valutare la situazione giuridica sottoposta , ha rilevato che il comportamento posto in essere dalla amministrazione nei confronti del proprio dipendente non fosse conforme a principi di buona fede in quanto si era avvantaggiata di una situazione nella quale il lavoratore poteva fondare un legittimo affidamento trattandosi di una pubblica amministrazione.
In realtà nel nostro ordinamento esistono situazioni maggiormente eclatanti nelle quali le amministrazioni pubbliche si avvantaggiano dei crediti di lavoro dei propri dipendenti come nei casi della valutazione della anzianità di servizio ai fini della ricostruzione della carriera per l’inserimento nel gradone stipendiale.
In particolare nella scuola pubblica proprio la Suprema Corte di Cassazione ha evidenziato che l’anzianità di servizio, può essere oggetto di verifica giudiziale senza termine di tempo purché sussista nel ricorrente, l’interesse ad agire che va valutato in ordine alla azionabilità dei singoli diritti di cui la prima costituisce il presupposto di fatto derivando da ciò che l’effettiva anzianità di servizio può essere sempre accertata anche ai fini del riconoscimento del diritto ad una maggiore retribuzione per effetto del computo di un più alto numero di anni di anzianità .
Pur avendo stabilito l’imprescrittibilità del diritto del lavoratore a vedersi riconosciuti gli effettivi anni di servizio qualora questi fossero stati diversamente conteggiati dalla amministrazione scolastica, la medesima Suprema Corte ha precisato che, in ordine al quantum della somma dovuta al lavoratore, tale somma avrebbe dovuto soggiacere al limite derivante dalla prescrizione quinquennale nel rispetto delle regole di prescrizione del diritto alla retribuzione .
Tale indicazione ha consentito alla amministrazione scolastica di non regolarizzare i propri errori a danno del personale sia docente che amministrativo tecnico e ausiliario, generando un contenzioso su scala nazionale a proprio vantaggio con l’intento di avvantaggiarsi consapevolmente con i termini di prescrizione, e pertanto in violazione dell’art. 97 della Costituzione e dei principi di correttezza e trasparenza a cui la pubblica amministrazione dovrebbe attendere, sui crediti retributivi dei lavoratori, con grave danno per i medesimi. Invero, invece che regolarizzare le anzianità giuridiche dei propri dipendenti e il relativo inserimento nel gradone stipendiale, l’amministrazione scolastica ha confermato le proprie modalità di conteggio, peraltro dichiarate errate dalla Corte di Cassazione .
Orbene, tale circostanza dovrebbe far riflettere la Suprema Corte di Cassazione su una reale e necessaria rimeditazione di alcuni istituti connessi al rapporto di lavoro quali la decorrenza della prescrizione in costanza di rapporto di lavoro, che se non adeguati ai principi ormai vigenti nell’ordinamento comunitario, rischiano, senza il necessario dialogo tra la Suprema Corte di Cassazione e la Corte di Giustizia Europea, di essere dichiarati ostativi alla normativa e alla giurisprudenza comunitaria.
Il complesso quadro giuridico europeo, infatti, e le continue novità giuridiche introdotte in sede comunitaria comportano anche una necessaria e continua rivisitazione di istituti che pur consolidati nel nostro ordinamento interno, potrebbero non trovare adeguata corrispondenza nella normativa comunitaria.