TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1.1 Premessa

Patto di non concorrenza e divieto di storno della clientela possono essere usati come sinonimi? Sebbene la risposta possa apparire – d’un tratto – scontata, questo breve focus cercherà di confutare una serie di principi tendenzialmente escludenti possibilità di applicazione di clausole relative non tanto alla concorrenza sui generis, bensì a qualcosa che non è ‘l’oltre’ né il ‘prima’ del patto di non concorrenza ex art.2125 C.C.
L’indagine nasce a seguito di una lettura relativa ad una interessante nota a sentenza ove si afferma, riguardo ad un contratto concluso con un dirigente di un istituto bancario, che la clausola relativa allo storno della clientela possa essere inquadrata all’interno del parametro applicativo di cui all’art.2125 C.C., «nel senso che anche il divieto pattizio di storno contribuisce a limitare la professionalità del dirigente di banca e quindi ha la stessa causa del patto di non concorrenza. Ciò è tanto più vero se si condivida che il divieto di storno di clientela mira a garantire (…) la tutela dell’avviamento della società stipulante, ovverosia persegue interessi speculari a quelli caratteristici del patto di non concorrenza» .
Una inutile duplicazione dunque? Un punto di partenza necessario – e fondante l’intera categoria contrattuale – potrebbe rinvenirsi nel concetto di “causa contrattuale”; d’altronde, se fosse davvero una duplicazione, come sostenuto dalla richiamata dottrina, si affermerebbe che il cd. “contratto atipico” ex art.1322 C.C. e le clausole ad esso riconducibili non possano trovare applicazione nel perimetro attinente al lavoro subordinato perché già presenti nel “contratto-tipo” di cui all’art.2125 C.C..
Non solo, si darebbe per scontato che il patto afferente al “divieto di storno della clientela” possa trovare efficace applicazione solamente nel perimetro dei rapporti cd. “d’impresa”, espugnandone così l’impiego nei rapporti di lavoro subordinato.
Tali conclusioni non sembrano apparire soddisfacenti; d’altronde già la mera collocazione della norma ex art.2596 C.C. (all’interno del Titolo X “Della disciplina della concorrenza e dei consorzi”) non può giustificarne l’esclusione al rapporto di lavoro subordinato sol perché, in tale ambito, sia già prevista una disposizione rubricata “Patto di non concorrenza” ex art.2125 C.C.
Che cosa è il patto di non concorrenza e cosa lo distingue dal contratto – lo si accenna – atipico avente ad oggetto il divieto di “storno della clientela”? Tale eventuale pattuizione conserva efficacia anche nel caso in cui l’obbligato (ex-dipendente) presti attività lavorativa presso una società-professionista concorrente? Deve essere previsto un corrispettivo? Se sì, deve essere proporzionato? A cosa serve il divieto di “storno della clientela”?
Domande cui si cercherà di dare risposta in un perimetro – lo si anticipa – su cui la Giurisprudenza di legittimità risulta, ancora, quantitativamente timida.

2.1 Al principio, l’obbligo di fedeltà in costanza di rapporto.

Il tema della concorrenza nel rapporto di lavoro affonda le proprie radici già nell’art.2105 C.C. secondo cui: «il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l'imprenditore, né divulgare notizie attinenti all'organizzazione e ai metodi di produzione dell'impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio».
La disposizione, specificatamente rubricata “obbligo di fedeltà”, mira a garantire il rispetto della buona fede e correttezza nell’esecuzione contrattuale da parte del lavoratore subordinato. È la stessa “collaborazione” sancita nell’ art.2094 C.C. a suggerire che il prestatore di lavoro non possa svolgere attività potenzialmente lesive per il datore di lavoro .
Nel perimetro della concorrenza – in costanza di rapporto – l’estensione delle condotte vietate risulta sicuramente più ampia del cd. “patto di non concorrenza” o del “divieto di storno di clientela”; tale diversità appare giustificata, come ricordato da consolidata giurisprudenza di legittimità , dallo stretto rapporto di fiducia e collaborazione insito nell’obbligazione contrattuale.
D’altronde se l’impresa si identifica ed assume obblighi nei confronti dei propri collaboratori (già a partire dai profili di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale di cui agli artt. 1228, 1229 co.2 e 2049 C.C.) d’altro canto l’ordinamento prevede una serie di specifici adempimenti in capo al lavoratore (artt.2104 e 2105 C.C.) sì da garantire il mantenimento dell’equilibrio negoziale (artt.1, 2, 4, 36, 41 Cost. e 2082, 2094 C.C.).
Sul versante del cd. “patto di non concorrenza”, applicabile a rapporto cessato, la limitazione al «trattare affari per conto proprio o di terzi in concorrenza con l’imprenditore» appare sicuramente più sfumata: non è più la correttezza, la buona fede contrattuale e la salvaguardia dell’equilibrio negoziale a tirare le fila del divieto di concorrenza, bensì la volontà – condivisa – delle parti nel regolare un periodo di tempo specifico (di tre o cinque anni) decorrente dalla cessazione del rapporto.
Premesso ciò, nulla vieta che, prima della stipulazione del contratto, l’imprenditore possa subordinare l’assunzione (specie in ragione della qualifica da attribuirsi alla risorsa) alla stipula di un patto limitativo della concorrenza: il lavoratore, nella fase precontrattuale, è libero di accettare o meno l’offerta (1321, 1326 C.C.) .
Per quanto riguarda i profili di contatto tra 2105 C.C. e storno della clientela, è da sottolineare che l’oggetto non ricada specificatamente nel perimetro della “concorrenza” quanto, piuttosto, nella più specifica attività di sottrazione della clientela.
Come noto la concorrenza sui generis può interessare due macro-tipologie di clienti: quelli che già si affidano ad un operatore economico e quelli “pro futuro” appena entrati nel mercato.
Dal punto di vista economico il divieto di storno della clientela, diversamente dal patto di non concorrenza, assume caratteristiche più ristrette mirando a salvaguardare l’imprenditore dalla sottrazione, illecita, dei clienti “acquisiti”.
La concorrenza, oltre che costituire fattore di indiscusso beneficio , è espressione di quella libertà economica prevista dall’art.41 Cost.. che diventa, tuttavia, illecita non appena l’operatore economico sottragga clientela mediante l’abuso di beni o utilità dell’impresa concorrente.
A tal proposito, un interessante spunto appare offerto dal Tribunale di Torino che, con la sentenza n103 del 17 gennaio 2023, ha stabilito che non sia «precluso all’ex collaboratore di utilizzare le informazioni acquisite presso il precedente datore di lavoro, purché le informazioni in questione non rappresentino un dato aggregato di notizie non memorizzabile se non previa acquisizione illecita delle notizie stesse, ed allo stesso tempo lo storno della clientela da parte di un concorrente è fatto di per sé legittimo, in quanto esercizio della libertà di impresa, divenendo illecito solamente se attuato con modalità a sua volte illecite quali ad esempio sabotaggio, denigrazione, attività confusorie, abusivo sfruttamento di beni e utilità altrui».
Tale principio sembra porsi in linea di continuità con il più generico art.2105 C.C., specie nella parte in cui vieti al lavoratore di far uso delle notizie e metodi di produzione in modo tale da recare pregiudizio all’impresa: d’altronde sia in costanza di rapporto che nella successiva fase, l’uso “illecito” di informazioni (quali facenti parte del patrimonio immateriale della azienda, ovvero non legato alla professionalità acquisita) appare lesivo degli interessi aziendali.

2.2 Il Patto di non concorrenza: requisiti ed interpretazioni da parte della giurisprudenza

Procedendo con ordine, ai sensi dell’art.2125 C.C., il patto di non concorrenza può definirsi come quell’accordo scritto che, stipulato contestualmente o, meglio, in relazione al rapporto di lavoro, limiti – dietro corrispettivo – lo svolgimento dell’attività professionale del lavoratore a seguito della cessazione del rapporto.
Più in particolare è necessario che:
a) il patto sia relativo ad un obbligo di non facere riguardante prestazioni lavorative astrattamente idonee a competere con le attività economiche svolte dal datore di lavoro.
Più in particolare è stato statuito che la clausola ex art.2125 C.C. non debba necessariamente limitarsi alle mansioni espletate dal lavoratore nel corso del rapporto, potendo essere afferente a qualsiasi attività svolta dal datore di lavoro, da identificarsi in relazione a ciascun mercato nelle sue oggettive strutture, ove convergano domande e offerte di beni o servizi identici o comunque parimenti idonei a soddisfare le esigenze della clientela del medesimo mercato.
Esemplificando è da ritenersi nullo, per mancanza di causa, quel patto che limiti l’attività dell’ex-lavoratore in relazione a settori su cui non insista una oggettiva concorrenza con la controparte datoriale; è il caso – a parere di chi scrive – in cui venga limitata l’attività di vendita di autoveicoli commerciali (es: camion da lavoro, furgoni ecc.) in relazione alle compravendite di semplici autovetture. Vero è che, in tal caso, un autoveicolo commerciale non immatricolato come autocarro possa, comunque, soddisfare quelle «esigenze della clientela del medesimo mercato» , tuttavia, seguendo un’interpretazione “teleologica”, il consumatore/cliente-modello difficilmente acquisterebbe un autoveicolo commerciale con l’esclusivo scopo di adibirlo al trasporto di persone .
Quanto all’oggetto richiamato nel corpo della disposizione è da notare che “causa” ed “oggetto”, pur essendo concetti giuridici da tenere ben distinti tra loro, siano indissolubilmente legati. In altre parole, il patto di concorrenza privo dell’oggetto (es. la limitazione della attività lavorativa tout court) rimane connesso alla funzione sociale cui esso accede .

b) non debba essere di ampiezza tale da comprimere la professionalità del lavoratore, ovvero essere limitato nel tempo e nello spazio.
Tale limitazione – prevista testualmente nel corpo della disposizione – mira a garantire il rispetto della dignità del lavoratore e delle formazioni sociali cui esso accede (art.2, 4, 35 Cost.).
In altre parole, una eccessiva compressione professionale renderebbe impossibile soddisfare, da una parte, una esistenza libera e dignitosa mentre, dall’altra, un pieno sviluppo della personalità nei termini legati alla professionalità.
In tal senso apparirebbe nulla la clausola che limiti, indipendentemente dal corrispettivo pattuito ed in tutto il territorio UE, una attività in concorrenza con il datore di lavoro, anche qualora quest’ultima si esplichi in tale ambito spaziale.
Sempre esemplificando, si pensi al caso in cui venga ristretta, per un corrispettivo pari alla RAL annua goduta in costanza di rapporto, l’attività (nel più generico senso, attinente alle mansioni precedentemente espletate) di un dirigente di banca in tutto il territorio europeo: con riferimento al pt.a) non potrebbe escludersi de plano una oggettiva concorrenza con l’istituto bancario, specie se di grosse dimensioni; sarebbe, tuttavia, da valutare se il sacrificio imposto al lavoratore sia tale da annullare completamente la sua professionalità.
Nel perimetro di tale valutazione graverebbe non tanto (rectius non solo) il corrispettivo pattuito ma soprattutto l’impossibilità, per quest’ultimo, di poter esplicare la propria personalità attraverso l’esercizio dell’attività lavorativa considerato che un dirigente di banca difficilmente potrà impiegare la propria professionalità in altri settori.
Un ulteriore interrogativo relativo all’ambito di validità spaziale potrebbe porsi con riferimento ad una serie di attività cd. “informatizzate” cui non risulti necessaria la presenza fisica in un determinato luogo per il suo svolgimento (si pensi al lavoro agile o a tutti gli impieghi che, per il loro espletamento, necessitino solamente di un dispositivo informatico).
In tal caso, nel contro-bilanciamento sussistente tra oggetto-causa-territorio, potrebbe essere prevista, in luogo di una impossibilità di limitazione geografica della attività, una elencazione di imprese concorrenti .
Quanto ai limiti di tempo (5 anni per i dirigenti, 3 per le altre figure professionali) l’art.2125 C.C. differenzia il limite massimo in funzione del maggior coinvolgimento nei processi aziendali sì da garantire, attraverso una maggiore durata, una più pregnante tutela agli interessi del datore di lavoro.
In caso di superamento dei predetti limiti il patto è da ritenersi “nullo” per la parte eccedente: l’eventuale corrispettivo pattuito dovrà parametrarsi alla durata massima prevista dalla legge e non a quella concordata nel contratto.

c) il corrispettivo dovuto sia proporzionale al sacrificio imposto in relazione all’ oggetto-tempo-luogo di applicabilità del patto. In sostanza il contratto non deve prevedere compensi simbolici, manifestamente iniqui o sproporzionati in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore ed alla riduzione delle sue capacità di guadagno, indipendentemente dall’utilità che l’obbligazione di non facere rappresenti per il datore di lavoro nonché dall’ipotetico valore di mercato.
Non è, dunque, l’ottica del cd. “costo-beneficio” datoriale ad essere determinante (in altre parole, la convenienza dell’operazione economico-giuridica) bensì la valutazione oggettiva riferita al sacrificio imposto al lavoratore, anche in termini di professionalità e perdita di chance lavorative.
Per quanto la littera legis non trapeli di cristallina chiarezza, essendo ivi indicato solo l’obbligo di corresponsione di un corrispettivo (in denaro o altra utilità), è certo che tale debba esser congruo e, comunque, determinato o determinabile.
Da una parte la norma, attorno al concetto di “iniquità, inadeguatezza e sproporzionalità”, mostrerebbe il fianco ad interpretazioni discordanti da parte della giurisprudenza, specie se di merito: “l’inadeguato” tende a configurarsi, il più delle volte ed in assenza di parametri certi, quale mero giudizio di valore.
Sul punto la giurisprudenza di legittimità non sembra aver dato significativi indici di riferimento; in una pronuncia si legge che, nell’ottica del bilanciamento tra sacrificio imposto e corrispettivo pattuito, la valutazione sia «rimessa al Giudice del merito e in tale attività il magistrato dovrà, per un verso, garantire un risultato al lavoratore in termini di adeguatezza e, per altro verso, non dovrà spingersi a tal punto da sostituire le proprie valutazioni di opportunità a quelle effettuate dalle parti. In tale valutazione, il Giudice non potrà rifarsi a parametri assoluti, tantomeno fare riferimento all’art. 36 della Costituzione stante la scissione tra il concetto di adeguatezza del corrispettivo del patto di non concorrenza e adeguatezza della retribuzione» .
Tale principio, per quanto in sé tautologico in quanto apparirebbe difficile definire l’“inadeguato” utilizzando l’“adeguato”, potrebbe esser meglio integrato nella misura in cui, nelle ipotesi ove il giudicante intravedi una inadeguatezza del corrispettivo, sarebbe possibile una aggiunta sulla somma pattuita, sì da eliminare il peso della nullità contrattuale .
Questa strada apparirebbe preferibile considerata la qualificazione delle nullità ivi previste quali “di protezione” : nelle ipotesi in cui le parti si accordino per un eventuale ri-adattamento del corrispettivo non vi sarebbe alcuna lesione degli interessi del lavoratore. Seppur vero che la adeguatezza economica del patto rimanga indissolubilmente legata al concetto di causa contrattuale (e relativa nullità), dall’altra parte il nesso, per cui le parti si accordino al fine di raggiungere un determinato scopo, non può cadere sotto la scure della nullità qualora l’autorità giudiziaria lo dichiari sproporzionato.
In altri termini, la previsione della clausola «salvo diversa pattuizione che il giudice vorrà darne in ipotesi di contenzioso relativo al quantum debeatur» non pare essere di ostacolo alla norma de quo tendendo, di contro, a conservarne le pattuizioni .
Altro profilo su cui si è imbattuta la giurisprudenza di legittimità e merito è attinente al momento in cui questo debba essere versato o, meglio, quantificato. Nella prassi soventemente accade che il patto venga erogato in costanza di rapporto sì da ingenerare dubbi sia con riferimento alla determinatezza sia, di conseguenza, alla congruità.
È chiaro, infatti, che ancorare l’erogazione del corrispettivo al rapporto di lavoro può comportare benefici o svantaggi ad ambo le parti a seconda di un eventuale recesso; laddove il corrispettivo dovuto venga correlato a circostanze temporali non ben definite (si pensi all’erogazione in costanza di rapporto di lavoro a tempo indeterminato, ovvero ad una somma mensile lorda pari a €1.000,00 in busta paga), il giudizio di proporzionalità potrà trovare ostacoli determinanti.
Dunque, nell’ipotesi in cui una delle due parti receda dal contratto di lavoro ci si interroga sia sulla determinabilità che sulla adeguatezza del corrispettivo: se il rapporto di lavoro non fosse cessato, il lavoratore avrebbe potuto godere di un importo sicuramente superiore (€12.000,00 in ragione d’anno).
Sul punto la giurisprudenza, specie di merito, appare più che divisa: la Corte di Appello di Milano (Sez. Lav., 13 settembre 2022) ha stabilito che il patto, erogato in costanza di rapporto, risulti «coerente rispetto alla sua ragione economico-giuridica, rispondendo alla salvaguardia dei contrapposti interessi delle parti il prevedere che l’entità del compenso aumenti all’aumentare della durata del rapporto di lavoro, posto che alla maggiore durata del rapporto di norma corrisponde un maggiore know-how del prestatore di lavoro oltre che, non di rado, una maggiore difficoltà di ricollocazione del prestatore in settori diversi da quelli in cui il medesimo ha svolto a lungo la propria attività» .
Il principio non appare condivisibile considerato che il patto di non concorrenza, stipulato contestualmente o in relazione al contratto di lavoro subordinato, rimanga perfettamente autonomo dalla prestazione lavorativa svolta in favore del datore di lavoro; non è, in altri termini, determinante l’attività lavorativa svolta bensì quella da svolgersi (rectius da non svolgersi) a cessazione del rapporto. Non è, infatti, vietato dalla norma la stipula di un patto di non concorrenza in relazione ad un contratto di lavoro a tempo determinato, come non è necessario che l’oggetto dell’obbligazione di non facere si identifichi pedissequamente con l’attività lavorativa prestata.
Una figura può esser professionale, indipendentemente dagli anni di lavoro prestati presso una società (si pensi ad un ingegnere sviluppatore di autoveicoli che, assunto per sviluppare piani di efficienza motoristica, acquisisca know-how non appena entrato nel team di ricerca) e, proprio in ragione di tale spiccata caratteristica, trovare facile e pronto inserimento nel mercato del lavoro.
Diversamente, sempre nell’ambito della Corte di Appello meneghina (Cfr. Sez. Lav., 29 marzo 2021, n.1086), è stato dichiarato nullo un patto di non concorrenza erogato in costanza di rapporto di lavoro per €400,00 mensili sull’assunto che: «Sulla base della lettura del contratto come "atto" non emergono quegli elementi necessari e sufficienti per consentire una valutazione circa la congruità di quanto pattuito nell'ambito del patto di non concorrenza, atteso che il riferimento all'importo complessivo versato attiene alla fase del contratto come "rapporto" ovvero alla esecuzione del medesimo, esposto a variabili (come ad esempio, la durata del rapporto) che evidenziano l'indeterminatezza dello stesso.
Dall'indeterminatezza sopra individuata discende, pertanto, la nullità del patto in esame, restando assorbita ogni altra doglianza sul punto».
Anche il Tribunale di Milano (sent. 28 settembre 2010 ) ha stabilito, con riferimento al preciso ammontare e alla erogazione in costanza di rapporto, che debba stabilire «un corrispettivo predeterminato al momento della stipulazione del patto giacché è in tale momento che si perfeziona il consenso delle parti, e congruo rispetto al sacrificio richiesto al lavoratore in quanto costituisce il prezzo di una parziale rinuncia al diritto al lavoro costituzionalmente garantito; pertanto, viola la norma la previsione del pagamento di un corrispettivo del patto di non concorrenza durante il rapporto di lavoro, in quanto la stessa, da un lato, introduce una variabile legata alla durata del rapporto di lavoro che conferisce al patto una inammissibile elemento di aleatorietà e indeterminatezza e, dall’altro, facendo dipendere l’entità del corrispettivo esclusivamente dalla durata del rapporto, finisce di fatto per attribuire a tale corrispettivo la funzione di premiare la fedeltà del lavoratore, anziché di compensarlo per il sacrificio derivante dalla stipulazione del patto».
È intervenuta, da ultimo, la giurisprudenza di legittimità (Cass. Civ., Sez. Lav., 11 novembre 2022, n.33424) che ha meglio specificato l’ambito di determinatezza da ancorarsi alla adeguatezza del corrispettivo: in particolare, è stato valutato come determinabile il corrispettivo (pari ad €10.000,00 annui per un massimo di tre anni) variabile in funzione del rapporto di lavoro purché sia indicata una durata massima .
La pronuncia tuttavia lascerebbe, a parere dello scrivente, aperto l’interrogativo inerente alla distinzione tra retribuzione e corrispettivo del patto: se, da una parte, la Corte afferma che «il corrispettivo debba essere diverso e distinto dalla retribuzione», dall’altra si contraddice nella misura in cui ammette, come nel caso esaminato, la sua determinazione in funzione delle annualità trascorse in costanza di rapporto. Così facendo – come valutato dal tribunale di Milano – si finisce per attribuire al corrispettivo una funzione “premiale” invogliando il lavoratore a mantenere in essere il rapporto.
Una risposta al quesito parrebbe provenire dallo stesso art.2125 C.C. che, nel testo della disposizione, richiama espressamente la “pattuizione del corrispettivo”: in tal senso il richiamo operato dalla citata giurisprudenza di legittimità, ovvero inerente all’oggetto della prestazione secondo le norme generali del contratto ex art.1346 C.C., apparirebbe poco consono perché derogato dalla norma “speciale”, regolante la fase successiva alla cessazione del rapporto lavorativo .

2.3 Brevi riflessioni attorno alla natura della limitazione alla concorrenza.

Partendo dall’interrogativo sollevato in premessa, ovvero se la natura (la causa) del patto di non concorrenza risieda nella tutela dell’avviamento dell’impresa a fronte di un congruo corrispettivo che tuteli la professionalità del lavoratore, vi è da sottolineare che, d’altra parte, l’art.2598 C.C. non preveda una necessaria pattuizione ponendo, quale norma generale, il divieto di avvalersi «direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale ed idoneo a danneggiare l’altrui azienda».
Dunque, perché stipulare un patto di non concorrenza se, d’altra parte, l’avviamento dell’impresa rimane già tutelato dall’ordinamento indipendentemente dalla previsione di un contratto specifico?
Per risolvere l’interrogativo sollevato da recente dottrina occorrerebbe partire dal concetto di causa. Come noto la causa contrattuale risulta essenziale poiché sarebbe inconcepibile ammettere tutela ad una mera volontà delle parti: il capriccio delle parti, in altre parole, non è condizione sufficiente a far sorgere un rapporto giuridico, essendo essenziale che la volontà sia volta a realizzare un interesse non vietato e rilevante per l’ordinamento.
In una ipotesi “standard” (es: limitazione dell’attività di broker in un determinato mercato) l’accordo rientrerebbe perfettamente nei parametri applicativi di cui all’art.2125 C.C. in quanto, conformemente al tipo legale, è “l’attività” ad essere limitata; diversamente, come nel caso esaminato dalla Suprema Corte (Cass. Civ., Sez. Lav., 4 agosto 2021, n.22247), il dirigente di banca che, contrariamente a quanto pattuito, “storni la clientela acquisita” non pare svolgere una mera attività generica e potenzialmente lesiva bensì mina inequivocabilmente il patrimonio immateriale aziendale.
Tale ultima ipotesi, dunque, trova altra causa meritevole di tutela e diversa dal patto di non concorrenza?
Procedendo per esclusione, occorre comprendere quale sia la funzione sociale del patto di non concorrenza partendo da un dato fondamentale: la volontà delle parti.
L’art.1321 C.C. definisce il contratto come l’accordo per costituire, regolare, estinguere un rapporto giuridico patrimoniale. Sulla base di tale assunto, seguendo la teoria condizionalistica, si potrebbe sostenere che la causa del contratto si identifichi nell’accordo; d’altronde senza accordo non vi è contratto.
Il passaggio da accordo a rapporto giuridico viene, dunque, motivato attraverso ciò che giustifica il collegamento tra le volontà e gli effetti.
Come rilevato da pregevole dottrina la collocazione della causa in tale perimetro (ovvero ciò che tiene unito accordo e rapporto giuridico) avviene attraverso gli artt.1321, 1325 (che la individua nella struttura del contratto, come elemento costitutivo soggetta ad un giudizio di meritevolezza e liceità) e 1322 C.C. (sulla meritevolezza della causa, non del tipo ).
Per quanto riguarda i contratti tipici, generalmente la causa rimane lecita ogni qual volta la volontà delle parti sia indirizzata nei binari predisposti dal legislatore: così, in tema di concorrenza, apparirebbe privo di causa il patto che limiti indiscriminatamente ogni attività lavorativa dell’ex-prestatore di lavoro poiché si collocherebbe “oltre” la tutela della professionalità relazionata alle attività del datore di lavoro.
Su tale perimetro, sia nella formulazione prevista dall’art.2125 C.C. che in quella riservata a chi alieni l’azienda ex art.2557, comma 2, C.C., la causa risiede non tanto nella tutela del patrimonio aziendale (tra cui trova indiscutibile collocazione l’avviamento) quanto nella limitazione della professionalità che, in un futuro ipotetico, potrebbe minare le capacità produttive dell’azienda .
In questa fase è, dunque, facoltà delle parti accordarsi per regolare i futuri rapporti da intrattenersi per il periodo (di massimo tre o cinque anni) successivo alla cessazione del rapporto di lavoro.
E’ da ripudiare la tesi, sostenuta da isolata giurisprudenza di legittimità, che rinviene nella norma de quo una salvaguardia del patrimonio immateriale dell’impresa ; più nello specifico, secondo isolata pronuncia della Corte di Piazza Cavour, le clausole di non concorrenza ex art.2125 C.C. sarebbero finalizzate a «salvaguardare l’imprenditore da qualsiasi esportazione presso imprese concorrenti del patrimonio immateriale dell’azienda, nei suoi elementi interni (organizzazione tecnica ed amministrativa, metodi ed i processi di lavoro, eccetera) ed esterni (avviamento, clientela, c.c.), trattandosi di un bene che assicura la sua resistenza sul mercato ed il suo successo rispetto alle imprese concorrenti» .
Tale assunto non appare condivisibile in quanto l’art.2596 e 2125 C.C. hanno causa differente: non è tanto la professionalità ad essere minata sotto l’alea di una possibile compromissione delle capacità produttive della azienda (2125 C.C.) quanto, piuttosto, l’asset immateriale rientrante nel patrimonio aziendale “acquisito” in modo illecito .
La concorrenza, dunque, opera su un piano che non sottrae illecitamente alcunché all’imprenditore, lo storno, d’altro canto, mira ad acquisire illecitamente parte di quel “patrimonio”: l’acquisizione della clientela da parte di un concorrente (sia ex collaboratore che ex dipendente) è un fatto di per sé legittimo perché rientrante nell’esercizio della libertà di impresa, divenendo illecito ex art.2596 C.C. solamente se attuato con modalità dolose tra le quali non può che esser ricompreso l’uso di dati e metadati contenenti numeri di telefono e/o più generici indirizzi di contatto della clientela.
Sul tema dello sviamento illegittimo della clientela è intervenuta Giurisprudenza di legittimità e di merito affermando che: «in generale va detto che non è precluso all'ex collaboratore di utilizzare le informazioni acquisite presso il precedente datore di lavoro, purché le informazioni in questione non rappresentino un dato aggregato di notizie non memorizzabile se non previa acquisizione illecita delle notizie stesse» ; continuando «la conoscenza della clientela suscettibile di entrare a far parte della formazione personale e professionale del dipendente è limitata ai dati memorizzabili. Qualunque supporto contenente i dati dei clienti, le copie dei contratti ed altre informazioni che rappresentino il risultato di esperienze commerciali (solvibilità, termini di pagamento, tempi di smaltimento del magazzino) deve rimanere presso il datore di lavoro. Il dipendente potrà affidarsi alla personale conoscenza del settore di mercato e della clientela, ma non utilizzare un insieme di dati maggiore di quelli che costituiscono la "sua" conoscenza personale ».
Tale motivazione giustifica, come detto, l’ontologica differenza tra i due istituti: qualora si parli di “professionalità” verrà – eventualmente e salvo accordo delle parti – applicato l’art.2125 C.C. qualora, di contro, l’ex-collaboratore (o dipendente) acquisisca clientela grazie all’uso di mezzi trascendenti la sua professionalità l’art.2596, comma 3, C.C. soccorre l’imprenditore da tale illegittimo sviamento.
È assodato che il comportamento vietato dall’art.2596 C.C. debba qualificarsi come “doloso”, ovvero diretto a danneggiare il concorrente approfittando sistematicamente del mercato acquisito .

3.1 Il contratto e lo storno della clientela: l’applicabilità dell’art.2598 C.C. all’ex-lavoratore subordinato.

Rimane, a questo punto, da chiedersi se la previsione di un patto che miri a tutelare l’imprenditore dalle condotte illecite dell’ex-collaboratore trovi una qualche utilità in un contesto già disciplinato (seppure sui generis) dalla legge.
Occorre precisare che lo sviamento della clientela previsto dall’art.2596 C.C. (differentemente dal patto di non concorrenza che, come detto, trova causa nella limitazione della professionalità quale astrattamente idonea ad incidere nell’altrui attività) si collochi nello stretto perimetro, ambivalente, dell’attività d’impresa: è, in altri termini, necessario (affinché vi sia concorrenza sleale) che tutte e due le parti svolgano una attività concorrenziale.
Sarebbe astrattamente preclusa, differentemente dal patto di non concorrenza, una azione da parte dell’imprenditore nei confronti dell’ex-collaboratore/dipendente che svolga attività lavorativa presso un'altra impresa.
In tali casistiche l’art.2049 C.C. suggerisce una azione (di prevalente risarcimento del danno extracontrattuale) nei confronti dell’impresa ove l’autore materiale dello “sviamento” risulti impiegato , a patto che quest’ultima non sia consapevole dell’attività illecita svolta dal proprio collaboratore.
In caso contrario, ovvero in presenza di un pactum sceleris, la giurisprudenza di legittimità ha ammesso che gli illeciti anticoncorrenziali compiuti da un terzo c.d. “interposto”, il quale agisca per conto, o in collegamento con un imprenditore che ne trae vantaggio concorrente a quello danneggiato, si collochino, in via solidale, nel perimetro della concorrenza sleale ex art.2596 C.C. . Quivi ben potrà trovare efficace applicazione anche una azione inibitoria, volta a far cessare le condotte illegittimamente perpetrate.
Premesso quanto sopra, nonché cercando di dare una risposta agli interrogativi pocanzi sollevati ci si chiede se sia configurabile un contratto atipico che preveda, per una durata determinata non superiore ai cinque anni , l’obbligo di astensione dall’intrattenere rapporti commerciali con la clientela della società.
Il punto di partenza è l’art.2125 C.C.; in questo senso occorrerà verificare se l’accordo risulti conforme al “tipo” oppure si collochi nel perimetro del contratto atipico.
Come detto l’art.2125 C.C. necessita sostanzialmente di:
1) un accordo sottoscritto tra datore di lavoro e lavoratore subordinato ;
2) un congruo compenso;
3) una limitazione della professionalità;
4) una limitazione spazio-temporale.
Quanto ai punti 1), 2) e 4) il contratto avente ad oggetto “l’obbligo di astensione dall’intrattenere rapporti commerciali con la clientela della Società” presenta indiscutibili profili di contatto. Quanto al pt.3) è necessaria una precisazione.
Il discrimen tra 2125 C.C. e 1322 C.C. appare configurabile nella misura in cui l’ex dipendente, sottoscrivente il già menzionato patto, contatti la clientela utilizzando informazioni e dati “non memorizzabili” ovvero sottraendo gli stessi dagli archivi della società.
Per comprendere meglio la fattispecie (e, in particolare, l’alea di applicabilità dell’art.2125 o 1322 C.C.) risulta utile un esempio: supponiamo che il lavoratore A firmi con la società B un patto che abbia ad oggetto «l’astensione dall’intrattenere rapporti commerciali, di natura analoga all’attività svolta dalla società, con la clientela acquisita. Nello specifico è fatto divieto al soggetto A di utilizzare, per fini professionali, i numeri telefonici, mail o comunque di contatto acquisiti durante il rapporto di lavoro, quali utili a contattare la summenzionata clientela».
A parere di chi scrive la causa dell’accordo non risiederebbe tanto nella limitazione della professionalità (rientrante nelle maglie del tipo di cui all’art.2125 C.C.) quanto nella tutela del patrimonio aziendale perché, come noto, l’utilizzo – a fini professionali – dei dati non memorizzabili non possono rientrare nella “professionalità del lavoratore”.
Diverso è il caso in cui l’accordo abbia ad oggetto l’obbligo di astensione dall’intraprendere rapporti commerciali con la clientela della società: in tal senso l’accordo sembrerebbe richiamare la disciplina di cui all’art.2125 C.C. poiché diretta a limitare la professionalità dell’ex-prestatore. Qualche interrogativo potrà, al più, porsi con riferimento alla limitazione non più spaziale (ex art.2125 C.C) bensì relativa a determinate categorie di soggetti.
La stipula di un patto scritto presenta indiscutibili punti di vantaggio: permette alle parti di indicare una clausola penale anche in caso di un solo inadempimento della parte (così eliminando sia la probatio-diabolica inerente alla quantificazione del danno sia quella relativa alla “reiterata” attività di storno richiesta da qualche pronuncia di merito); dall’altra assume, comunque, una funzione “deterrente” per l’ex-lavoratore, specie se previsto un corrispettivo (per quanto non richiesto e non paragonabile a quello del “patto di non concorrenza”).
Con riferimento al corrispettivo ed alla sua proporzionalità non sembrano esserci degli obblighi sanzionati a pena di nullità.
D’altra parte, con riferimento all’art.2125 C.C. tali sembrano porsi quali “nullità di protezione” a tutela del lavoratore subordinato: nell’ambito del contratto atipico sopra richiamato, invece, tale nullità non opera perché la volontà delle parti è diretta alla salvaguardia della sfera societaria, non del lavoratore.

4.1 Conclusioni

Il patto che limiti la professionalità del lavoratore, con tale intendendosi quel bagaglio di conoscenze acquisite durante la vita lavorativa, sembra esser sottoposto alla più stringente disciplina prevista dall’art.2125 C.C..
Anche nell’ipotesi in cui il limite spaziale richiamato nell’accordo si identifichi attraverso una generica elencazione della clientela (ad es: «è fatto obbligo al lavoratore di non intrattenere rapporti commerciali con i clienti A, B, C e D») il patto, perché genericamente volto a limitare la professionalità del lavoratore derivante dalla impossibilità di contrattare con la clientela dell’ex-società, rimane soggetto ai limiti temporali (3 o 5 anni) e di adeguatezza del corrispettivo.
Su tale ultimo profilo la controprestazione in denaro (o altra utilità) sarà sicuramente molto più esigua rispetto a quella spettante in ipotesi di limitazioni spaziali, ovvero non basate sulla clientela della società .
Diversamente nel caso in cui il patto preveda «l’astensione dal contattare la clientela della società attraverso informazioni acquisite illecitamente, ovvero tramite l’utilizzo di dati riguardanti le generalità ed i numeri di contatto di proprietà dell’impresa » questo si colloca nel perimetro dell’art.1322 C.C., perché patto estraneo alla limitazione della professionalità su cui ben potrà essere inserita una clausola penale, così come potrà essere esperita una azione di risarcimento del danno contrattuale nei confronti dell’ex-lavoratore che, al momento dell’inadempimento, si trovi pure alle dipendenze di altro datore di lavoro (differentemente esclusa in mancanza di pattuizione ex art.2596 C.C.) .
Per tale pattuizione non risulta necessario un corrispettivo perché comportamento già vietato ex lege.
L’utilità di tale contratto risiede, come detto, nella previsione di una clausola penale che elimini la difficoltà di dimostrazione del quantum relativo al risarcimento del danno, nonché la possibilità di agire nei confronti del soggetto obbligato anche qualora quest’ultimo risulti alle dipendenze di altro datore di lavoro, ovvero non svolga attività di impresa concorrente con la società.

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