TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
Al fine di presentare il tema, nonché agevolare la comprensione del punto di vista di questo autore, si ritiene necessario iniziare proprio dal testo dell’articolo:
L'imprenditore è il capo dell'impresa e da lui dipendono gerarchicamente i suoi collaboratori.
L'imprenditore, che operi in forma societaria o collettiva, ha il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell'impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell'impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l'adozione e l'attuazione di uno degli strumenti previsti dall'ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale.
Nella determinazione dell’assetto più congruo l’imprenditore è libero di adottare gli strumenti migliori, salvo il momento in cui assume il simultaneo ruolo di datore di lavoro, trovandosi imbrigliato nei passaggi procedurali e nei vincoli operativi residenti nella disciplina giuslavoristica.
LA PREPOTENTE ASCESA DELL’ART 2086
Il completamento della riforma della crisi d’impresa ha l’ambizione di indirizzare l’attenzione imprenditoriale verso la gestione più accorta possibile della propria attività. Il sistema di monitoraggio continuo è il primo messaggio, perfettamente coerente, che arriva da un impianto normativo votato alla continuità, dove non sono contemplati passi falsi tardivamente rilevati, se non generati da profonde crisi estemporanee, dovute ad imprevedibili effetti catastrofici.
Gli strumenti utili a garantire la continuità sono a disposizione dell’imprenditore, a lui l’onere dell’utilizzo giudizioso; il codice dota il board aziendale di strumenti eterogenei adattabili allo specifico tipo di variazione sul tema crisi, ma tutti sostenuti dalla dogmatica valutazione preventiva sulla continuità d’impresa.
L’economia del nostro Paese ha guidato la storia del diritto del lavoro, conferendo gli input per il suo sviluppo, ma trovando anche i limiti ad una sublimazione totalmente liberista, dettati dalla particolare conformazione del diritto del lavoro italiano che, laddove regola forme di gestione collettiva delle decisioni, ancor meglio dei conflitti, lo fa definendo rigorose procedure e liturgici confronti tra le parti sociali. Questa operatività, se da un lato garantisce trasparenza, dall’altro lato non conforta certo le tempistiche di intervento.
In tema di crisi il lasso temporale di intervento è sempre stato vitale, ma il nuovo sistema di verifica innescato dall’art. 2086 cc impone rigidi limiti a pena di decadenza, il mancato rispetto dei quali marca il confine tra l’acquisizione o l’esonero dalle responsabilità addossate ad imprenditore ed amministratori .
L’art 2086 cc segue quindi la corretta logica dell’avvenimento economico che stimola l’adattamento giuslavoristico, incontrando i medesimi limiti di sviluppo che il nostro ordinamento è solito, anche per mera carenza di coordinamento, subire passivamente.
IMPATTO DELL’ART 2086 CC SULLA DIMENSIONE GIUSLAVORISTICA
Per comprendere l’effetto che il testo della previsione esprime nella dimensione giuslavoristica, dobbiamo necessariamente richiamare il dato letterale, in modo particolare la relazione con il primo comma, peraltro impermeabile alla sostanziale revisione imposta dal CCI, valorizza la compliance degli assetti puntuali, agevolando il ragionamento sull’azione penetrante dell’imprenditore nella gestione del personale.
L’articolo in sè, forse ingenuo nella sua sottovalutazione dei riflessi giuslavoristici o profondamente deciso nel non volersene curare, non rileva criticità nell’azione dell’imprenditore, posto che proprio l’esordio del 2086 conferisce allo stesso pieni poteri nella gestione del tema. Piuttosto, il secondo comma pare preoccuparsi di indici di altra natura, distanti dal pieno governo dell’imprenditore e per questo affamati di monitoraggio e adeguamento costate.
Calato sul piano giuslavoristico, il secondo comma taglia completamente il cordone ombelicale con il primo, richiedendo un’attenzione che, per contro, non genera tanto una problematica di monitoraggio, piuttosto sconta limiti di intervento, che colgono di sorpresa la definizione di “capo dell’impresa da cui dipendono i collaboratori”.
Ma andando con ordine, il comma primo nella sua seconda parte pare solo un po' generico, dovendosi interfacciare necessariamente con l’art 2104 cc che nel testo ben si coordina con l’art 2086 cc, riflettendo la disciplina della soggezione gerarchica del prestatore di lavoro: “…Il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall'interesse dell'impresa e da quello superiore della produzione nazionale. Deve inoltre osservare le disposizioni per l'esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall'imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende …”
La sottoposizione gerarchica del lavoratore è riscontrabile nei rapporti di lavoro declinabili nell’ottica della subordinazione, a mente dell’art 2094 cc che regola il lavoro “…alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore…” ed è proprio il concetto di subordinazione a tradire le aspettative di un rapporto che dovrebbe agevolmente adattarsi alle esigenze dell’impresa, stante la relazione gerarchica, ma, al contrario, manifesta l’ostacolo al libero agire imprenditoriale.
Si può ora affermare con certezza che i collaboratori cui fa riferimento il primo comma dell’art 2086 cc sono quelli subordinati, a questi e solo a questi potrà applicarsi l’art. 2104 cc , diversamente i lavoratori autonomi e i collaboratori coordinati, per loro natura, non concedono forme di ingerenza gerarchica. Nel primo caso è l’articolo 2222 cc ad escluderlo, illustrandone la caratteristica prestazionale: “…lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione…”. Nel secondo caso, il precetto normativo di riferimento è dedicato unicamente a determinarne la riqualificazione del rapporto viziato, non tanto dall’eterodirezione, quanto dalla più leggera eterorganizzazione art 2 c 1 D. Lgs 81/2015: “…A far data dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro prevalentemente personali, continuative e le cui modalita' di esecuzione sono organizzate dal committente…”.
Il concetto di eterodirezione potrebbe non aderire perfettamente a quello di subordinazione, assorbendo il secondo tutta una schiera di rapporti identificabili tra i direttori, piuttosto che tra i diretti; si pensi alle figure di Quadri e Dirigenti , destinatari, per nativitas i primi, per costante evoluzione giurisprudenziale i secondi , della piena applicazione delle tutele che il giuslavoro garantisce ai dipendenti. Soprattutto i dirigenti vedono la propria figura direttamente assorbita dai processi decisionali aziendali, tanto da assumerne una responsabilità che non può essere ignorata al cospetto dell’art. 2086 cc. Ecco che ove la subordinazione è forte e si abbina all’eterodirezione, l’impatto del 2086 lega le mani dell’imprenditore per quanto diremo nel prosieguo; ove la subordinazione è più leggera gli effetti dell’art 2086 paiono quantomeno possibili e le mani dell’imprenditore più libere, magistratura permettendo.
TUTELA DEL LAVORATORE E DIRITTI ALLENTABILI
Da una lettura societariamente e civilisticamente orientata dell’art 2086 cc sembrerebbero potersi sacrificare, sull’altare dell’esigenza aziendale , i rigidi diritti del lavoratore. In realtà questi risultano ben protetti da una tutela massima che non ne permette la dismissione, quando derivanti da fonte legale o privatistica di stampo collettivo, nemmeno da parte del lavoratore stesso, in coerenza con un favor che è tipico solo della dottrina lavoristica.
A mente dell’art. 2113 cc infatti: “…Le rinunzie e le transazioni, che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti di cui all'articolo 409 del codice di procedura civile, non sono valide…”, non meno impattante, nel quadro della ricerca di un assetto congruo, l’assunto dell’art 2103 cc, che dopo aver vincolato ogni opzione aziendale incidente su mansioni e retribuzione , lapida chi ne ignora il dettato con il comma di chiusura: “…ogni patto contrario è nullo…”.
Di fronte a questo muro, qualora il congruo assetto preveda un ritocco degli elementi retributivi, piuttosto che una revisione delle mansioni del personale occupato, l’imprenditore non potrà in nessun modo agire d’impeto guidato dallo spirito dell’art. 2086 cc, dovrà chiedere aiuto al lavoratore interessato, mendicandone cortesemente la disponibilità a condividere il progetto di adattamento all’assetto adeguato. Non certo la strada più rapida, piuttosto quella più ripida; non certo l’obiettivo più ovvio, piuttosto quello più incerto. Tutto questo mal si concilia con i tempi che l’art. 2086 cc pretende, in una continua rincorsa alla tutela più rilevante, in quanto proprio in seno alla crisi la concorrenza tra salvaguardia occupazionale e continuità d’impresa raggiunge il suo apice.
Del resto, anche conservando la piena occupazione, pare difficile considerare un piano di recupero da uno squilibrio senza intervento alcuno al cuore dei diritti dei lavoratori, eppure ogni passo organizzativo si scontrerebbe con i limiti imposti dall’art. 2103 cc ed ogni passo teso a limare i diritti sostenuti da fonti legali o collettive rimbalzerebbe contro il muro dell’art. 2113 cc.
I LIMITI ALLE DISPOSIZIONI CORRETTIVE SUI RAPPORTI DI LAVORO
Trascendendo da una bieca semplificazione, possiamo affermare che spostare un investimento da un asset ad un altro, comporta unicamente la scelta strategica e il rispetto dei tempi utili a virare la destinazione dei flussi finanziario e mentale; non è così per la variazione gestionale incidente sul personale dipendente.
Si badi bene che il diritto del lavoro, pur non rappresentando un elemento agente, non risulta indifferente dalla valutazione degli assetti organizzativi adeguati, tanto per giustificare i residui di manovra possibili, quanto per passare in rassegna una serie di altri elementi, anche solo indirettamente coinvolgenti il personale dipendente.
L’evoluzione recente del diritto del lavoro ha teso la mano alla logica della cogestione d’impresa, de iure condito assegnando al sindacato un ruolo decisivo nelle scelte aziendali, finanche a mutuarne un potere di veto che può ingessare in modo definitivo l’azione imprenditoriale.
Dal canto suo il sindacato non pare esserne uscito particolarmente lusingato: accogliendo con piacere il potere di veto, ma dissociandosi dal ruolo proattivo di parte operativa con tanto di responsabilità acquisite.
Con riferimento all’investitura delle organizzazioni sindacali a parti attive della cogestione aziendale, va rilevato come le fonti tutte abbiano spinto in modo unanime, sancendo di fatto la diluizione dei tempi esecutivi connessi a ogni valutazione strategica.
Alle misure a sostegno, che da sempre hanno accompagnato la fase dimensionale della crisi, si aggiungono le risultanze dell’impulso contemporaneo, tali da sostenere la totalizzazione del confronto sindacale. Si pensi alle recenti procedure quali:
• la previsione dell’articolo 1, comma 2, lettera l), D.L. 23/2020 (D.L. Liquidità), che impone alle aziende che hanno goduto della garanzia Sace la gestione “…dei livelli occupazionali attraverso accordi sindacali…” lungo tutto il periodo utile al rientro. Tale previsione appare talmente generica da offrire uno scenario applicativo tutt’altro che compiuto;
• la procedura sindacale supplettiva prevista, in caso di composizione negoziata, dall’articolo 4, comma 8, D.L 118/2021: “Ove non siano previste, dalla legge o dai contratti collettivi di cui all'articolo 2, comma 1, lettera g), del decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 25, diverse procedure di informazione e consultazione, se nel corso della composizione negoziata sono assunte rilevanti determinazioni che incidono sui rapporti di lavoro di una pluralità di lavoratori, anche solo per quanto riguarda l'organizzazione del lavoro o le modalità di svolgimento delle prestazioni, il datore di lavoro che occupa complessivamente più di quindici dipendenti”. Trattasi di procedura che assorbe praticamente ogni valutazione in ambito lavoristico, peraltro, come ogni passaggio sindacale, a parere di chi scrive si palesa inconciliabile con l’obbligo di riservatezza richiesto dall’articolo 4, comma 7, D.L 118/2021;
• la procedura introdotta dall’articolo 1, comma 224, L. 234/2021, come anticamera dei licenziamenti collettivi programmati dalle aziende che, nell’anno precedente, abbiano occupato almeno 250 lavoratori “Al fine di garantire la salvaguardia del tessuto occupazionale e produttivo, il datore di lavoro in possesso dei requisiti dimensionali di cui al comma 225 che intenda procedere alla chiusura di una sede, di uno stabilimento, di una filiale, o di un ufficio o reparto autonomo situato nel territorio nazionale, con cessazione definitiva della relativa attività e con licenziamento di un numero di lavoratori non inferiore a 50”; superfluo sottolineare come detta previsione contribuisca a ingessare le procedure di esodo, e forse il fine è proprio questo, rischiando di fungere da deterrente agli investimenti nel nostro Paese.
Stupisce che tra queste emergano proprio alcune frutto di precisa indicazione del CCI, quasi a volersi autoconvincere della possibile coabitazione tra il nuovo art. 2086 e le procedure giuslavoristiche, ignaro dell’esperienza che dimostra chiaramente come il contatto tra le parti porti spesso ad acuire la crisi, piuttosto che risolverla. La dove il tempo è tiranno, le procedure di confronto sono sicuramente nemiche.
Quindi, è proprio su questi ultimi interventi presenti nel medesimo corpo normativo che ruota attorno all’art. 2086 del CCI, che va approfondita la nuova tendenza.
DALLA RILEVAZIONE AL SUPERAMENTO DELLA CRISI, IL DISALLINEAMENTO TEMPORALE DELLE DISCIPLINE
Stando alla disciplina civilistica, che condivide con quella propriamente concorsuale il focus sulla continuità come valore massimo, l’imprenditore virtuoso dovrà spendere meno tempo possibile per traguardare l’uscita dalla crisi. La sintesi del tema si plastifica nella caratterizzazione: “senza indugio”, imponente la tempistica d’azione.
Opposta la posizione giuslavoristica che tende a dilazionare più possibile gli effetti degli interventi che coinvolgono i dipendenti, tanto da qualificare il ruolo del terzo (il sindacato), proprio al fine di attenuare l’impatto della crisi sulla popolazione aziendale.
Meritevole di nota l’accenno alla riforma del lavoro installata dall’anno 2015, meglio nota come Jobs Act, coombinato (in parte organico) di Decreti, tra i quali il 148/2015 ambiva ad assistere il superamento della crisi tramite un coerente trattamento della risorsa umana. Gli ammortizzatori sociali infatti venivano garantiti unicamente in caso di ripresa certa o quantomeno concretamente prevedibile ex ante, mentre il caso della crisi, potenzialmente irreversibile, doveva essere assistito tramite le procedure espulsive permettendo così al lavoratore, assistito dall’ammortizzatore esterno unico dalla durata variabile, una rapida rioccupazione grazie anche a prolifiche politiche attive .
L’impianto normativo descritto, rivoluzionario, è rimasto crisalide, tanto per l’impavido obiettivo di limitare fortemente il raggio d’azione di giudici e organizzazioni sindacali (attenuando quindi gli spazi di conflitto) a favore delle regole del mercato nella sua accezione unionale, quanto per un cambio di Governo che, nell’imminenza, non ne ha condiviso i target.
Ecco che la soluzione del licenziamento per superare la crisi e convogliare il dipendente verso un virtuoso ciclo di reimmissione del mercato del lavoro, ammortizzato dall’universale Naspi, non ha retto al cospetto delle organizzazioni sindacali, palesando le stesse un chiaro disinteresse al progetto, cavalcando per contro le procedure di difesa dai recessi, in modo particolare di matrice collettiva, ma in via ancora preventiva tutti i residui, finanche forzandone i requisiti di accesso, spazi di ricorso agli ammortizzatori. Per parte sindacale, il recesso torna nell’immediato a rappresentare l’extrema ratio, non una soluzione tipizzata alla crisi irreversibile.
Ulteriore tentativo di concentrare i tempi e garantire gli esiti, viene apportato dalla, pur parziale, introduzione delle tutele crescenti, strumento coniato su ispirazione di ordinamenti comunque di derivazione eurounionale. Questa volta il tentativo perisce in seno ad una magistratura che, senza nulla celare, ha chiarito l’indisponibilità a vedersi privata del pieno sindacato di merito.
Anche l’aspetto normativo, quindi, si dimostra inadatto ad apportare rapidità e certezza alla gestione della crisi, il tema del lavoro consolida infatti il forzato rispetto dei tempi di confronto e dell’imprevedibilità dell’esito connesso ad ogni scelta.
L’attuale stagione fotografa la massima evoluzione di questa prospettiva, percorrendo sentieri giurisprudenziali tesi a penalizzare al massimo il superficiale, o addirittura ignorato, passaggio preventivo volto a condividere ogni azione datoriale con le OOSS.
La rilevazione tempestiva della crisi, subisce quindi il confronto vincolato, i sintomi di emersione invadono già il territorio della contesa sindacale, tanto da obbligare la dilazione dei tempi di gestione del fenomeno da isolare.
Il codice civile richiede infatti all’imprenditore, in caso di rilevazione della crisi, l’attivazione senza indugio per l'adozione e l'attuazione di uno degli strumenti previsti dall'ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale. Se la rilevazione è tempestiva e la conseguente adozione della soluzione, quantomeno nella penna dell’estensore, dovrà essere “senza indugio”, lo sviluppo dello strumento richiede il rispetto delle tempistiche necessarie alla procedimentalizzazione degli interventi.
Considerata l’incidenza della manodopera su qualsivoglia attività economica, pare inevitabile dover affrontare la crisi tramite riduzioni di personale, ammortizzatori sociali, oppure operazioni societarie tese all’efficientamento . Il tutto nel segno della continuità. Detti aspetti insistono asserviti alle tempistiche di confronto imposte dalla Legge:
• Gli ammortizzatori sociali scontano procedure scandite da diversi passaggi temporali, preventivi all’applicazione, declinati nel dettaglio dal D.lgs 148/2015, variabili secondo il grado di penetrazione della crisi in azienda che si riflette sul tipo di strumento da adottarsi.
• I licenziamenti di matrice economica scontano procedure diversificate, preventive all’irrogazione, a seconda del requisito occupazionale dell’azienda e della tipologia di recesso da intimare. Si passa dai tempi di valutazione preventiva del licenziamento oggettivo per le aziende over 15 dipendenti, scanditi dall’art 7 della L. 604/1966, alle note procedure di licenziamento collettivo di cui agli artt 4 e 24 della L. 223/1991, fino al licenziamento per chiusura attività, recentemente introdotto dal Decreto Aiuti Ter . Trattandosi di soluzioni espulsive, è facilmente prevedibile come le consultazioni obbligatorie si svolgano nella maggior parte dei casi in clima teso, tanto da necessitare di interventi di mediazione che le norme stesse prevedono come dovuti. I tempi di evasione delle singole procedure, ammesso che la stesse giungano all’esito originariamente previsto dall’imprenditore, possono estendersi per mesi prima di poter intimare il recesso, vanificando di fatto la rapida assistenza alla crisi.
• I trasferimenti d’azienda, dizione di sintesi che incorpora in abito giuslavoristico l’insieme delle operazioni societarie percorribili dall’imprenditore come individuate (ma non tipizzate) dal comma quinto dell’art 2112 cc , rappresentano soluzioni reiteratamente adottate per salvaguardare la continuità aziendale, al fine di evitare che la bad company possa estendere le proprie metastasi anche alla quota viva dell’azienda. Chi opera nel settore M & A e delle ristrutturazioni, ben conosce la necessità vitale di realizzare le operazioni nel più breve tempo possibile, tanto più quando l’operazione è finalizzata a superare un momento di difficoltà. L’ordinamento impone però, qualora l’azienda cedente incorpori oltre 15 dipendenti, precipua procedura di confronto sindacale che dovrà avviarsi quantomeno 25 giorni in anticipo rispetto al closing. Anche in questo caso l’esigenza che soddisfa l’ottica commerciale diverge nettamente dati tempi di riflesso della cogestione lavoristica.
Necessario evidenziare come oltre ai tempi descritti, le soluzioni adottabili scontano, per effetto della cogestione, l’incertezza circa l’esito del confronto impossibile quindi da assumere ex ante. La cogestione non è mero rispetto di una liturgia procedurale, ma è costitutiva del risultato stesso della soluzione individuata. L’imprenditore che dovrà dar conto delle azioni avviate per l’adeguamento dell’assetto organizzativo agirà quindi al buio, conscio che tempi ed esiti non trovano alcuna residenza nella dimensione giuslavoristica.
Vieppiù gli esiti incerti del confronto spesso innescano strascichi confluenti nel contenzioso, rendendo di fatto impossibile, oltre al contenimento temporale, la previsione circa i riflessi economici connessi. La domanda: “…quanto costa una riduzione del personale?...”, alla quale la parziale riforma delle tutele crescenti ha tentato di fornire una risposta, nel nostro ordinamento, non potrà mai trovare risposta certa.
Si assuma il caso in cui l’azione imprenditoriale venga stimolata dalle segnalazioni, interne o esterne, queste impongono un rigido rispetto delle tempistiche di riscontro. La segnalazione dell’organo di controllo ex art 25 octies CCI si correda con la fissazione di un congruo termine, non superiore a trenta giorni, entro il quale l'organo amministrativo deve riferire in ordine alle iniziative intraprese. Per quanto sopra esposto pare evidente che i 30 giorni, che dal punto di vista concorsuale rappresentano un termine vitale, sul piano sindacale risultano appena sufficienti per espletare la procedura consultativa.
Penetrando sempre più nelle previsioni concorsuali, al fine di combinarne la funzione con quanto previsto dall’art. 2086 cc, deve considerarsi che, tra i segnali per la previsione della crisi, l’art 3 c 4 CCI annovera l'esistenza di debiti per retribuzioni scaduti da almeno trenta giorni, pari a oltre la metà dell'ammontare complessivo mensile delle retribuzioni. Trattandosi di evento di portata rilevante nella relazione sinallagmatica che regge il rapporto di lavoro, facile presumere come questa condizione rappresenti una crisi già palesata da tempo, non embrionale, così come agevole prevedere che le parti sociali, quanto meno ove presenti con rappresentanze aziendali, ben siano già state informate e coinvolte nella dialettica concertativa. Idealmente non sarà quindi il momento descritto quale segnale ad avviare il confronto, ma soprattutto non sarà possibile prevedere soluzioni che permettano di riferire nei 30 giorni all’organo di controllo.
CONCLUSIONI
Alla luce di quanto esposto si permetta all’autore una breve nota di sintesi. L’ordinamento vigente non pare offrire concrete soluzioni tali da permettere all’imprenditore accorto soddisfare tanto le logiche di cogestione, quanto quelle di tempestivo intervento garante la continuità aziendale. Questo corto circuito rischia di neutralizzare l’azione pregevole dell’early warning, finanche a intaccare i principi guida che hanno mosso la gestazione del codice della crisi, pertanto, ancora una volta, l’assenza di dialogo tra le discipline che governano le situazioni di crisi, pur stimolato dalla pregevole azione diplomatica del codice della crisi, rimane il vero ostacolo da superare.
Laddove la distanza tra le discipline risiede non già nel diritto positivo, quanto nella ratio ispiratrice, le ipotesi di negoziato paiono al lumicino, ma fino a quando in fondo al tunnel ancora qualcosa brillerà, ogni giurista avrà il diritto di sperare.