TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1 – Note introduttive
Nel diritto del lavoro privato la determinazione delle regole è rimessa, in primis, alla libera e volontaria determinazione delle parti del rapporto di lavoro subordinato, decretandone di fatto la sua costituzione e, in secundis, alla legge e al contratto collettivo , ricoprendo le stesse fonti una funzione essenzialmente extra ordinem , di supporto all’autonomia negoziale del lavoratore e in chiave protettiva, tenuto conto del favor lavoratoris che permea il nostro ordinamento giuslavoristico .
Ciò determina, per relationem, in ragione del principio della gerarchia delle fonti e della tutela di diritti e valori meritevoli di protezione, l’affermazione del criterio dell’inderogabilità in peius delle previsioni sovraindividuali , dal che la contrarietà delle disposizioni concordate tra datore di lavoro e lavoratore alla legge e al contratto collettivo di settore sono nulle e sostituite di fatto da quelle legali e contrattual-collettive .
Siffatto meccanismo di garanzia, tale da comportare una conformazione in melius delle clausole contrattuali, di livello individuale, alla norma legale o alla contrattazione collettiva , non si traduce nella circostanza che le stesse fonti eteronome definiscono la fattispecie, limitandosi eminentemente a fissarne il contenuto .
Con specifico riferimento al contratto collettivo, rappresentata dunque la sua funzione etero-integrativa , venuta meno la natura corporativa dei sindacati vigente nel periodo fascista e non avendo a oggi trovato attuazione la seconda parte dell’art. 39 Cost. , possiamo certamente considerarlo soggetto alle prescrizioni codicistiche sul contratto in generale e alla rappresentanza negoziale delle organizzazioni sindacali, relegandolo così ad atto dell’autonomia privata , con la diretta conseguenza della sua limitata e complessa, sul piano soggettivo e oggettivo, efficacia giuridica .
Concreto è stato, pertanto, il problema di come far coincidere la natura privatistica del contratto collettivo con un’efficacia normativa che non è tipica degli atti di diritto privato.
La soluzione è stata individuata, dalla dottrina e dalla giurisprudenza, in ragione del ruolo centrale parapubblicistico sempre più assolto dal contratto collettivo di diritto comune, con un’inevitabile e correlata efficacia reale , cosicché la sua selezione - quale attività propedeutica alla gestione funzionale dei rapporti individuali di lavoro – è un’opera particolarmente ed estremamente delicata; il tutto soprattutto se si tiene in considerazione la circostanza che il legislatore in diverse occasioni, rispetto alla ricorrenza di particolari caratteristiche oggettive dei soggetti stipulanti, decreta non solo la loro legittimazione a operare interventi integrativi o derogatori a norme di legge , diversamente non azionabili , ovvero il riconoscimento di particolari benefici economici e contributivi , ma anche la ricorrenza di specifiche fattispecie criminose .
L’indicazione legislativa di un criterio stringente di selezione dell’agente negoziale palesa sempre più la volontà incessante di abdicare parte della propria attività normativa, di un cambio di paradigma autorizzatorio, attribuendo così precipue funzioni regolatorie non a tutto il sistema della contrattazione collettiva, come avviene con le norme di rinvio di prima generazione , bensì solo a determinati accordi collettivi.
Si pensi, uno fra tutti, all’art. 51 del T.U. dei contratti di lavoro che riconosce, quale fonte collettiva delegata, i soli “contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria”.
Giustappunto, la funzione normativa delegata non è riconosciuta a qualunque fonte negoziale, tant’è che rispetto a determinate materie giuslavoristiche, che il legislatore ritiene particolarmente “delicate” e degne di peculiare tutela, penso alla sicurezza sociale, alla flessibilità contrattuale o agli incentivi all’occupazione, solo l’applicazione di precipui accordi collettivi legittima la condotta del datore di lavoro, tenendolo al riparo da potenziali azioni amministrative ovvero giudiziarie.
Centralità normativa del contratto collettivo che invero, producendo effetti reali che trascendono la sfera giuridica delle parti sottoscrittrici, rileva recentemente dalla conversione in legge del decreto Lavoro, laddove il legislatore condiziona la conservazione di specifiche misure di sostegno economico e di inclusione sociale e professionale alla circostanza che la retribuzione garantita al percettore non rispetti, rectius sia inferiore ai minimi salariali previsti dai contratti collettivi di cui all’art. 51 del D.Lgs. n. 81/2015 .
Meccanismi legali di rinvio alla parte economica degli accordi collettivi qualificati che presentano, comunque, precipue criticità, come avrò modo di esaminare più compiutamente infra, tant’è che tutti gli accordi collettivi, in linea di principio generale, assurgono a parametro esterno di commisurazione per l’identificazione del giusto salario , purché sottoscritti da attori sindacali del settore di operatività del datore di lavoro o, in mancanza, di settori analoghi, affermandone mediatamente l’atipica efficacia erga omnes .
Possiamo, quindi, ritenere che rispetto alla loro portata eminentemente economica, tutti i CCNL hanno pari dignità ma, è bene precisarlo, non senza incontrare limiti, ben potendo il lavoratore fornire in giudizio la prova contraria che il trattamento economico garantito dagli stessi non soddisfa i canoni costituzionali della proporzionalità e della sufficienza , unici baluardi inviolabili e non negoziabili.
La scelta discrezionale del CCNL, da parte del datore di lavoro, diventa così, ineluttabilmente, un passaggio sostanziale di fondamentale importanza, con riflessi significativamente rilevanti pure sul piano previdenziale , che non va sottovalutato e liquidato semplicisticamente in funzione della tenuta del principio della libertà sindacale potendo generare, una sua impropria individuazione, inevitabili e plausibili riverberi negativi, il cui impatto è difficilmente preventivabile, sia sul piano della competitività delle imprese che della parità di trattamento tra i lavoratori e della certezza del diritto ; invero, quale conseguenza dell’assenza nel nostro ordinamento del salario minimo, si lascia al giudice, in caso di contenzioso, ovvero limitatamente all’amministrazione pubblica, in sede ispettiva , significativo potere decisionale nell’identificazione della giusta retribuzione .
Giustappunto con l’analisi che segue, presentando l’assunto non poche criticità applicative, attraverso una ricostruzione letterale, sistematica e teleologica che tenga pure conto dei recenti e significativi orientamenti giurisprudenziali, proverò a fornire all’operatore del diritto del lavoro tutta una serie di elementi utili a giustificare ed evocare, rappresentandone il fondamento, la definizione legale di un minimale retributivo.

2 – La funzione corrispettivo e sociale della retribuzione costituzionale
Propedeutica allo sviluppo del presente lavoro è l’analisi delle prescrizioni costituzionali in materia retributiva, contenute nell’art. 36, c. 1, che, in ragione della posizione verticistica ricoperta nell’ambito della gerarchia delle fonti, attesta e cristallizza le prerogative che la stessa remunerazione, a cui il lavoratore ha diritto, deve soddisfare per essere considerata “giusta”, ovvero la proporzionalità e la sufficienza .
Sono, dunque, due i principi cardine sottesi alla retribuzione costituzionale, che si integrano a vicenda tali da affermare la finalità mista sottesa alla norma, pure di natura sociologica , ossia quella di assicurare al prestatore di lavoro, da un lato, in forza di un’obbligazione corrispettiva, il salario correlato alla quantità e alla qualità della prestazione lavorativa eseguita (c.d. criterio positivo), dall’altro, in ragione di un’obbligazione sociale, il mezzo funzionale non inferiore agli standard minimi necessari alla realizzazione sua e della famiglia nelle relazioni sociali (c.d. limite negativo) .
Come infatti ha avuto modo di rappresentare il Giudice delle leggi, lo stipendio costituzionale assume più la portata di compenso che di mero corrispettivo dell’attività lavorativa, non potendosi risolvere il sinallagma contrattuale in una mera relazione biunivoca tra prestazione lavorativa e retribuzione, in ragione del fatto che il lavoratore nel rapporto di lavoro impegna non solo le proprie energie, ma la sua stessa persona, coinvolgendovi una parte dei suoi interessi e rapporti personali e sociali .
E’ evidente, dunque, che la sufficienza del salario, nell’esulare da valutazioni strettamente connesse a logiche negoziali ed enfatizzando la dimensione personale, è considerata il nucleo duro della retribuzione a presidio del non eccessivo scostamento tra minimi retributivi e costo della vita , e assegna al fattore lavoro un rilevante compito antropologico, di progresso sociale della persona umana, quale cardine del funzionamento della nostra Repubblica .
Il diritto alla retribuzione, così come concepito, si traduce quindi in un diritto sociale di rango costituzionale, regolato da principi di ordine pubblico, tale da renderlo immune da qualunque altra fonte, legale o convenzionale che sia, collocandolo tra i diritti fondamentali dei lavoratori; resta tuttavia, in concreto, la notevole criticità rispetto alla quantificazione monetaria del carattere della sufficienza, impresa indubbiamente non facile, risolta dalla giurisprudenza considerandolo assorbito e soddisfatto dal criterio della proporzionalità .
Ecco che, in una logica di ponderazione dei caratteri costituzionali in materia, aspetto particolarmente dibattuto in dottrina , sino ad oggi è stato dato per acquisito il paradigma secondo cui la proporzionalità, garantita dalle tabelle salariali dei contratti collettivi e, in melius, da plausibili accordi individuali, assume una posizione di predominanza, cosicché la sufficienza ricopre un ruolo sussidiario e correttivo .
Su un piano eminentemente applicativo, e come avrò modo di declinare più compiutamente infra, la norma costituzionale, pur considerandone l’originaria valenza programmatica , ha trovato funzione precettiva attraverso l’applicazione erga omnes delle clausole retributive contenute, di norma, nei CCNL, in ragione dei notevoli interventi del giudice costituzionale e di legittimità, nonché della dottrina, supplendo così alla mancata attuazione della seconda parte dell’art. 39 Cost..
Con tale escamotage ermeneutico, tecnico-giuridico, che di fatto ha valorizzato uno stretto collegamento tra l’art. 36 e l’art. 39 Cost. , sono stati individuati mediatamente i minimali retributivi confacenti ai principi costituzionali della proporzionalità e della sufficienza per ciascuna categoria merceologica, garantendo al lavoratore - in linea di principio generale - il soddisfacimento di un diritto soggettivo alla giusta retribuzione.
Le prerogative costituzionali assumono pur sempre una posizione fondamentale di riferimento, necessarie e inviolabili, immanenti al salario congruo, cosicché le tariffe retributive di base contenute nei contratti collettivi, pur se dotate di ogni crisma di rappresentatività, hanno valore di mero parametro esterno di congruità, ben potendo essere oggetto di contestazione da parte del lavoratore in quanto considerate non conformi alle prescrizioni costituzionali de quibus.

3 – Retribuzione legale e contrattuale: sindacato giudiziale di costituzionalità
Le considerazioni che precedono ci portano a sostenere che sostanzialmente il CCNL rappresenta lo strumento tecnico-operativo, ovvero la fonte primaria per formalizzare il perfezionamento del requisito della proporzionalità del salario, in funzione della definizione della retribuzione giornaliera/oraria e mensile, e della sufficienza, assumendo le clausole economiche, rectius la retribuzione base, il parametro orientativo di riferimento per il soddisfacimento del trattamento economico minimo garantito .
Il tutto quale diretta conseguenza di un sistema ordinamentale ad oggi ancora incompiuto, riconducibile alla mancata attuazione dei precetti costituzionali contenuti nella seconda parte dell’art. 39 Cost. , cosicché è per intercessione della magistratura che, dovendo porre dei correttivi ermeneutici necessari all’efficace funzionamento del sistema lavoristico e alla tutela dei lavoratori, anche per motivi di opportunità sociale, ha affermato il ruolo strategico e di parametro di riferimento dei contratti collettivi di settore, o di categoria affine, qualificando così l’art. 36 Cost. norma immediatamente precettiva in quanto direttamente invocabile dal lavoratore nelle sedi giudiziarie per inadeguatezza della retribuzione .
In particolare, la Cassazione, nel considerare i livelli retributivi dei contratti collettivi idonei a realizzare, per naturale vocazione, le istanze sottese ai concetti costituzionali della proporzionalità e della sufficienza , ha edulcorato, seppure parzialmente, l’anima privatistica del contratto collettivo, in una prospettiva pubblicistica, riconoscendone di fatto una velata, quanto impropria, efficacia soggettiva ultra partes.
Si tratta di un assioma applicabile a tutti i contratti collettivi, quali espressione dell’autonomia contrattuale, trovando la sua legittimazione normativa nell’art. 39 Cost., cosicché a ciascun agente sindacale è riconosciuto il ruolo di autorità salariale, in relazione sia all’esercizio della libertà e del pluralismo sindacale , che al fatto che meglio di altri conoscono le dinamiche sempre più fluttuanti del mondo del lavoro.
Invero, in linea di principio, non esistendo nel nostro ordinamento del lavoro, nell’ambito dello stesso settore merceologico, la prevalenza – in termini di efficacia soggettiva - di un accordo collettivo rispetto ad un altro, il trattamento economico complessivo fissato dai CCNL comparativamente più rappresentativi , pur assurgendo a parametro esterno di riferimento , non ha valore assoluto ai fini del soddisfacimento della congruità della retribuzione .
Diversamente, anche qualora fosse il legislatore a riconoscere ai fini retributivi efficacia obbligatoria solo a taluni contratti collettivi, in carenza di un’attuazione delle prescrizioni costituzionali ex art. 39 Cost., si verrebbe a palesare una indubbia situazione di illegittimità.
Ecco perché, per relationem, anche le clausole economiche dei contratti collettivi stipulati da organizzazioni sindacali di “minore” rappresentatività sono legittime quali termine di riferimento per la determinazione della giusta retribuzione, ma solo nella misura in cui rispettano o, addirittura, migliorano i minimi salariali dei contratti c.d. leader .
Possiamo, quindi, giungere a ritenere, con cognizione di causa, su un piano ermeneutico e applicativo, che la retribuzione definita nella parte normativa del CCNL di settore o, in difetto di questo, affine, rappresenta lo standard minimo da assicurare a ciascun lavoratore dipendente , calibrato in ragione della sua attività lavorativa esercitata in concreto e, dunque, del suo correlato inquadramento contrattuale, purché il medesimo minimum, qualora riconducibile a contratti collettivi non leader, risulti almeno allineato alle clausole economiche di quelli dotati della maggiore rappresentatività comparata .
Centralità del paradigma comparativo tra le diverse fonti collettive similari e per mansioni identiche che, pur assegnando la patente di affidabilità, ma non per questo attribuendone efficacia soggettiva generale, ai contratti collettivi stipulati dalle associazioni comparativamente più rappresentative, rileva una prima manifestazione di crisi e di perdita di appeal del grado di “rappresentatività”, elemento sì sufficiente, ma non necessario a garantire a determinati attori sindacali il ruolo di unica e sovrana autorità salariale per l’affermazione dei principi ex art. 36 Cost..
Attività pratica di raffronto non certamente semplice, stante tra l’altro l’assenza di una definizione normativa della struttura della retribuzione che permetta, con un minimo di certezza, di intercettare gli elementi contrattuali che concorrono a garantire e perfezionare la congruità della stessa.
E’ necessario, pertanto, ricorrere al concetto di “minimo costituzionale”, inteso non quale sommatoria di tutti gli elementi e istituti retributivi tabellati da un precipuo contratto collettivo, tali da caratterizzare il trattamento economico complessivo del lavoratore, ma considerando l’insieme delle sole componenti ordinarie non tipicamente contrattuali, al netto quindi dei compensi aggiuntivi . Questa asimmetria ermeneutica consente di evitare una plausibile violazione della seconda parte dell’art. 39 Cost., laddove si andrebbe a riconoscere, illegittimamente, efficacia obbligatoria ad un solo e determinato contratto collettivo .

4. Le logiche pubblicistiche del grado di rappresentatività sindacale
Avendo rappresentato la circostanza della relatività del parametro retributivo, anche se fissato da contratti collettivi dotati di un certo grado di rappresentatività, può tornare utile alla trattazione comprendere le ragioni – per certi versi ancora oggi attuali – sottese alla misurazione della forza dei soggetti sindacali, tale da affermare nei fatti una differenziazione di trattamento tra le diverse organizzazioni sindacali, da parte sia del datore di lavoro che dello Stato .
Quello della maggiore rappresentatività, prima, e della rappresentatività comparata, dopo, rappresentano criteri selettivi che non hanno mai trovato, nel nostro ordinamento e in dottrina , una loro precipua definizione, dando adito a diverse interpretazioni giurisprudenziali e amministrative che non hanno tuttavia agevolato il lavoro degli operatori del diritto del lavoro.
A partire dal 1996, si è assistito all’affermarsi di un new deal normativo battezzato dalla legge finanziaria , ispirato da una significativa valorizzazione dell’effettivo consenso come metro di democrazia anche nell’ambito dei rapporti tra lavoratori e sindacato , sempre più polarizzato sui sindacati (confederali e/o di categoria) “comparativamente più rappresentativi”, in luogo di quelli “maggiormente rappresentativi” , palesando una voluntas legis orientata a circoscrivere ulteriormente il campo di azione della normativa a sostegno dell’azione sindacale.
Su un piano empirico, il cambio di paradigma selettivo ha assunto sempre più frequentemente una valenza in ragione degli effetti, nel senso o di selezionare gli atti per contrastare il dumping contrattuale, qualora si sia in presenza di più contratti collettivi che insistono nella stessa categoria e territorio, alcuni dei quali sottoscritti da soggetti sindacali di dubbia o non accertata rappresentatività, ovvero per individuare i sindacati legittimati a negoziare in via esclusiva , tecnica legale di rinvio contenuta non solo nel d.lgs. n. 276/2003 , ma ripresa pure dal d.lgs. n. 81/2015 , avendo entrambe le norme - come comune denominatore spaziale - il “piano nazionale” quale livello geografico necessario per la misurazione della rappresentatività.
Meccanismo di investitura normativa pubblicistica di alcune sigle sindacali, a discapito di altre, uscito rafforzato eminentemente in funzione della metamorfosi selettiva di cui innanzi, che nasce anche con l’obiettivo di dotare il nostro modello lavoristico contrattuale di un sistema regolamentare “flessibile” di relazione tra la fonte legale e la fonte collettiva, in luogo dell’eteronomia normativa diretta, così da favorire la conformazione delle regole lavoristiche alle fluttuazioni spietate del mercato del lavoro, di carattere sociale, economico e tecnologico.
Ciò è avvenuto nel corso del tempo attraverso la tecnica legislativa della delega mirata di quote di potere pubblico alle parti sociali, sia con finalità ablativa che acquisitiva, in una dimensione di deregolazione controllata .
Precipuo criterio di selezione degli attori sindacali che, tra l’altro, ha tenuto riguardo alla sua conformazione alla legge costituzionale, in ragione di diverse pronunce del Giudice delle leggi, laddove la norma ordinaria circoscrive specifici diritti e prerogative ai soli sindacati in possesso di una determinata soglia di rappresentatività , posta al di fuori delle dinamiche di autotutela, anche in funzione di un’ulteriore declinazione della portata immediatamente precettiva dell’art. 39, c. 1, Cost. .
Con specifico riferimento, poi, al tema in trattazione, ovvero alla rilevanza normativa della retribuzione contrattuale per effetto dell’applicazione mediata ultra partes dei contratti collettivi di categoria, non possiamo sottacere il fatto che già la Carta costituzionale, ex art. 39, c. 4 , ha introdotto nel nostro ordinamento repubblicano il concetto di rappresentatività giustappunto per circoscriverne la portata degli effetti giuridici.
Ma come è oramai noto a noi tutti, se non altro agli addetti ai lavori, creando non poche criticità funzionali, si tratta di un precetto che ad oggi – pur non formalizzando una riserva esclusiva a favore della contrattazione collettiva nondimeno ai fini del giusto salario minimo costituzionale - non ha ancora trovato una sua piena e concreta applicazione per effetto di una legge ordinaria, evidentemente in considerazione di ragioni di carattere politico-tecnico, ovvero del timore da parte delle stesse associazioni sindacali di essere private di quella libertà e autonomia privatistica immanenti al tessuto costituzionale, che non ammette ingerenze statali.

5. La scelta del contratto collettivo
Considerate le analisi che precedono, e venendo così alla scelta del contratto collettivo applicabile in azienda, il datore di lavoro, non affiliandosi ad alcuna organizzazione sindacale firmataria di un dato accordo collettivo , ovvero non aderendo allo stesso contratto esplicitamente o implicitamente , è libero di adottare discrezionalmente qualsivoglia contrattazione collettiva , in teoria anche inconferente rispetto al proprio settore di appartenenza , pur palesandosi in tal guisa un inquadramento contrattuale del tutto innaturale .
Tesi, quella dell’autodeterminazione della contrattazione collettiva, tale da poter comportare per il datore di lavoro il ricorso a un contratto collettivo anche di un settore produttivo diverso da quello in cui lo stesso opera, che risulta però mitigata pure dalla circostanza che il riferimento giurisprudenziale al salario contrattuale integra solo una presunzione iuris tantum di conformità alla Costituzione, suscettibile di accertamento contrario .
Vige, invero, un diritto del lavoratore, che invoca l’intervento giudiziale deducendo l’illegittimità costituzionale del suo trattamento economico, non soltanto di richiamare il contratto collettivo della categoria di pertinenza, ma anche di “uscire” dal salario contrattuale ivi fissato .
Plausibile paradigma discratico, fondato sulla portata relativa della categoria merceologica, che trova un suo riconoscimento ordinamentale nel nuovo “Codice dei contratti pubblici” laddove, in ragione del rispetto del principio - tra i vari fissati dalla medesima legge speciale - della legalità , la stazione appaltante pubblica ovvero gli enti concedenti possono “imporre”, rectius indicare il contratto collettivo che l’operatore economico è tenuto ad applicare riguardo all’oggetto dell’appalto , e non invece all’attività economica esercitata dallo stesso ; ma ciò postula che lo stesso accordo garantisca ai lavoratori dipendenti un trattamento economico, in primis, e normativo, poi, in melius rispetto a quello differentemente applicato dall’appaltatore o subappaltatore .
Emerge, così, su un piano eminentemente sostanziale, un criterio selettivo della fonte collettiva, tale da legittimare l’assegnazione dell’appalto, basato non segnatamente sul carattere soggettivo dell’agente sindacale della maggiore rappresentatività comparata, che resta sì parametro relativo di riferimento, quanto piuttosto su un parametro oggettivo consistente nell’“equivalenza” delle tutele economiche garantite attraverso l’eventuale e diverso CCNL applicato dalle imprese , affermando in tal guisa il rispetto del principio costituzionale ex art. 39 Cost. .
Portata dell’equivalenza, però, che risulta essere più ampia di quella richiesta ai fini dell’identificazione della giusta retribuzione di cui ai canoni ex art 36 Cost., dovendosi considerare non solo le clausole economiche, ma anche – in seconda battuta - quelle normative del contratto collettivo .
Ritornando al criterio guida giurisprudenziale, affermatosi sino ad oggi, di rinvio – relativo – alle tabelle retributive dei contratti collettivi per attuare il precetto del giusto salario , va tuttavia segnalato un recentissimo e significativo orientamento ermeneutico, di cui dirò infra, che di fatto sta depotenziando non poco quel punto di equilibrio che era stato raggiunto nel 2015 anche grazie all’intervento del Giudice delle leggi.
Nel merito, la Corte Costituzionale nel porre un inevitabile e opportuno rimedio sostanziale al fenomeno del conflitto tra diversi contratti collettivi operanti nel medesimo settore, ha avuto modo di precisare che il criterio selettivo della rappresentatività comparata degli agenti sindacali comunque rileva – per la valutazione comparativa - per garantire il rispetto dei canoni costituzionali ex art. 36.
Comparazione che deve avvenire non solo sotto un profilo soggettivo, consistente nell’individuazione delle organizzazioni comparativamente più rappresentative, ma anche e – aggiungerei - in primis, sotto un profilo oggettivo, concretizzandosi nella perimetrazione del settore merceologico entro cui verificare la rappresentatività delle sigle medesime.
In carenza della pluralità di CCNL nello stesso settore, la questione della comparazione sotto il profilo soggettivo logicamente non si pone .
Si è trattato, in sintesi, di un paradigma giudiziario tale da garantire sul piano operativo, da un lato, il rispetto dei dettami costituzionali in materia di libertà e pluralismo sindacale, e stigmatizzare, dall’altro, il fenomeno del dumping salariale provocato dalla pletora dei cc.dd. contratti pirata .

6. Il lento declino della funzione economica della contrattazione collettiva
Come abbiamo argomentato innanzi, il trattamento economico minimo fissato dai CCNL di categoria, e non solo, rappresenta unicamente un parametro esterno, indiretto ed orientativo, utile a consentire agli operatori del diritto - con non poche difficoltà - l’identificazione del salario congruo.
Non possiamo, quindi, oggi sostenere in assoluto che esista una coincidenza ovvero un parallelismo perfetto tra la retribuzione contrattuale e quella equa, tant’è che lo stesso valore convenzionale è soggetto ad una presunzione relativa di adeguatezza ai crismi costituzionali.
Per relationem, in caso di conflittualità promossa dal lavoratore che contesti l’insufficienza del suo salario , la sua quantificazione sarà rimessa alla libera determinazione del giudice del merito, anche svincolandosi da un dato contratto collettivo e a prescindere dal grado di rappresentatività dei soggetti stipulanti , dovendo agire secondo equità e motivare opportunamente e puntualmente la propria decisione .
Resta, quindi, sempre attuale e saldo il principio esegetico secondo cui i giudici, pur potendo ricorrere in via preliminare ai parametri della giusta retribuzione definiti nel CCNL , in ossequio alla discrezionalità e alla riserva di competenza normalmente attribuita alle organizzazioni sindacali e datoriali quali autorità massime salariali, non esime gli stessi da un plausibile intervento correttivo a garanzia della precettività dell’art. 36 Cost. ; ciò a prescindere dall’esistenza o meno di una specifica contrattazione di categoria .
Laddove l’esito del giudizio dovesse risultare poi negativo, il giudice di prime cure potrà disapplicare - ex officio - i livelli retributivi con conseguente nullità delle precipue clausole economiche , e ciò anche nel caso in cui sia una legge a richiamare i precipui valori contrattual-collettivi, come quella in materia di cooperative e in ogni altro settore , evitando così il perfezionamento di un illegittimo rinvio in bianco alla contrattazione collettiva .
Tali leggi, infatti, e non potrebbe essere diversamente configurandosi altrimenti un grave vulnus costituzionale, non fissano un salario legale, ma rinviano in via parametrica ai livelli retributivi fissati dai contratti collettivi nazionali di settore, o categoria affine, escludendo il rischio di un’interferenza eteronoma sull’azione sindacale e sulle dinamiche contrattuali, ma anzi con funzione di sostegno e riconoscimento di tale ruolo .
Di diverso avviso, recentemente, analizzando le ipotesi normative di indicazione dei parametri minimi di comparazione alla luce dell’assenza di un salario minimo per legge, è il magistrato amministrativo della Lombardia secondo cui, poiché l’individuazione del contratto collettivo è prerogativa del datore di lavoro, tranne il caso in cui lo stesso accordo collettivo contenga previsioni contrarie alla legge ovvero riferibili a categorie del tutto disomogenee con quelle in cui opera l’impresa, tale determinazione – quindi anche riguardo alle clausole economiche ivi fissate – non è sindacabile nel merito in sede giurisdizionale, né tantomeno da parte degli organi di vigilanza .
Si tratta, in verità, di una decisione ragionevolmente poco sostenibile sul piano giuridico, certamente più conservatrice e conforme alla consuetudine esegetica passata, che va a rilegittimare sic et simpliciter il ruolo della contrattazione collettiva nell’inverare la norma costituzionale, considerato che l’identificazione del giusto salario non può ridursi a un’automatica e supina applicazione delle clausole economiche pattizie, attuando così un imperfetto rinvio in bianco agli stessi accordi; nulla impedisce, invero, che il trattamento retributivo contrattuale di fatto garantito possa risultare fisiologicamente lesivo dei precetti costituzionali.
E’ inevitabile e corretto, pertanto, ritenere la proporzionalità e la sufficienza concetti autonomi e ben distinti dalle intenzioni delle parti sociali, che si concretizzano nella contrattazione collettiva quale risultato delle dinamiche ed esigenze tipiche del settore di competenza.
La verifica spintanea dell’adeguatezza della retribuzione non può, quindi, esaurirsi certamente, per il giudice ordinario, in una mera presa d’atto del contenuto economico della volontà degli agenti sindacali, dovendo spingersi, in ragione dell’indubbia preminenza della Costituzione nella gerarchia delle fonti, in una valutazione sussuntiva più lata, anche in relazione alla stessa Carta costituzionale, così come della volontà del legislatore ordinario.
Non esiste, infatti, nel nostro ordinamento domestico, in funzione della determinazione del salario minimo, una riserva di legge né tantomeno a favore della contrattazione collettiva . Il fatto di considerare il trattamento economico dei contratti collettivi un mero parametro esterno di orientamento, rispetto al quale il giudice possa discostarsi, anche ex officio, non determina neppure una violazione del principio di libertà e di autonomia sindacale, posto che la materia del contendere è la decretazione della giusta retribuzione, ossia un profilo prettamente individuale del rapporto di lavoro.
Sulla scorta di tali ragionamenti, è certamente condivisibile su un piano giuridico il principio ermeneutico sotteso alla più recente e cospicua posizione nomofilattica, con decisioni alquanto simili che, ridimensionando il ruolo costituzionale della contrattazione, enfatizza e declina significativamente il carattere ontologico della sufficienza della retribuzione.
Viene sovvertito l’ordine di priorità – così come avvalorata da giurisprudenza consolidata – dei principi costituzionali della proporzionalità, criterio oggettivo definito dalla parte economica dei contratti collettivi, e della sufficienza, per cui la decisione giudiziaria non potrà esaurirsi nella mera quantificazione della stessa proporzionalità della retribuzione, bensì dovrà tener conto parimenti della sua attitudine a garantire al lavoratore, e alla sua famiglia, una vita libera e dignitosa.
Nel merito, è stato affermato che compete ai giudici, in quanto interpellati dal lavoratore, sindacare la soglia minima del salario giusto costituzionale, anche servendosi a fini parametrici del trattamento retributivo stabilito in altri contratti collettivi di settori affini o per mansioni analoghe, al di sotto della quale non può attestarsi la retribuzione contrattuale, data pure la sua immanente e significativa funzione sociale ed essendo gli stessi precetti della proporzionalità e della sufficienza gerarchicamente sovraordinati non solo alla contrattazione collettiva, ma anche alla legge ordinaria .
Non solo. La stessa Suprema Corte ritiene utile per il giudice, onde identificare un importo idoneo a garantire un’esistenza libera e dignitosa, spingersi ben oltre gli stessi valori contrattuali e allargare l’indagine valutativa ricorrendo pure ad altri fattori esogeni equitativi quali la soglia di povertà, così come calcolata ogni anno dall’Istat, l’importo della Naspi o della Cig , o il reddito di cittadinanza .
In altre parole, anche recependo le indicazioni sovranazionali, deve essere verificata la capacità dello stipendio di fatto a soddisfare non solo i bisogni materiali identificati in un dato paniere di beni e servizi essenziali per il sostentamento vitale - differenziandolo in ragione dell'età, dell'area geografica di residenza - del singolo lavoratore e dei componenti della famiglia, ma pure bisogni immateriali, tale da garantirgli una vita non solo non povera, ma anche dignitosa, quali la “necessità di partecipare ad attività culturali, educative e sociali” .
Nella stessa direzione europea, la valutazione complessiva potrebbe basarsi sul “confronto tra il salario minimo netto, la soglia di povertà e il potere di acquisto dei salari minimi” .
In sintesi, tutti elementi e passaggi - contrattuali e non - che possono entrare in gioco per concorrere al raggiungimento degli obiettivi della dignità del lavoro, dell’inclusione sociale e del contrasto alla povertà, ma che, per altro verso, possono generare, sul piano sostanziale, una plausibile eccessiva discrezionalità dell’organo giudicante, un’evidenziazione del relativismo giudiziario, con effetti difficilmente e previamente stimabili, dovendo il giudice appurare che la retribuzione garantita corrisponda ad “una ricompensa complessiva che non ricada sotto il livello minimo, ritenuto, in un determinato momento storico e nelle concrete condizioni di vita esistenti, necessario ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa” .
E’ altrettanto vero, però, che lo stesso magistrato non può comunque spingersi oltre il mero arbitrio, dovendo approcciarsi, in primis, alla contrattazione collettiva con la massima prudenza e rispetto e, laddove se ne discosti, utilizzare un’adeguata motivazione “giacché difficilmente è in grado di apprezzare le esigenze economiche e politiche o sottese all'assetto degli interessi concordato dalle parti sociali” .
Pur tuttavia, in questo solco, i Tribunali, nel rivendicare ed evocare con decisione un ruolo di garanti primari delle retribuzioni, collocano in seria crisi il meccanismo giurisprudenziale consolidato di adeguamento del salario ex art. 36 attraverso il ricorso agli standard minimi fissati dai contratti collettivi di categoria comparativamente più rappresentativi a livello nazionale, decretando in tal modo la fine dell’egemonia salariale dei sindacati leader e, dunque, una crisi del sistema interconfederale, manifestando una palese sfiducia non solo nei loro confronti, ma anche per relationem del legislatore.
E’ certamente un intervento di supplenza giudiziaria, meno sensibile alle dinamiche e logiche della contrattazione collettiva, che potrebbe ragionevolmente esorbitare, rendendo evidente il rischio di un notevole soggettivismo giudiziario, andando ben oltre la mera denuncia dell’inerzia del potere legislativo nel definire un livello retributivo minimo, ovvero delle parti sociali nel decretare – anche attraverso opportuni rinnovi - il giusto salario, stigmatizzando così il loro atteggiamento nel farsi influenzare sempre più da un meccanismo fin troppo soggetto alle logiche concorrenziali, in luogo di un doveroso approccio che si ponga in netto contrasto rispetto alle forme di competizione salariale al ribasso .
Così facendo, la tutela della retribuzione costituzionale diviene di fatto un diritto incalcolabile ex ante, non cristallizzato in valori non negoziabili, con ragionevoli effetti di dilatazione dell’alea dei giudizi, di differenziazioni retributive e problemi operativi, come dimostrano pure i recenti interventi della procura milanese nel settore della vigilanza privata e servizi fiduciari , che saranno ragionevolmente forieri di un processo inflazionistico del contenzioso, ponendo in evidenza criticità sistemiche sul piano della certezza del diritto e della parità di trattamento economico tra i diversi lavoratori e imprese operanti nella medesima categoria.

7. De iure condendo: il salario minimo, tra legge e contrattazione collettiva
E’ indubbio che dall’anamnesi normativa, giurisprudenziale e dottrinale di cui innanzi, emerga un quadro del modello contrattual-collettivo domestico oramai in crisi, depotenziato e delegittimato, in genere ricondotto e rappresentato – dal lato dei lavoratori - dalle tre grandi confederazioni sindacali, in ragione della loro maggiore rappresentatività/rappresentatività comparata .
Criticità emersa soprattutto in ragione della crescente proliferazione, sovente nel medesimo settore merceologico, di contratti collettivi, talvolta con ambiti di operatività piuttosto lati, invadendo l’altrui sfera di applicazione, sottoscritti da agenti sindacali spesso improvvisati, privi o quantomeno dotati di un limitato grado di rappresentatività.
Una giungla contrattuale così variegata e contorta, la carenza di punti fermi normativi e, al tempo stesso, la recente affermazione di un indirizzo ermeneutico sempre più calibrato sul concetto sociale di salario costituzionale, pone il meccanismo di mediazione giudiziale sino a oggi utilizzato - in ragione di una vacatio ordinamentale sul salario minimo - di rinvio alle tariffe economiche dei contratti collettivi, in una condizione di stallo.
Diventa ineluttabile, quindi, affrontare concretamente la spinosità attraverso un intervento del legislatore, auspicato altresì dal contesto ordinamentale sovranazionale, in funzione del conferimento al nostro sistema giuslavoristico di una maggiore certezza applicativa, tutelando al contempo anche la buona fede dei datori di lavoro rispetto alla scelta di un determinato contratto collettivo per regolamentare il rapporto di lavoro dei propri dipendenti.
Sul punto, aspetto pregiudiziale, non può che essere che nel nostro ordinamento del lavoro non esiste alcuna riserva di legge, né tantomeno una esclusiva a favore della contrattazione collettiva, dovendo inevitabilmente e ragionevolmente convenire, al netto di qualunque condizionamento partitico/ideologico, sul fatto che sono le parti sociali i soggetti privilegiati per la determinazione del minimale retributivo in quanto conoscitori puntuali delle specificità e delle dinamiche salariali dei diversi settori merceologici.
Questo perché il nostro è un mercato del lavoro storicamente incentrato su un sistema di relazioni industriali e contrattazione collettiva, tant’è che lo stesso legislatore ha enfatizzato, e continua a farlo sempre in più circostanze, il ruolo pubblicistico della contrattazione collettiva, seppure qualificata.
Approccio filosofico della loro promozione che sposa i desiderata europei, contenuti nella recente Direttiva Ue 2022/2041 del 19 ottobre 2022 in materia di salari minimi adeguati nell’Unione europea, laddove si invitano “gli Stati membri a promuovere il dialogo sociale e la contrattazione collettiva in vista della determinazione dei salari” , cosicché “la tutela garantita dal salario minimo mediante contratti collettivi è vantaggiosa per i lavoratori, i datori di lavoro e le imprese” .
Pertanto, pur condividendo - sul piano etico - il principio generale contenuto nella recente proposta normativa delle forze politiche di opposizione in Parlamento , non posso esimermi dal dissentire circa il metodo indicato, che nell’imporre per legge una tariffa minima (che siano 9 euro o altro, per il momento, poco importa), finisce per ingabbiare, rectius condizionare l’azione salariale degli agenti sindacali, prima ancora che dei singoli datori di lavoro.
Allo stesso tempo, la stessa iniziativa di parte politica, oltre a prestare il fianco a plausibili profili di incostituzionalità rispetto l’art. 39 Cost. , ingenera non pochi problemi parimenti applicativi per via della complessa struttura della retribuzione in Italia - quali voci retributive comprendere nella tariffa minima legale? - e dei diversi parametri utilizzati, volta per volta, dai sistemi di contrattazione collettiva di ciascun settore.
Giova ricordare, tra l’altro, che la strada prospettata del salario minimo legale non trovò concordi neanche i Padri costituenti che, nel corso del dibattito in seno all’Assemblea costituente circa l’art. 36 Cost., in funzione di norma programmatica, non fu ritenuto opportuno fissare una riserva di legge , palesando così una precisa volontà a non condizionare la modalità che garantisse la giusta retribuzione, se non mediatamente attraverso il meccanismo procedurale ex art. 39 Cost., ad oggi rimasto incompiuto .
Non può che essere pertanto, la contrattazione collettiva, considerato l’elevatissimo grado di copertura nel nostro Paese, il giusto strumento per determinare il trattamento economico e – aggiungerei – normativo - dei lavoratori, in ragione di un limite oggettivo della legge di adeguarsi nel tempo, sollecitamente, alle inevitabili fluttuazioni del mercato e dei diversi settori merceologici.
Altro punto di forza a favore della contrattazione collettiva è che la stessa, per contrastare la perdita del potere di acquisto dei salari, potrebbe prevedere a livello nazionale elementi integrativi, con finalità perequativa, su base territoriale, affinché il lavoratore possa percepire una retribuzione che abbia pari potere d’acquisto a seconda del luogo in cui viene resa la prestazione.
Diventa necessario, pertanto, confermando così lo spirito sotteso sul tema al testo approvato dal CNEL , attuare la seconda parte dell’art. 39 Cost., attraverso una legge sulla rappresentanza sindacale che, conferendo ai sindacati registrati il potere di stipulare accordi con un’efficacia pubblicistica, sappia riaffermare il ruolo di autorità salariale delle parti sociali e, per relationem, determinare l’efficacia ultra partes della contrattazione collettiva di categoria.
I contratti collettivi diventerebbero, in tal guisa, vincolanti per tutti i lavoratori appartenenti al settore merceologico cui lo stesso contratto si riferisce, favorendo il contrasto alla frammentazione delle sigle sindacali e datoriali e alla connessa proliferazione dei contratti collettivi, nonché l'affermazione del principio della certezza del diritto sia per i lavoratori, quanto per i datori di lavoro.
L’efficacia generalizzata dei contratti collettivi consentirebbe così, da un lato, di apprestare un freno alla concorrenza sleale, incoraggiando la competitività delle imprese, dall’altro di affermare la parità di trattamento per i dipendenti anche riguardo alla regolamentazione di ulteriori aspetti inerenti al loro rapporto di lavoro, non solo quelli riconducibili alle clausole economiche, contenuta nella parte normativa degli stessi contratti.
Invero, rileva la circostanza, poco evidenziata nei dibattiti sul salario e dagli addetti ai lavori, che lo stesso accordo collettivo non è eminentemente finalizzato alla determinazione del prezzo del lavoro, in alternativa alla legge, ma in un’ottica sistemica assurge ad una funzione normativa più complessa, intervenendo pure sulla disciplina del rapporto individuale di lavoro, il che vuol dire, previdenza complementare e sanitaria integrativa, regolazione delle forme di lavoro flessibili, delle ferie, del lavoro straordinario o supplementare, del lavoro festivo, delle riduzioni di orario, dell’orario multiperiodale, e così via.
In sintesi, non possiamo non convincerci del fatto che solo attraverso la obbligatorietà dei contratti collettivi, così come evocato in ambito euro-unitario, si riuscirà concretamente a stigmatizzare la competitività dei singoli Paesi perseguita attraverso il dumping sociale, che favorisce anche le delocalizzazioni, con inevitabili impatti negativi sui livelli occupazionali e sulla spesa sociale di alcuni di essi.

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