testo integrale con note e bibliografia
1. La dubbia proporzione economica fra i costi dei sofisticati sistemi di controllo e di valutazione delle prestazioni e i risultati attesi ed effettivi.
Come spesso accade in situazioni simili, la bella e articolata relazione della prof. ssa Sartori mi fa sorgere un dubbio esistenziale, prima di qualunque analisi giuridica. Nonostante non accada spesso, mi chiedo se non abbia sbagliato a studiare giurisprudenza, per la tentazione (forte, seppure resistibile) di applicare adeguati sistemi di controllo di gestione e di analisi delle strategie aziendali al rapporto fra costi e benefici collegati all’introduzione di meccanismi così complessi, per l’assolvimento di funzioni coessenziali a qualunque attività di impresa, in ogni epoca storica, in fondo con un espletamento… visivo coronato da sempre da un discreto successo. Per esempio, fanno sorgere simili perplessità i recenti provvedimenti dell’Autorità garante sul trattamento dei dati personali, con sanzioni applicate a vari datori di lavoro i quali avevano registrato informazioni biometriche per l’identificazione delle presenze. Non era sufficiente la normale convivenza o, in difetto, non vi era un responsabile della struttura o della filiale in grado di ottemperare? Quali sono le spese di un intervento così singolare rispetto al vantaggio di scoprire assenze ingiustificate (comunque sporadiche) o ritardi forse più frequenti, ma con un contenuto rilievo organizzativo?
La circostanziata riflessione della prof. ssa Sartori, da tempo attenta e brillante studiosa di questi temi, ha acuito la mia curiosità, destinata a rimanere insoddisfatta, poiché estranea alla nostra materia, soprattutto per la carenza di strumenti matematici sufficienti per una analisi impegnativa. Forse le imprese produttrici degli apparati hanno grandi competenze commerciali e convincono del fatto che siano indispensabili risorse tecniche, invece talvolta superflue, o vi è una effettiva utilità, destinata a emergere in modo più convincente nel medio periodo? Il prof. De Luca Tamajo ha raccontato di una nota azienda telefonica che riuscirebbe a selezionare l’operatrice con la voce più suadente perché risponda alle critiche dei clienti e alle loro richieste di spiegazioni. Porta un utile misurabile questa sorta di esportazione nel mondo telematico del mito della ninfa Calipso o della maga Circe?
Se mai potesse condurre a una risposta attendibile, il quesito avrebbe un riflesso sul versante ricostruttivo, soprattutto nell’ambito esaminato dalla relazione della prof. ssa Sartori. Fermo il fatto che, dall’inizio dell’evoluzione dell’impresa, questa si è sempre dovuta occupare di controlli e valutazioni, l’avvento della cosiddetta intelligenza artificiale impone la regolazione del superfluo o l’interferenza con metodi indispensabili nella civiltà economica del futuro prossimo? Parliamo di curiosità frutto di una ansia… modernista o di quanto è necessario per chi intenda rimanere sul mercato, in specie in settori di elevata competizione? In fondo, l’approccio dell’interprete dovrebbe cambiare, se mai il quesito potesse essere affrontato con sufficiente competenza scientifica. Non resta altro se non sospendere il giudizio, ma ciò lascia un dubbio sulla riflessione prospettica.
Obbietta l’ing. Del Bue che i sistemi di intelligenza artificiale potrebbero avere la funzione dell’oracolo dell’epoca classica, cioè rendere oggettive decisioni… umane e connotate da una forte componente discrezionale, affinché possano essere meglio accettate, in specie se toccano interessi significativi. L’osservazione è arguta e si può bene ambientare nell’area considerata dalla relazione della prof. ssa Sartori. Tuttavia, resta il dubbio sull’attuale redditività di meccanismi costosi e sofisticati per funzioni da sempre espletate con ragionevole successo in modo più semplice. Né tali perplessità sono dissipate dal buon andamento delle imprese che si avvalgono delle cosiddette “piattaforme” digitali, poiché ci si può domandare se la loro accentuata complessità sia giustificata, in specie per prestazioni abbastanza elementari, come la consegna a domicilio. Non a caso, almeno nelle città di medie dimensioni, organizzazioni basate sull’uso del telefono hanno risultati spesso più efficienti e non vi è motivo per cui ciò non potrebbe accadere nelle metropoli.
2. L’inconoscibile mondo degli algoritmi.
L’ultimo contesto tecnico presenta una dialettica fra uomo e macchina, con inusitati sviluppi, colti dal diritto europeo. Sulla sua scorta, in alternativa al modello del decreto legislativo n. 104 del 2022, è stata immaginata una priorità del rimedio risarcitorio, con ampio spazio delle azioni cosiddette di classe, a fronte di effettive lesioni della sfera individuale, seppure nel più contenuto contesto dell’impresa. In questa prospettiva, vi sarebbe una sorta di delegazione del diritto del lavoro a quello civile, soprattutto per i danni punitivi, quale reazione comune alle invasioni della sfera individuale a opera delle più sofisticate tecnologie. Con una qualche concessione della nostra materia alle categorie privatistiche e con l’accettazione di logiche di taglio generale, rispetto a quelle di diritto speciale, il fenomeno tecnico e i trattamenti automatizzati sarebbero concepiti quali fattori di rischio in varie componenti della vita sociale, in una visione trasversale, con una responsabilità non molto lontana da quella oggettiva, comunque imperniata sul rischio introdotto dal creatore degli apparati.
L’idea è suggestiva, a dire il vero opposta all’approccio del decreto n. 104 del 2022, ma ispira qualche resistenza in chi abbia una concezione sperimentale e innovativa del diritto del lavoro e lo veda come frontiera delle forme di ricomposizione del conflitto industriale. Se si condivide questa immagine, forse datata, il cedere campo al diritto civile lascia perplessità e pone interrogativi sul valore e sugli obbiettivi culturali della nostra disciplina. In qualche modo replica chi pensa a un approccio misurato alla singola minaccia, isolata per le sue potenzialità lesive e colta in una successione coordinata di sperimentazioni, alla ricerca della migliore salvaguardia, con un approfondimento progressivo, in una sorta di inseguimento del progresso tecnico.
Importante per il suo realismo, la proposta impressiona per il senso del limite, a proposito della nostra capacità di comprensione dei nuovi fenomeni, e per l’invito a un dialogo costante tra lo studio delle dinamiche organizzative e l’evoluzione regolativa. Se mai, ci si può chiedere se questo continuo inseguirsi fra impianto normativo e suggestioni diverse nell’impostazione della struttura aziendale non veda il primo inevitabile soccombente in una… corsa senza speranza, poiché la velocità dei due fenomeni non è paragonabile e, in questo caso, la tartaruga… non può sperare di ingannare Achille. Perciò, l’inconoscibile mondo degli algoritmi pone un quesito al diritto del lavoro (se non vuole rifluire in quello civile e nelle sanzioni risarcitorie), quesito che impone un qualche mutamento di prospettiva rispetto alle idee del decreto n. 104 del 2022. La stessa distinzione fra sistemi deterministici e non deterministici, prospettata dalla prof. ssa Sartori in modo convincente e ripresa dall’ing. Del Bue, impone una conoscenza specifica degli apparati, affinché se ne possa valutare il funzionamento.
3. Una possibile strategia regolativa.
L’impresa deve essere libera di usare strumenti matematici di sua scelta anche per l’assunzione di decisioni, salva la codificazione di diritti (a opera della legge) con presupposti vincolati per i provvedimenti fondamentali. Una strategia oppositiva rispetto all’innovazione tecnica non può portare a duraturi successi, a maggiore ragione se il fenomeno da regolare sfugge a un credibile ed effettivo sindacato del giudice. L’ordinamento dovrebbe suddividere le possibili scelte automatiche in due versanti, l’uno lasciato libero per l’incondizionata applicazione degli strumenti matematici, l’altro disciplinato in modo stringente, perché inerisce alla necessaria protezione di interessi fondamentali del prestatore di opere, in aree nelle quali l’intervento automatizzato può creare turbative rispetto a valori rilevanti.
In alcune materie, a prescindere dalle risultanze delle analisi delle macchine, le determinazioni devono corrispondere a motivi selezionati, con la dimostrazione a carico del datore di lavoro. Per rispettare la legge, questi dovrebbe impostare i suoi ausili informatici (per quanto sofisticati) con riferimento a una griglia condizionante, la cui osservanza dovrebbe provare in giudizio. Negli altri ambiti, sarebbe libero di impiegare le strategie decisionali da lui preferite. La tutela sarebbe selettiva e non riguarderebbe qualsiasi determinazione, ma solo quelle su beni importanti, di risalto cruciale per il lavoratore. Questa protezione più intensa, ma circoscritta costringerebbe le imprese a un confronto nel merito con indicazioni cogenti. Da una disciplina su tutti i percorsi decisionali automatici si passerebbe a una salvaguardia molto più intensa solo per alcuni, per esempio in tema di retribuzione, di affidamento degli incarichi, di trasferimenti.
E’ illusoria la tutela basata sulla spiegazione dei metodi decisionali; il lavoratore non deve pensare di dominare gli algoritmi utilizzati nei suoi confronti. In modo più modesto, ma a presidio dell’effettività della disciplina, si dovrebbe accontentare di vincoli sostanziali sulle opzioni assunte in alcune materie, in cui, libera di elaborare le informazioni, l’impresa dovrebbe motivare secondo linee di scelta prestabilite, mentre resterebbe senza condizionamenti in altre aree. Si dovrebbero creare due percorsi alternativi, uno regolato dall’ordinamento con riguardo all’oggetto della valutazione e l’altro lasciato in uno spazio vuoto di diritto, con la possibile applicazione delle soluzioni preferite.
A fronte di una collaborazione articolata e continuativa, come quella tipica del lavoro subordinato, si moltiplicano le occasioni per decisioni automatiche, come sottolineato dalla prof. ssa Sartori. Proprio per tale ragione, la risposta dell’ordinamento deve essere selettiva, in quanto una regolazione complessiva delle determinazioni affidate ad algoritmi presupporrebbe la loro precisa comprensione e la dimostrazione in giudizio del loro funzionamento, mentre tali risultati non possono essere conseguiti, né vi sono prospettive di superamento di questi ostacoli, poiché, se bene si intende, la complessità delle risorse informatiche è destinata ad aumentare. Se si vogliono attenuare le difficoltà proposte dal contesto tecnologico, la selezione di obbiettivi mirati e circoscritti è il primo passo, in quanto consente di concentrare l’attenzione su questioni nelle quali gli interessi del dipendente sono più avvertiti, senza che si immagini una regolazione complessiva e, per ciò solo, generica.
Per un verso, l’autorità del datore di lavoro crea le premesse per il ripetuto manifestarsi di decisioni destinate a diventare “automatizzate” in misura crescente e senza un realistico controllo giudiziale. Per altro verso, la continuità della relazione espone gli interessi del prestatore di opere a minacce più intense per il solo fatto di essere prolungate e caratterizzate dalla costante evoluzione tecnica, con modificazioni degli strumenti tanto più significative quanto più il rapporto dura. Ancora, la debolezza sociale del lavoratore non gli permette un esercizio efficace dei poteri contrattuali a lui riconosciuti e i negozi collettivi scontano la carenza di informazioni e di capacità propulsiva delle associazioni sindacali, non in grado di condizionare il cambiamento organizzativo, del quale sono semplici spettatori. Esprime una maggiore fiducia la relazione della prof. ssa Sartori.
Soprattutto a proposito delle “decisioni automatizzate”, con una scelta selettiva, devono essere regolati i poteri del datore di lavoro, non il loro retroterra analitico, il quale sfugge alla stessa cognizione giudiziale. Lungi dal cercare di cambiare i percorsi organizzativi, se vuole sperare nel successo, il diritto deve guardare ai singoli provvedimenti influenti sulla sfera del dipendente. Il problema non è l’applicazione degli algoritmi, ma la giustizia delle successive determinazioni e, a questo fine, per ciascuna, se è importante, devono essere identificati presupposti vincolanti, con l’onere dell’impresa di dimostrare la coerenza delle sue scelte con tali previsioni.
4. Il controllo, la valutazione e l’intrecciarsi di percorsi regolativi diversi.
Non si può resistere al cambiamento tecnologico (se necessario) e la disciplina si deve guardare dal prefiggersi un simile, irrealizzabile obbiettivo. Da perseguire ve ne è un altro, cioè quello di limitare l’esercizio dei poteri, che possono sfruttare tutte le cognizioni o le indicazioni governate da modelli matematici complessi, ma, nello scontro processuale, devono portare a una motivazione coerente con i parametri normativi e presentata al giudice secondo le sue capacità di apprezzamento. Per quanto il loro retroterra sia “automatizzato”, le decisioni ricadono nel governo dell’uomo quando diventano possibile oggetto di una sentenza e ciò accade se la legge crea una griglia di fattori significativi, con i quali l’impresa si debba confrontare e rispetto a cui vi sia possibilità di un apprezzamento processuale coerente.
In sostanza, la determinazione aziendale è umana non se è costretta a rinunciare alle elaborazioni matematiche, ma se, per essere legittima, deve rispettare parametri assiologici dominabili dal giudice e cogenti per l’impostazione e per la conclusione del processo decisionale stesso. In questo, il diritto del lavoro riscopre la sua originaria natura, di contenimento dell’autorità dell’impresa, non di imposizione del cambiamento delle strategie organizzative. Pertanto, il fulcro della disciplina non sono i criteri aziendali, ma i presupposti dei poteri unilaterali incidenti sulla posizione del prestatore di opere. La modestia nella selezione dei fini si deve coniugare con il realismo nell’impostazione delle norme, affinché possano essere effettive e dare un contributo al riequilibrio delle ragioni di imprese e dipendenti.
La relazione della prof. ssa Sartori mette in luce l’intrecciarsi di strategie regolative, portato inevitabile dell’interazione fra discipline tradizionali e contemporanee, nazionali ed europee, attente alle proiezioni dell’intelligenza artificiale e al più consueto tema del trattamento dei dati. Il quadro composito crea difficoltà all’interprete e impone di considerare ciascun fenomeno alla stregua di più sistemi prescrittivi, con risposte sempre provvisorie se limitate all’uno o all’altro contesto. Allo stato, tale oggettiva complessità non può essere eliminata, poiché è il portato del succedersi degli interventi e dello stesso appartenere del tema a più versanti, come è inevitabile per una questione legata all’incalzare della tecnica. La tensione fra la vecchia impostazione della legge n. 300 del 1970 e le nuove di matrice comunitaria è accentuata dall’ultimo atto dell’Unione europea, proiettato a considerare la cosiddetta “intelligenza artificiale”, non solo con una definizione estensiva della categoria, ma con una sua regolazione sistematica, imperniata sui livelli di pericolo in cui sarebbero messi i beni di prioritario valore.
Se non ci si inganna, una ricomposizione sistematica si farà attendere a lungo e, al contrario, la frammentazione potrebbe aumentare, se il nostro legislatore cercherà di anticipare o imitare l’Unione europea, come ha fatto in tema di tariffe per il trasporto aereo, con esiti discutibili. In fondo, quale problema al confine fra differenti aree di intervento prescrittivo, l’impatto dei nuovi sistemi non può restare limitato all’uno o all’altro scenario, ma è condizionato dalla loro difficile integrazione. La giurisprudenza di legittimità sui controlli difensivi e gli ultimi interventi dell’Autorità garante sulla raccolta dei dati biometrici erano stati il segno di un più agevole incontro fra il metodo della legge n. 300 del 1970 e quello del regolamento dell’Unione europea, con una lettura di insieme facilitata dall’ultima stesura dell’art. 4 St. lav., come riconosce la prof. ssa Sartori.
Sarebbe stato impossibile considerare superata qualunque divergenza tra tali modelli, ma, ora, il punto cruciale è il nuovo atto dell’Unione europea, proprio per la diretta considerazione degli algoritmi e, più in generale, di ogni strumento imperniato sul cosiddetto machine learning e, quindi, su una sorta di vitalità autonoma e incontrollabile dell’apparato e sulla sua reattività intrinseca al modificarsi delle condizioni. In questo senso, l’imprevedibilità almeno parziale delle decisioni si combina con l’impossibilità di una cognizione diretta e circostanziata del giudice, con un divario crescente dall’art. 4 St. lav..
5. Il modello tradizionale della legge n. 300 del 1970.
Il quesito interpretativo creato dall’art. 4 St. lav. ha costituito una affascinante palestra per almeno due generazioni di studiosi, in modo inevitabile attratti da una sfida sistematica impegnativa e, forse, impossibile, cioè mettere in relazione una norma con un oggetto al quale, per ragioni cronologiche, non aveva potuto pensare il suo autore, vale a dire gli apparati informatici, molto successivi al 1970 nel loro radicarsi nella nostra società economica. Su un argomento che non dovrebbe essere caratterizzato da eccessive tensioni ideologiche, ma lo è stato per molti lustri, la risposta del legislatore ha tardato fino al 2015. La valutazione critica dell’impatto tecnologico è stata complessa, proprio perché l’art. 4 St. lav. era stato immaginato in un contesto differente e sulla scorta di una superata esperienza. Per quanto siano stati delicati gli sforzi di comprensione dell’art. 4 St. lav., in nessun modo sono stati impediti o rallentati il progresso e la modernizzazione costante delle strategie produttive. La prof. ssa Sartori ha riproposto la tesi sviluppata nella sua ultima monografia e di notevole interesse.
Il nuovo art. 4 St. lav. dimostra di avere compreso il problema; qualunque lettura teorica si voglia dare della norma originaria, il controllo telematico nelle aziende odierne è capillare, diffuso e radicato a qualsiasi livello di risorse economiche e culturali del datore di lavoro. Se la nostra condizione è una oppressione radicata delle tecniche informatiche sulla vita quotidiana, in ogni suo aspetto, non si comprende perché a questo destino… globale si dovrebbe sottrarre il solo lavoro subordinato, al contrario inserito in pieno nell’articolata civiltà degli scambi costanti a livello planetario.
L’ultima stesura dell’art. 4 suona comunque (e a prescindere dall’esegesi preferibile) come la consacrazione dell’inevitabile vittoria della tecnologia, consumata prima nella prassi e, ora, con il coronamento di una esplicita disposizione. E’ persino stucchevole sia celebrare, sia contestare questa obbedienza del diritto alla trasformazione tecnica, poiché, se mai, si deve accettare come componente della nostra vita l’assoggettamento di qualunque struttura sociale (comprese quelle giuridiche) alle modificazioni dei processi di comunicazione e di produzione. L’informatica è la nostra civiltà, come ha sottolineato la prof. ssa Filì. Ciò non esime dal cercare un equilibrato contemperamento degli interessi, ma solo nella pacata comprensione della cultura odierna e delle sue istanze prioritarie, a cominciare da quelle tecniche.
L’attuale art. 4 St. lav. accetta i mezzi di produzione con implicazioni di controllo ed esclude che il loro uso debba essere autorizzato, superando tutto il dibattito tradizionale e facendone sorgere uno nuovo, quello rivolto a chiarire l’esatto significato del secondo comma in vigore. Sarebbe ingeneroso rimproverare all’art. 4 St. lav. di avere fatto emergere ulteriori quesiti, poiché il precetto presuppone comunque definizioni generali, a fronte di processi in rapida trasformazione. Di qualunque natura fossero state la scelta lessicale e la valutazione culturale del legislatore, sarebbe stato impossibile impedire dubbi esegetici. Sono eccessive le critiche talora mosse alla pretesa imprecisione concettuale del nuovo art. 4 St. lav., perché, se si può discutere del suo taglio, si deve riconoscere quanto sia delicato classificare le risorse dei datori di lavoro, per una sintesi fra protezione della riservatezza e accettazione del controllo.
6. Il diritto europeo e l’attenzione per le risorse tecniche.
La relazione della prof. ssa Sartori coglie nel segno nell’impostare l’interpretazione del nuovo atto dell’Unione europea e, soprattutto, nel sottolineare la centralità di tale aspetto. Non è solo un problema di originalità della fonte, ma di specifica attenzione per il tema degli algoritmi e, dunque, di ricerca di una disciplina apposita. Se mai, il compito ermeneutico è reso difficile dalla creazione di vari e graduati precetti, imperniati sulle caratteristiche funzionali di ciascun meccanismo informatico. Soprattutto con riguardo al controllo e alla valutazione della prestazione, il problema è chiarire il funzionamento di ciascun sistema e coglierne le potenzialità lesive. Il compito non è facile e, in certa misura, è improbo, proprio per la sostanziale inconoscibilità dei processi decisionali.
In larga misura, l’approccio dell’Unione europea era inevitabile. L’idea di una considerazione unitaria dell’intera “intelligenza artificiale” postulava la suddivisione interna della materia, assai ampia, e ciò sarebbe dovuto avvenire sulla base delle potenzialità lesive. Non vi erano molte altre, realistiche possibilità. Tuttavia, questi apparati solo in apparenza possono essere sottoposti a giudizi oggettivi e credibili. Basti pensare al fatto che, alcuni anni fa, nella prima pronuncia sulle potenzialità discriminatorie di un algoritmo, a proposito di consegne a domicilio e della valutazione sulle prestazioni, la prova degli obbiettivi dell’impresa è stata data per testi, poiché, nonostante l’apparente oggettività, non vi è alcun riscontro empirico sul funzionamento del meccanismo, soprattutto se sofisticato. In questo sta il dubbio principale sull’esito dell’iniziativa dell’Unione europea, animata da buona volontà prescrittiva, ma poco attenta alle caratteristiche dei tanti sistemi processuali.
Non a caso, il legislatore italiano si sta preparando, sulla scorta dell’ultimo regolamento europeo, come dimostra la presentazione di un disegno di legge al Consiglio dei Ministri, che lo ha approvato, invocando un rapido esame da parte del Parlamento. La ricomposizione delle differenti fonti, compresa la direttiva sulle imprese che utilizzano le cosiddette “piattaforme” digitali, è il compito dei prossimi anni, come a ragione sottolinea la relazione della prof. ssa Sartori. Non a caso, ella ha esaminato con attenzione i nessi teorici e applicativi. Si può discutere sull’approccio dell’ordinamento comunitario, orientato non alla considerazione della condotta e, quindi, della lesione dei beni protetti, ma ad ampi fenomeni sociali, come accaduto per il trattamento dei dati e, ora, per l’intera esperienza dell’intelligenza artificiale. Tuttavia, questo oggettivo motivo di complessità non può essere evitato e, se mai, deve essere affrontato con un proporzionato sforzo critico. La relazione della prof. ssa Sartori è un ottimo inizio.