TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

sentenze citate nell'articolo

Il tema del convegno odierno (“Art. 36 cost. e retribuzione sufficiente”) è non solo sempre attuale, ma – come si dirà - foriero di novità di grande interesse.
Il titolo stesso evoca un tema classico del diritto del lavoro. La retribuzione sufficiente di cui parla l’art. 36, comma 1 cost. – e cioè quella che deve essere «in ogni caso», appunto, «sufficiente» ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia «un’esistenza libera e dignitosa» - è oggetto, com’è noto, di un diritto non solo di rilevanza costituzionale ma anche internazionale, come dimostrano, tra l’altro, l’art. 23 (3) della UNHR del 1948 e la Convenzione OIL n. 131 del 1970 (art. 3, lett. a).
Inoltre, come ho cercato di dimostrare in altre sedi, la retribuzione, in questa accezione di sufficienza, ha un solido fondamento storico-giuridico e anche religioso, nella tradizione giudaico-cristiana (ma non solo).
Tornando agli aspetti più strettamente giuridici, è noto che in Italia il parametro di definizione della giusta retribuzione prende attualmente a riferimento i minimi fissati dalla contrattazione collettiva, mancando a tutt’oggi, nel nostro ordinamento, una previsione normativa – almeno di carattere generale – sul salario minimo. Esistono, infatti, alcune disposizioni di legge che impongono in determinati settori (cooperative, trasporto aereo, terzo settore) il rispetto di livelli salariali minimi, sebbene anche in questo caso con rinvio alla contrattazione collettiva: ne abbiamo discusso qualche mese fa al dipartimento di Giurisprudenza in un convegno proprio dedicato a questi temi al quale ha partecipato anche uno degli odierni relatori, il prof. Gragnoli, il quale ha trattato della norma relativa al settore aeronautico.
Poi, abbiamo una disposizione di legge del 2017 in materia di lavoro occasionale (subordinato) che, sebbene assai settoriale, è interessante perché richiama espressamente l’ammontare di 9 euro/ora, che è più o meno quello che si ritrova nei numerosi progetti di legge in materia presentati nella scorsa legislatura e anche nella presente.
Credo proprio che i relatori di oggi parleranno delle prospettive – peraltro molto scarse, al momento, come rivela il recente documento emanato dal CNEL (ottobre 2023) – di introduzione in Italia di un salario minimo legale. Ma merita soprattutto una menzione la recente giurisprudenza della Suprema corte (sei sentenze contigue, risalenti all’ottobre 2023) in tema di salario minimo e contratto nazionale di lavoro, in particolare con riferimento al controverso CCNL per i dipendenti da Istituti e Imprese di Vigilanza e Servizi Fiduciari (CCNL Servizi Fiduciari). Ne ha scritto un altro degli odierni relatori, il prof. Miscione, e anche il prof. Lassandari dell’Università di Bologna , sebbene con prospettive differenti.
La novità (ne accenno soltanto in via introduttiva) di questa giurisprudenza non risiede tanto nell’affermazione secondo la quale il giudice può discostarsi dal criterio, pur consolidato, che prende quale retribuzione-parametro quella fissata dal contratto nazionale: esistono diversi precedenti in tal senso, anche in senso opposto, vale a dire decisioni di merito, rimaste celebri, che ritennero persino eccessivo, in determinati contesti territoriali e storico-ambientali, il minimo contrattuale nazionale. Ma in quest’occasione, vale a dire nell’ottobre dell’anno scorso, la Suprema corte ha ritenuto troppo basso, e non conforme a quanto disposto dall’art. 36, comma 1, cost., il minimo contrattuale stabilito da un contratto nazionale (appunto quello dei Servizi Fiduciari), già oggetto di diverse decisioni di merito, ma soprattutto sottoscritto dai sindacati comparativamente più rappresentativi: in sostanza, un contratto certamente non “pirata”, ma a questo punto anche non “leader”, almeno in materia retributiva.
Una delle più citate tra le decisioni della Corte di cassazione dell’ottobre scorso (la sentenza n. 27711/2023) ha affermato che, “in sede di applicazione dell’art. 36 Cost., il giudice del merito gode, ai sensi dell’art. 2099 c.c., di una ampia discrezionalità nella determinazione della giusta retribuzione” potendo discostarsi (in diminuzione ma anche in aumento) dai minimi retributivi della contrattazione collettiva, sia pure dovendo trattarla “con grande prudenza e rispetto”; egli può quindi “servirsi di altri criteri di giudizio e parametri differenti da quelli collettivi (sia in concorso, sia in sostituzione), con l’unico obbligo di darne puntuale ed adeguata motivazione rispettosa dell’art. 36 Cost».
L’eventuale intervento “correttivo” del giudice sul contratto collettivo – spiega ancora la sentenza, quasi a giustificarsi – è “a tutela della precettività dell’art. 36 cost.”.
Secondo la Corte, infine, esiste un vero e proprio diritto del lavoratore di “uscire dal contratto collettivo di categoria” (corsivo mio), per ottenere l’applicazione di un contratto diverso e più adeguato ai parametri costituzionali. Tale operazione giudiziale è consentita, secondo la Corte, anche qualora il rinvio alla contrattazione collettiva applicabile nel caso concreto sia contenuto in una norma di legge (come nelle ipotesi sopra richiamate), poiché comunque è necessario adottare un’interpretazione costituzionalmente orientata; e lo sarebbe anche nell’ipotesi (decisamente remota) di introduzione, nel nostro ordinamento, di contratti collettivi erga omnes in attuazione dell’art. 39 cost. Su questo punto, la giurisprudenza in commento richiama, tra l’altro la materia degli appalti pubblici e in particolare il d.lgs. n. 36/2023, il cui art. 11 – innovando rispetto al passato – impone, com’è noto, alle stazioni appaltanti di indicare nel bando di gara il contratto collettivo da applicarsi ai lavoratori impiegati nell’appalto: l’operatore economico può indicare un contratto collettivo diverso, ma soltanto qualora esso offra «le stesse tutele» (art. 11, comma 2). E la valutazione dell’identità delle tutele è lasciata in primo luogo alla stazione appaltante, ma ovviamente, in ultima istanza, al giudice.
Proprio l’accenno alla materia degli appalti, contenuto nella stessa giurisprudenza di legittimità dell’ottobre scorso, consente un’ultima annotazione a conclusione di queste brevi note introduttive.
La giurisprudenza amministrativa ha costantemente affermato che la stazione appaltante non è legittimata – in contrasto rispetto a quanto oggi previsto dall’art. 11 del codice appalti - ad escludere dalla gara un operatore economico per il solo fatto di applicare (o non applicare) uno specifico contratto collettivo: e ciò in considerazione della libertà di auto-determinazione delle parti della contrattazione collettiva, che discende dal combinato disposto degli artt. 39 e 41 cost., o meglio dalla inattuazione dell’art. 39 e dal principio di libertà di impresa di cui all’art. 41. Come ha affermato il Tribunale di Milano, a fronte di tale principio non vi è «possibilità alcuna…né di sindacato del giudice, né di imposizione eteronoma». È interessante notare che una formula diversa, ma simile (“né la legge, né il contratto”), è stata usata dalla Cassazione nelle sentenze dell’ottobre 2023, in particolare la già citata decisione n. 27711, per ribadire la piena discrezionalità del giudice nella fissazione della retribuzione sufficiente.
Mentre, quindi, la giurisprudenza amministrativa in tema di appalti riconosce espressamente la preminenza della norma costituzionale (art. 41) anche sull’ambito di discrezionalità del giudice stesso, quella lavoristica in tema di retribuzione sufficiente si “serve” (per così dire) dell’art. 36 in primo luogo per limitare la portata delle fonti tradizionali (legge, contratto), riservando al giudice una diversa, seppur “costituzionalmente orientata”, definizione dei parametri retributivi.
Proprio richiamando il principio di auto-determinazione del datore di lavoro nella scelta del contratto collettivo, una recente e molto discussa decisione del TAR Lombardia del settembre dell’anno scorso ha ritenuto adeguata l’applicazione del CCNL Servizi Fiduciari da parte di una cooperativa, affermando l’illegittimità di un verbale ispettivo che aveva imposto l’applicazione di un contratto collettivo diverso (Multiservizi). Nondimeno, lo stesso TAR Lombardia, soltanto due mesi dopo, nel novembre 2023, ha invece ritenuto legittimo il comportamento di una stazione appaltante che aveva ritenuto inadeguato il CCNL Servizi Fiduciari richiamato da un concorrente nell’ambito di una gara pubblica: il TAR ha definito tale CCNL “ormai obsoleto e disapplicato in sede giudiziale” e in grado di realizzare una sorta di dumping non soltanto lesiva del “gioco concorrenziale” ma anche (ovviamente) dei diritti sociali.
Come si vede, dunque, le conseguenze dell’affidamento alla contrattazione collettiva della materia dei salari – ribadito dal CNEL nel già citato e discusso rapporto della fine del 2023, ma anche, a quanto sembra, dalla direttiva UE 2022/2041 sul salario adeguato - se, da un lato, sono promotrici in senso positivo di una buona flessibilità e di una capacità di adattamento dei livelli retributivi alla specificità del singoli settori, dall’altro, tuttavia, espongono la materia a una forte oscillazione da parte giurisprudenziale, che certamente non giova alla certezza delle situazioni giuridiche.
Così, in attesa dell’ulteriore evoluzione della giurisprudenza che seguirà il “dirompente” orientamento di legittimità dell’ottobre 2023, un primo effetto va riconosciuto, ed è quello del rinnovo, in data 16 febbraio 2024, del tormentato CCNL Servizi Fiduciari, che vede un aumento consistente (da un lato) del minimale retributivo; tale aumento, tuttavia, si accompagna, a ben vedere, a un décalage della maggiorazione per lavoro straordinario, secondo una manovra che rischia di rendere irrisorio (nel significato più proprio del termine) l’allineamento della retribuzione base al parametro costituzionale della sufficienza.

 

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