testo integrale con note e bibliografia

decreto legislativo 10 marzo 2023 n.24

direttiva n.1937 del 2019

1. Introduzione
A distanza di 12 anni dalla legge 190/2012, Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione, che ha introdotto l’istituto del whistleblowing per la prima volta nel nostro ordinamento, possiamo affermare che il contesto culturale e normativo è oggi profondamente cambiato.
Se nel 2012 il termine stesso whistleblowing era pressoché sconosciuto presso la maggior parte dei dipendenti pubblici italiani, e solo pochi studi pioneristici avevano trattato l’argomento soprattutto in chiave comparatistica , oggi, grazie anche a un quadro normativo più maturo e completo e agli sforzi di sensibilizzazione compiuti dalla società civile e dalle istituzioni , la consapevolezza sul tema è sicuramente aumentata.
A questo aumento di consapevolezza corrisponde anche un lento superamento delle iniziali resistenze nei confronti dell’istituto, prima considerato come un qualcosa di lontano dall’esperienza non solo giuridica ma anche sociale italiana, come del resto aveva confermato l’Accademia della Crusca nel celebre parere in cui confermava, a malincuore, l’intraducibilità del termine nella nostra lingua .
D’altronde, già la legge 179/2017, Disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato, aveva fortemente contribuito a creare un contesto più favorevole al whistleblower, rispondendo così nei fatti alle critiche mosse dalla Relazione dell’Unione sulla lotta alla corruzione adottata dalla Commissione europea nel 2014 , che vedeva nella protezione offerta dalla legge 190/2012 un livello ancora non adeguato a tutelare efficacemente il segnalante.
La legge 179/2017, quindi, risolvendo le numerose criticità evidenziate nel sistema previgente (ad esempio la questione dell’ambito soggettivo di applicazione eccessivamente limitato, l’inadeguata tutela contro le ritorsioni, e la tutela della riservatezza solo parziale), forniva un buon punto di partenza, pur lasciando aperte ancora una serie di questioni, prima tra tutte l’assenza di concrete misure di sostegno al whistleblower.
Per questo motivo, quando la Direttiva 1937/2019 riguardante la protezione delle persone che segnalano violazioni del diritto dell’Unione ha ulteriormente innalzato lo standard di tutele previste per il segnalante, in astratto nulla ostacolava un rapido recepimento nel nostro ordinamento, a differenza invece di altri paesi che non avevano ancora affrontato in modo sistematico il tema nel diritto interno . Invece, nonostante il termine per il recepimento fosse stato fissato al 17 dicembre 2021, il d. lgs. 24/2023 è stato approvato solo nel marzo 2023, motivo per cui nei confronti dell’Italia (ma anche di altri 23 paesi membri) è stata aperta una procedura di infrazione .

2. Il d.lgs. 24/2023: un importante passo in avanti nella tutela del whistleblower

Con il d.lgs. 24/2023 che recepisce la Direttiva UE 2019/1937, il processo di definizione normativa in materia di whistleblowing risulta oggi compiuto nel nostro ordinamento.
È indubbio che il d.lgs. 24/2023 rappresenti un passo in avanti significativo nella disciplina di un istituto che si trova “a cavallo tra integrità e trasparenza” dal momento che le due prospettive si integrano: “chi segnala fornisce informazioni che possono portare all’indagine, all’accertamento e al perseguimento dei casi di violazione delle norme, rafforzando in tal modo i principi di trasparenza e responsabilità delle istituzioni democratiche, ma al contempo corrisponde ai suoi doveri di funzionario cui sono affidati compiti nell’interesse di altri, specie in ambito pubblico ”.
Certamente positiva è la scelta di ordine “sistematico”: il decreto legislativo 24/2023, infatti, non si limita a recepire esclusivamente la disciplina relativa alle segnalazioni suscettibili di pregiudicare l’applicazione del diritto e delle politiche dell’Unione negli specifici settori individuati, ma offre una disciplina uniforme anche per le segnalazioni rilevanti solo per l’ordinamento interno.
In questo modo, tutta la materia relativa al whistleblowing non risulta frammentata in più testi normativi, ma è concentrata in una sorta di “testo unico” della materia , senza distinzioni tra livello unionale o nazionale.
Altrettanto positivo è l’ampliamento dell’ambito soggettivo di applicazione, come d’altronde richiedeva la Direttiva 2019/1937. Se, come disposto dall’art. 1 del d.lgs. 24/2023 il segnalante è “la persona fisica che effettua la segnalazione o la divulgazione pubblica di informazioni sulle violazioni acquisite nell’ambito del proprio contesto lavorativo”, viene meno la distinzione tra settore pubblico e privato in merito al diritto alla tutela: questa è estesa, infatti, anche ai dipendenti del settore privato, seppure con numerose limitazioni che di fatto tracciano una nuova distinzione tra una tutela forte per il settore pubblico, e una decisamente più debole per il settore privato.
Ma soprattutto viene estesa la tutela a soggetti che si trovano in una situazione di asimmetria di potere pur non avendo la qualifica di dipendente. Si pensi ad esempio al caso di tirocinanti, stagisti, volontari ma anche ai candidati a un colloquio di lavoro.
Inoltre, vengono ricompresi nella tutela anche gli azionisti e le persone con funzioni di amministrazione, direzione, controllo, vigilanza o rappresentanza, tutte categorie prima ingiustamente escluse dalla normativa .
Importante anche la scelta, sicuramente condivisibile, di estendere la tutela a soggetti che hanno rapporti di carattere personale con il segnalante, che lavorano nel suo medesimo contesto lavorativo e hanno con esso un legame affettivo o di parentela entro il quarto grado, oppure un rapporto abituale e corrente. Soprattutto, viene riconosciuta la tutela al cosiddetto facilitatore, cioè, come specificato dall’art. 2, comma 1, lett. h) del d.lgs. 24/2023, “la persona fisica che assiste il segnalante nel processo di segnalazione, operante nel medesimo contesto lavorativo e la cui assistenza deve essere mantenuta riservata”. Purtroppo, non sembra possibile includere in tale definizione anche le organizzazioni della società civile che offrono servizi di accompagnamento e supporto ai whistleblower .
Va citato, inoltre, come miglioramento del modello di tutela del whistleblower l’inserimento di un dovere di riscontro a carico di chi riceve la segnalazione . Il destinatario della segnalazione, infatti, è tenuto a dare un avviso di ricevimento al segnalante entro sette giorni dalla data del suo ricevimento; deve poi mantenere interlocuzioni con il segnalante per acquisire, se necessario, ulteriori informazioni; deve dare diligente seguito alle segnalazioni ricevute e, infine, dare un riscontro al segnalante entro tre mesi . In questo modo il segnalante è incoraggiato a non perdere fiducia in un sistema che è tenuto ad accogliere e dare seguito alla segnalazione; e soprattutto il segnalante potrà venire a conoscenza dell’esito finale, cioè se il suo sforzo di farsi carico dell’interesse pubblico attraverso lo strumento del whistleblowing è stato utile o meno.
La questione della fiducia del segnalante è poi strettamente legata alla sua protezione da eventuali ritorsioni. Va detto che in questo ambito non ci sono novità sostanziali rispetto al sistema previgente. Importante sottolineare però che le sanzioni in caso di ritorsione sono state leggermente aumentate , e che viene considerato responsabile della misura ritorsiva non solo il soggetto che ha adottato il provvedimento o atto ritorsivo (o comunque il soggetto a cui è imputabile il comportamento o l’omissione), ma anche colui che ha suggerito o proposto l’adozione di una qualsiasi forma di ritorsione nei confronti del whistleblower .
Inoltre, il d.lgs. 24/2023 accoglie la definizione ampia di ritorsione prevista dall’art. 19 della Direttiva, che ricomprende la ritorsione anche solo tentata o minacciata e i provvedimenti organizzativi e non, che possano arrecare pregiudizio al segnalante .
Rimane, rispetto alla normativa precedente, la regola dell’inversione dell’onere della prova: non è il segnalante, denunciante o divulgatore pubblico a dovere provare il collegamento tra segnalazione e ritorsione, ma è onere del soggetto che ha applicato, tentato o minacciato la ritorsione dimostrare che i fatti allegati dal segnalante sono estranei alla segnalazione.
Tuttavia, spiace notare che tale inversione dell’onere della prova non riguarda gli altri soggetti tutelati dal decreto , sui quali, ai sensi dell’art. 17, grava l’onere probatorio e sono quindi chiamati a dimostrare il rapporto di consequenzialità tra segnalazione, divulgazione e denuncia effettuata e le misure ritorsive subite.

2.1. La divulgazione pubblica

Molto importante è anche l’introduzione all’art. 15 del d.lgs. 24/2023 della divulgazione pubblica come terzo canale di segnalazione, in virtù dell’approccio human rights oriented per cui la segnalazione non è solo uno strumento per aumentare la capacità di scoprire e intercettare fenomeni corruttivi, ma anche una manifestazione del fondamentale diritto di libertà di espressione . Chiaramente la divulgazione pubblica rappresenta una segnalazione a “carattere residuale ed eccezionale ” dal momento che sono previsti stringenti presupposti per potervi ricorrere: è ammissibile, infatti, solo se il segnalante abbia prima effettuato una segnalazione interna o esterna, cui non sia stato dato riscontro nei termini previsti; se il segnalante abbia fondati motivi di ritenere che la violazione possa costituire un pericolo imminente o palese per il pubblico interesse come nel caso in cui sussista una situazione di emergenza o il rischio di danno irreversibile; se, in caso di segnalazione esterna, sussista il rischio di ritorsioni o che non venga dato efficace seguito alla segnalazione in ragione delle specifiche circostanze del caso concreto, quali quelle in cui possano essere occultate o distrutte prove ovvero vi sia fondato timore che chi ha ricevuto la segnalazione possa essere colluso con l’autore della violazione o coinvolto nella violazione stessa .
Va specificato che questo tipo di divulgazione non consente l’immediato intervento correttivo che caratterizza invece la segnalazione interna e, per certi versi, anche quella esterna, per cui l’efficacia preventiva della divulgazione pubblica è quindi limitata alla sua funzione quasi di minaccia di una sanzione reputazionale . Ma in ogni caso, la divulgazione pubblica ha sicuramente il merito di consentire l’emersione di violazioni anche qualora ci sia una forte sfiducia nei confronti dei canali di segnalazione interni ed esterni, e quindi rappresenta un importante innalzamento della tutela del whistleblower.
Tuttavia, si deve rilevare in questo contesto una criticità, derivante dal mancato coordinamento con il successivo intervento sul Codice di comportamento dei dipendenti pubblici effettuato dal d.P.R. 81/2023. Con i nuovi articoli 11-bis e 11-ter recentemente introdotti, infatti, viene sensibilmente ridotta la libertà di espressione del dipendente pubblico: in particolare, il comma 2 dell’art. 11-ter (che riguarda l’utilizzo dei social network da parte del dipendente) prevede che: “in ogni caso il dipendente è tenuto ad astenersi da qualsiasi intervento o commento che possa nuocere al prestigio, al decoro o all’immagine dell’amministrazione di appartenenza o della pubblica amministrazione in generale”, anche se non vengono tipizzate le condotte sanzionabili. Considerando, però, che la divulgazione pubblica può essere fatta anche tramite social network, appare evidente un disallineamento tra l’art. 11-ter del d.P.R. 81/2023 e l’art. 15 del d.lgs. 24/2023.
Il disallineamento è poi amplificato anche dal comma 5 dell’art. 11-ter che introduce il divieto dei dipendenti di divulgare o diffondere per ragioni estranee al loro rapporto di lavoro con l’amministrazione documenti, anche istruttori, e informazioni di cui essi abbiano la disponibilità. Tale articolo, infatti, non tiene conto non solo dell’art. 15 del d.lgs. 24/2023, ma anche dell’art. 20 dello stesso decreto, che prevede espressamente una limitazione di responsabilità.
L’art. 20 ritiene, infatti, non punibile chi segnala o divulga pubblicamente informazioni, violando il segreto d’ufficio, il diritto d’autore, il diritto alla privacy, oppure ledendo l’immagine o la reputazione delle persone coinvolte o denunciate, “quando, al momento della rivelazione o diffusione, vi fossero fondati motivi per ritenere che la rivelazione o diffusione delle stesse informazioni fosse necessaria per svelare la violazione”.
D’altronde, il rapporto tra codice di comportamento e whistleblowing era già considerato complesso in virtù dell’indicazione errata (perché non aggiornata al mutato quadro regolatorio) contenuta all’art. 8 che individua nel superiore gerarchico il destinatario della segnalazione.
Ma se tale disallineamento era tutto sommato “scusabile ” perché il codice di comportamento era stato introdotto nel 2013 (dal d.P.R. 62/2013), quindi ben prima dei successivi interventi di riforma che avevano individuato nell’ANAC e nel RPCT gli unici destinatari delle segnalazioni , sicuramente non è spiegabile il mancato coordinamento del successivo d.P.R. 81/2023 intervenuto a modificare il codice di comportamento, con il previgente d.lgs. 24/2023.
Una svista che però getta un’ombra di confusione e incoerenza sul sistema nel complesso.

2.2. Il ruolo della società civile all’interno del sistema previsto dal d.lgs. 24/2023 e la buona pratica individuata dalla Comunità di pratica dei RPCT della SNA

Tra i passi avanti compiuti dal recepimento della Direttiva, sicuramente va considerato il riconoscimento del ruolo di supporto e accompagnamento ai whistleblower svolto dalla società civile. L’art. 18 del d.lgs. 24/2023 di fatto prende atto dell’enorme lavoro svolto nel corso degli anni da alcune organizzazioni nel promuovere la conoscenza del whistleblowing ben prima di un riconoscimento a livello normativo. Si pensi ad esempio alle attività di Transparency International Italia, i cui primi sforzi in questa direzione (ricerca, analisi comparatistiche, advocacy, formazione) risalgono al 2009, poi intensificati dall’introduzione dell’istituto del whistleblowing nel nostro ordinamento grazie alla legge 190/2012. Da quel momento sono state sperimentate e sviluppate piattaforme informatiche per garantire la riservatezza tecnologica, ma soprattutto si è avviata un’intensa attività di assistenza e supporto ai segnalanti, grazie al servizio ALAC – Allerta Anticorruzione , attivo dal 2014.
Nella stessa direzione si inserisce anche l’attività svolta da Libera - Associazioni, nomi e numeri contro le mafie che, con il servizio telefonico Linea Libera , assiste gratuitamente chi ha intenzione di segnalare casi di corruzione o denunciare reati di stampo mafioso, mettendo a disposizione esperti, avvocati e psicologi.
Tuttavia, il decreto si limita a prevedere l’istituzione presso l’ANAC di un elenco degli Enti del Terzo Settore abilitati a fornire le misure di sostegno ai whistleblower o potenziali tali, e a specificare in cosa consistano tali misure di sostegno, cioè: “informazioni, assistenza e consulenze a titolo gratuito sulle modalità di segnalazione e sulla protezione dalle ritorsioni offerta dalle disposizioni normative nazionali e da quelle dell’Unione europea, sui diritti della persona coinvolta, nonché sulle modalità e condizioni di accesso al patrocinio a spese dello Stato”.
È evidente però che il riferimento all’accesso al gratuito patrocinio desta qualche problematica dal momento che sembra non considerare la situazione concreta della maggior parte dei potenziali segnalanti. Al netto delle situazioni relative a tirocinanti, stagisti, o candidati a un colloquio di lavoro, un dipendente pubblico difficilmente potrebbe rientrare nella categoria degli aventi diritto per reddito .
Inoltre, non viene menzionato il ruolo di questi enti come possibili soggetti abilitati a ricevere le divulgazioni pubbliche, cosa che era invece prevista espressamente dalla Direttiva 1937/2019 che, tra l’altro, estende anche alle organizzazioni della società civile la protezione da eventuali ritorsioni. Il decreto di recepimento, invece, non solo non riconosce la tutela da ritorsioni agli Enti del terzo settore , ma non attribuisce loro nemmeno il ruolo di facilitatore come invece ci si sarebbe potuto aspettare .
Sicuramente, però, l’istituzionalizzazione del ruolo degli Enti del terzo settore contribuirà a dare maggiore visibilità ai servizi di accompagnamento e supporto al whistleblower.
Ciò dovrebbe comportare, auspicabilmente, il superamento della criticità rappresentata dalla attuale mancanza di conoscenza dell’esistenza di tali servizi presso la maggior parte dei dipendenti pubblici italiani, come anche è stato rilevato nella ricerca “Formare per trasformare: Amministrazione aperta e modelli formativi innovativi per una più efficace attuazione dell’istituto del whistleblowing”, realizzata dalla Scuola Nazionale dell’Amministrazione nell’ambito delle iniziative di Open Government Partnership, in attuazione del Quinto Piano d’Azione nazionale per il governo aperto . In particolare, alla domanda: “È a conoscenza dei servizi di assistenza, supporto e accompagnamento al whistleblower nella fase che precede la segnalazione messi a disposizione da alcune organizzazioni della società civile e/o più in generale di advocacy (per la tutela della comunità, dei cittadini e, specificamente, degli utenti)?” la maggioranza degli intervistati ha risposto negativamente .
In questa prospettiva, e proprio per far fronte a questa criticità, si è attivata la Comunità di pratica dei RPCT avviata nel 2022 dalla Scuola Nazionale dell’Amministrazione in attuazione del Quinto Piano d’Azione nazionale per il governo aperto promosso da Open Government Partnership Italia . Nella sua dimensione di soggetto interistituzionale e aperto ai contributi della società civile, la Comunità di pratica si è impegnata nel primo anno di attività principalmente sul tema del whistleblowing, con l’obiettivo non solo di rafforzare e potenziare le competenze degli RPCT e contribuire al superamento delle forti resistenze che ancora oggi ostacolano la diffusione dell’istituto, ma anche di individuare e realizzare buone pratiche in questo ambito.
Proprio per rendere più visibile e fruibile il ruolo di supporto delle organizzazioni della società civile, la Comunità di pratica ha elaborato una proposta tanto semplice quanto pragmatica: inserire sui siti delle amministrazioni, nella sezione dedicata al whistleblowing, i link diretti al servizio dedicato offerto dalle singole organizzazioni. Tale pratica ottiene un duplice obiettivo: da una parte consente di intercettare potenziali segnalanti, offrendo loro assistenza e supporto per formulare segnalazioni qualitativamente migliori. Dall’altra, permette di semplificare il lavoro del RPCT che, grazie all’aiuto delle organizzazioni della società civile, riceverà segnalazioni migliori sotto il profilo qualitativo. Inoltre, questo approccio potrebbe portare a una diminuzione delle segnalazioni manifestamente infondate, poiché l’assistenza pre-segnalazione contribuisce a evitare errori o fraintendimenti da parte dei segnalanti .

3. Non solo passi in avanti, ma anche criticità

Nonostante i progressi qui descritti, non si può nascondere come in alcuni ambiti, il decreto abbia purtroppo deluso le aspettative, se non addirittura violato la clausola di non regressione della Direttiva che impone di non abbassare il livello di tutela già previsto dall’ordinamento interno qualora questo preveda standard maggiori rispetto alla Direttiva stessa .
In particolare, la scelta di restringere l’ambito di applicazione oggettivo rispetto alla previgente legge 179/2017 può sollevare qualche perplessità: il d.lgs. 24/2023 limita, infatti, l’oggetto della segnalazione alle sole violazioni del diritto nazionale o dell’Unione Europea, definite all’art. 2 come quei “comportamenti, atti od omissioni che ledono l’interesse pubblico o l’integrità dell’amministrazione pubblica o dell’ente privato ”.
Sembrerebbero quindi escluse le mere irregolarità, come ha anche chiarito l’ANAC, nelle Linee guida 2023, precisando che le irregolarità, intese come “comportamenti impropri di un funzionario pubblico che, anche al fine di curare un interesse proprio o di terzi, assuma o concorra all’adozione di una decisione che devia dalla cura imparziale dell’interesse pubblico ” non possono essere considerate violazioni . Possono però, specifica l’ANAC, essere considerate come elementi concreti o indici sintomatici tali da indurre nel segnalante la convinzione che a fronte di tali irregolarità potrebbe essere commessa una violazione.
Tuttavia, è opportuno ricordare che la legge 179/2017, intitolata espressamente “Disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell'ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato”, non prevedendo un numerus clausus di fattispecie, lasciava aperta la possibilità di considerare come rilevanti tutte le segnalazioni riguardanti non solo l’intera gamma dei delitti contro la PA, ma anche tutti i comportamenti, rischi, reati o irregolarità, consumati o tentati, a danno dell’interesse pubblico . In sostanza, il dipendente pubblico con le proprie segnalazioni poteva richiamare l’attenzione delle autorità (interne all’ente di propria appartenenza, o esterne, all’ANAC) su condotte di illegalità comprensive dei comportamenti di maladministration, “allo scopo di riportare le procedure amministrative e i comportamenti dei dipendenti pubblici sui binari della legalità ”.
Il d.lgs. 24/2023, invece, restringendo l’ambito di applicazione ha prodotto un sostanziale arretramento rispetto alla normativa previgente, perché esclude tutta una serie di fattispecie e, di conseguenza, potrebbe rappresentare quindi una possibile violazione della clausola di non regressione ai sensi dell’art. 25 della Direttiva.
Stessa considerazione va fatta per l’introduzione di un ulteriore requisito per qualificare la segnalazione come tale e quindi meritevole di tutela, cioè il “fondato motivo di ritenere che le informazioni sulle violazioni segnalate, divulgate pubblicamente denunciate fossero vere e rientrassero nell’ambito oggettivo di cui all’articolo 1”.
È vero che tale requisito è previsto espressamente dalla Direttiva , tuttavia, la normativa italiana previgente non lo richiedeva. Anche l’ANAC nelle precedenti Linee guida del 2021, pur escludendo le segnalazioni di informazioni già di dominio pubblico, le notizie prive di fondamento e le cosiddette voci di corridoio, non richiedeva che il dipendente fosse certo dell’effettivo accadimento dei fatti denunciati e dell’identità dell’autore, ma solo che ne fosse ragionevolmente convinto . Allo stesso tempo, tuttavia, non vengono più considerati rilevanti i motivi che inducono il whistleblower a segnalare , determinando in questo modo un vero e proprio passaggio dalla dimensione soggettiva e personale del segnalante alla dimensione oggettiva di ciò che viene segnalato , come d’altronde era stato già affermato dall’ANAC nelle Linee guida 2021. Secondo l’ANAC, infatti, alla luce della ratio che ispira la legislazione in materia di prevenzione della corruzione, non si potevano “escludere dalla tutela ex art. 54-bis le segnalazioni nelle quali un interesse personale concorra con quello della salvaguardia dell’integrità della pubblica amministrazione. In simili casi è opportuno che il whistleblower dichiari fin da subito il proprio interesse personale” .

3.1. La scelta del canale di segnalazione

Ulteriore criticità è rappresentata dall’art. 6 del d.lgs. 24/2023 che subordina l’accesso alla segnalazione esterna ad alcune condizioni e presupposti per privilegiare, sostanzialmente, la segnalazione interna.
Questi presupposti, tuttavia, “non solo segnano un percorso obbligato per il segnalante, ma lo caricano anche dell’onere di motivare la propria scelta di attivare il canale esterno di segnalazione: situazione prima certamente non contemplata” . Pur comprendendosi la decisione, prevista dalla Direttiva, di incoraggiare il canale interno che d’altronde è quello più adeguato a effettuare un intervento correttivo efficace e rapido, non si deve dimenticare che la stessa Direttiva sancisce altresì la libera scelta del segnalante. Il Considerando 33, infatti, espressamente prevede che: “la persona segnalante dovrebbe poter scegliere il canale di segnalazione più adeguato in funzione delle circostanze specifiche del caso”.
D’altronde, va anche considerata l’istintiva diffidenza del dipendente nei confronti del canale interno, come dimostra il numero esiguo di segnalazioni che appaiono nelle relazioni dei RPCT, a fronte di una evidente predilezione per il canale esterno, cioè la segnalazione all’ANAC. Di conseguenza, forse, ai fini di una maggiore diffusione dell’istituto, sarebbe opportuno lasciare libertà di scelta al potenziale segnalante, almeno fino a quando il contesto culturale e organizzativo sarà tale da generare totale fiducia nei canali interni.
Allo stesso tempo, però, è proprio il sottoutilizzo dei canali interni a far emergere “con assoluta evidenza l’esigenza di promuovere, ancor di più, la divulgazione dell’istituto a livello territoriale nonché l’attività di formazione dei soggetti deputati a gestire le segnalazioni all’interno degli Enti al fine di incentivare l’adozione di discipline di gestione delle segnalazioni whistleblowing ”.
In quest’ottica si può quindi comprendere la scelta del legislatore di privilegiare la segnalazione interna dal momento che, a differenza di quella esterna, consente un’azione correttiva rapida ed efficace da parte dell’amministrazione, e soprattutto, attivando i meccanismi di verifica da parte del RPCT, valorizza l’amministrazione nel suo ruolo di “attore protagonista” nella strategia di prevenzione della corruzione, come d’altronde prevede la legge 190/2012, che ha introdotto nel nostro ordinamento un “modello decentrato”, proprio per coinvolgere tutti i dipendenti nella responsabilità di partecipare alla gestione del rischio di corruzione.
Attraverso la segnalazione interna, i dipendenti possono quindi contribuire direttamente all’identificazione e alla mitigazione dei rischi di corruzione, favorendo un ambiente di lavoro più etico e responsabile.
L’attivazione di questi meccanismi interni di controllo non solo rafforza la capacità dell’amministrazione di prevenire e combattere la corruzione, ma migliora anche la fiducia dei cittadini nelle istituzioni pubbliche, dal momento che una segnalazione ben gestita contribuisce a produrre (e proteggere) l’accountability dell’amministrazione stessa .

4. La vexata quaestio della premialità

Al di là di potenziali arretramenti nel livello di tutela del whistleblower rappresentati dal d.lgs. 24/2023, vi sono aspetti della nuova normativa che, pur non costituendo una violazione della clausola di non regressione, rappresentano tuttavia delle occasioni mancate.
Ad esempio, nel recepire la Direttiva si è deciso di non affrontare il tema, già escluso dalla legislazione previgente, di un eventuale incentivo al whistleblower.
Effettivamente la Direttiva non si esprime sul tema, se non indirettamente, lasciando agli Stati la possibilità di prevedere “misure di assistenza finanziaria e sostegno, anche psicologico” per le persone segnalanti nell’ambito dei procedimenti giudiziari . Ma queste misure di assistenza sono un mero rimborso, un sostegno economico per non lasciare a carico del whistleblower anche le spese legali, ma certo non rappresentano una premialità. Come anche le disposizioni relative all’eventuale risarcimento del danno si pongono su un piano (giuridico, ma anche concettuale ed etico) completamente diverso.
Il problema che non si è voluto affrontare riguarda invece la possibilità o meno di ricompensare il whistleblower che, con la sua segnalazione, si fa carico dell’interesse pubblico sacrificando la sua tranquillità e il suo benessere individuale. In realtà già nella discussione precedente l’emanazione della legge 190/2012 si era sollecitata l’introduzione di una premialità , e nel dibattito parlamentare relativo alla legge 179/2017, era stato presentato un emendamento che prevedeva per il segnalante una “ricompensa” dal 5 al 15% del danno erariale riconosciuto (e poi recuperato) dalla Corte dei conti . Tale proposta però non passò proprio per le obiezioni relative al rischio di una degenerazione dell’istituto del whistleblowing, da presidio per l’anticorruzione con una forte connotazione etica a mero strumento per ottenere un vantaggio personale.
In altri ordinamenti, invece, proprio partendo dalla considerazione che la segnalazione consente di risparmiare denaro pubblico, al whistleblower viene riconosciuta una percentuale su quanto recuperato . Ad esempio ciò accade negli Stati Uniti, dove al whistleblower è riconosciuto il diritto a una ricompensa per il suo contributo all’emersione di fatti corruttivi secondo una duplice prospettiva: sia attribuendogli il diritto a una percentuale su quanto effettivamente recuperato, retribuendo in questo modo il suo ruolo di relator, che agisce in giudizio in nome e per conto dello Stato, in base alla disciplina introdotta dal False Claims Act , sia riconoscendogli il diritto a una ricompensa forfettaria , secondo il cosiddetto bounty scheme che di fatto si limita a “retribuire” le informazioni con il meccanismo del cash for information introdotto dal Dodd-Frank Wall Street Reform and Consumer Protection Act del 2010.
Ma la logica premiale è presente anche in Canada, Corea del Sud e in alcuni paesi europei in cui si è affermata l’idea che la ricompensa può incentivare le segnalazioni, tra questi ad esempio la Slovenia, la Slovacchia e la Lituania. Si tratta in questi casi di ricompense modeste, che certamente non possono rappresentare la principale motivazione per il segnalante, ma contribuiscono a creare un contesto in cui la segnalazione è considerata un valore.
Nel Regno Unito, dove tradizionalmente prevale una certa opposizione all’idea di “monetizzare” i valori civici e l’onestà , dal 2017 si sono introdotti meccanismi premiali per le segnalazioni riguardanti violazioni nell’ambito della concorrenza e successivamente nell’ambito delle frodi fiscali. Inoltre, grazie anche agli sforzi della società civile che da tempo chiede una riforma della normativa ritenuta profondamente inadeguata, è attualmente in discussione alla House of Lords un progetto di legge che tra l’altro contiene anche la previsione di una reward per il segnalante .
La questione è senza dubbio complessa: per quanto non si possano sottovalutare i rischi legati alla logica premiale di una monetizzazione della virtù, allo stesso tempo non si può ignorare che il whistleblower, che si sacrifica per il benessere della collettività perseguendo l’interesse pubblico, paga un costo molto alto in termini di tranquillità personale, benessere lavorativo, serenità nelle relazioni lavorative e non solo .
Allo stato attuale, però, le misure di sostegno al whistleblower sostanzialmente si limitano a proteggerlo da conseguenze peggiori, ma non prevedono alcun tipo di “ringraziamento”, nemmeno di carattere simbolico o reputazionale , mentre sarebbe fondamentale prevedere un riconoscimento eventualmente anche solo morale, che avrebbe comunque il merito di valorizzare e gratificare il whistleblower per il suo impegno. Proprio attraverso l’espressione in sede pubblica di giudizi etici positivi sulle scelte dei whistleblower e sulle ricadute socialmente positive delle loro azioni si andrebbe a enfatizzare la dimensione etica della scelta di segnalare.
È fondamentale considerare questo aspetto anche per un motivo che si potrebbe definire “didattico”: attualmente, le conseguenze negative delle segnalazioni (cioè le ritorsioni) sono drammaticamente evidenti, mentre non sono altrettanto evidenti le conseguenze, soprattutto in termini di esposizione e di reputazione, per coloro che compiono le ritorsioni, anche nei casi in qui vengano sanzionati . Questa asimmetria porta a ritenere la segnalazione come un’attività intrinsecamente pericolosa, per cui paradossalmente l’unico premio che il whistleblower può sperare di ottenere sia la mera “sopravvivenza” dopo la segnalazione.
Ma se le cose stanno così, allora è essenziale creare un contesto normativo e organizzativo che permetta al whistleblower di “sopravvivere” senza subire conseguenze negative, quindi eliminando ogni rischio di ritorsioni. In realtà sappiamo bene come il divario tra law in the books e law in action su questo tema sia forte, ma proprio per questo è cruciale un contesto etico in cui tutti condividano il valore intrinsecamente civico della segnalazione. “L’obiettivo dovrebbe essere quello di far penetrare nella coscienza collettiva la convinzione che il contrasto alla illegalità sia ‘vantaggioso’, anche quando implica un arduo impegno individuale. […] Un approccio culturale, insomma, tramite il quale siano percepibili i “costi” della corruzione e vi sia la consapevolezza della portata riprovevole delle condotte implicate ”.

5. Come incentivare le segnalazioni: le buone pratiche della Comunità di pratica dei RPCT della SNA

In questa prospettiva culturale, diventa quindi fondamentale adottare anche un nuovo approccio nella formazione sul whistleblowing, incentrata maggiormente sulla natura umana della misura di prevenzione della corruzione, e che porti ad abbandonare la narrazione dominante (ma dannosa) del whistleblower-eroe . Questo cambio di passo è proprio il contenuto di un’ulteriore buona pratica realizzata dalla Comunità di pratica dei RPCT della SNA : partendo dal presupposto che il whistleblower è prima di tutto una persona, e che questa persona diventa una misura umana di prevenzione della corruzione che interviene quando le misure organizzative hanno fallito, è opportuno focalizzare maggiormente l’attenzione sulla centralità del whistleblower, individuo, rispetto al whistleblowing, istituto. Per fare ciò, è fondamentale ascoltare direttamente le testimonianze dei whistleblower per comprendere la motivazione etica, la spinta che li porta ad agire .
Un’altra forma di incentivo alla segnalazione potrebbe essere invece la qualificazione espressa e univoca del whistleblowing come un dovere. Tale qualifica potrebbe funzionare come incoraggiamento addirittura più efficace rispetto ai tradizionali incentivi monetari, ma con una significativa differenza di genere. Secondo alcuni studi , infatti, le donne sarebbero più propense a segnalare eventuali illeciti quando la segnalazione è percepita come un dovere, a differenza degli uomini, considerati più sensibili alla ricompensa economica, e più propensi alla violazione di un eventuale dovere di segnalazione se il rischio di ritorsioni è avvertito come elevato nella valutazione costi-benefici .
Eppure, sia dalla lettura della Direttiva 2019/1937, sia del d.lgs. 24/2023 (ma in realtà anche la legislazione previgente era dello stesso tenore), il whistleblowing appare oggi come un diritto, secondo la prospettiva human rights oriented di cui si è parlato supra, oppure come un’attività intrinsecamente pericolosa che espone il whistleblower a enormi rischi.
Non appare, tuttavia, come un dovere.
Qualificare la segnalazione come dovere produrrebbe, invece, la logica conseguenza di normalizzare l’istituto, eliminando la stigmatizzazione sociale che spesso il segnalante subisce nel nostro paese per via di resistenze culturali profonde. Attualmente, l’unico riferimento al whistleblowing come un dovere è previsto all’art. 8 del Codice di comportamento dei pubblici dipendenti (d.P.R. 62/2013). Quello stesso articolo però presenta gravi problemi di allineamento alla normativa successiva, dal momento che considera (erroneamente) il superiore gerarchico come destinatario della segnalazione. Tale disallineamento, inspiegabilmente, non solo non è stato superato con l’intervento riformatore del d.P.R. 81/2023 che è intervenuto ad aggiornare il codice di comportamento nel luglio scorso, ma è stato addirittura amplificato dall’introduzione dell’art. 11-ter nella parte in cui non prevede un coordinamento con la divulgazione pubblica .
Davanti a questo problema di coordinamento, riprodotto purtroppo anche in numerosi codici di amministrazione (e sanato oggi solo dal d.lgs. 24/2023 che all’art. 4 comma 6 prevede che “La segnalazione interna presentata ad un soggetto diverso da quello indicato nei commi 2, 4 e 5 è trasmessa, entro sette giorni dal suo ricevimento, al soggetto competente, dando contestuale notizia della trasmissione alla persona segnalante”), può essere utile citare la proposta di riscrittura dell’art. 8, effettuata all’interno della Comunità di Pratica dei RPCT in un laboratorio espressamente dedicato al dovere di segnalazione . Si tratta di una proposta che evidenzia il dovere di segnalazione, di cooperazione (e in alcuni casi anche di intervento) del dipendente, così sintetizzata:
“1. In ossequio ai principi di integrità, legalità e trasparenza, il dipendente collabora con l’amministrazione al fine di prevenire gli illeciti. 2. Il dipendente rispetta le prescrizioni contenute nei piani di prevenzione della corruzione e per la trasparenza adottati dall’amministrazione e presta la sua collaborazione al responsabile della prevenzione della corruzione. 3. Fermo restando, al ricorrere dei relativi presupposti, l’obbligo di denuncia all’autorità giudiziaria, il dipendente segnala al responsabile per la prevenzione della corruzione, o all’Autorità Nazionale Anticorruzione, situazioni, comportamenti, atti od omissioni che ledono l’interesse pubblico o l’integrità dell’amministrazione pubblica, di cui sia venuto a conoscenza nel contesto lavorativo. 4. Il dipendente collabora al fine di identificare e reprimere eventuali casi di frode e riciclaggio e segnala al Gestore le operazioni sospette di cui venga a conoscenza nell’esercizio della propria attività d’ufficio. 5. L’obbligo di segnalazione di cui ai commi 3 e 4 è escluso nei casi in cui il dipendente, in virtù del proprio ruolo e nell’esercizio delle proprie funzioni, abbia l’autorità di reprimere le situazioni, i comportamenti, gli atti o le omissioni rilevate”.
Obiettivo di tale formulazione non è solo risolvere i problemi di coordinamento, ma anche ampliare l’ambito di applicazione estendendo al dipendente un dovere di collaborazione nell’ambito della prevenzione del riciclaggio, e prevedendo uno specifico dovere di intervento (che va quindi oltre la segnalazione) qualora si abbia la possibilità, per il ruolo ricoperto, di intervenire direttamente.
Inoltre, sempre nell’ambito della Comunità di pratica dei RPCT sono stati predisposti anche un art. 8-bis relativo alla esplicita previsione della tutela della riservatezza del segnalante , e un art. 8-ter, che sancisce espressamente il divieto di ritorsione .
Ma soprattutto si è tentato di risolvere il nuovo disallineamento introdotto dal d.P.R. 81/2023 di cui si parlava supra, attraverso una proposta di un art. 12-bis dedicato espressamente al coordinamento con le divulgazioni pubbliche previste dal d.lgs. 24/2023, per cui:
“1. I divieti di cui all’articolo 11-ter e di cui all’art. 12, comma 2 del presente Codice di comportamento non si applicano nel caso in cui il dipendente effettui una divulgazione pubblica di informazioni su violazioni di disposizioni normative, nazionali o dell’Unione europea, che ledono l’interesse pubblico o l’integrità dell’amministrazione pubblica, di cui sia venuto a conoscenza nel contesto lavorativo, e qualora ricorra una delle condizioni per la tutela elencate nell’art. 15, comma 1 del Decreto Legislativo 10 marzo 2023, n. 24”.
Il modello sviluppato dalla Comunità di Pratica dei RPCT chiaramente non ha alcun potere di influenzare il codice di comportamento nazionale, tuttavia può svolgere un ruolo importante come guida e fonte di ispirazione per le organizzazioni che devono procedere a un aggiornamento del proprio codice di amministrazione, in base al principio (previsto dal codice nazionale) di integrare e specificare i contenuti del codice stesso, adattandoli al contesto e alle esigenze specifiche dell’organizzazione stessa.
In questo modo, anche se il modello della Comunità di Pratica non ha un’immediata rilevanza giuridica, può comunque contribuire a promuovere pratiche di whistleblowing più efficaci e conformi agli standard etici e normativi.
D’altronde, nel momento in cui può dirsi compiuto il processo di definizione normativa dell’istituto, le criticità principali rimangono sul piano prevalentemente operativo e culturale: proprio per questo motivo tanto la formazione, quanto la sperimentazione di nuove pratiche e modelli, possono avere un ruolo fondamentale per una diffusione del whistleblowing e per il superamento delle ancora numerose resistenze di ordine socio-culturale.

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