TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
1. Premessa
Il contributo che si vuole condividere in questa sede non è dedicato alla riflessione sulle caratteristiche peculiari ed inedite dell’intelligenza artificiale (IA) generativa, né alla previsione degli effetti sul mercato del lavoro della diffusione di “macchine intelligenti”, siano esse dei robot automatizzati, o, più facilmente, dei software evoluti e capaci di apprendere. A questa materia è dedicata una “Indagine conoscitiva sul rapporto tra intelligenza artificiale e mondo del lavoro, con particolare riferimento agli impatti che l’intelligenza artificiale generativa può avere sul mercato del lavoro” promossa in seno alla XI° Commissione (Lavoro pubblico e privato) della Camera dei Deputati .
Similare il mandato ricevuto dal gruppo di lavoro “Politiche industriali per l’Intelligenza Artificiale” insediatosi presso la Commissione I - Politiche economiche e attività produttive del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro: anche in questo ambito si stanno svolgendo audizioni volte a comprendere gli impatti che l’Intelligenza Artificiale determina e determinerà nel mondo del lavoro, analizzato per singoli settori (il primo indagato è quello bancario e assicurativo).
2. La regolazione europea
Entrambe le citate azioni ricostruttive sono operate nell’attesa della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del Regolamento europeo per la regolazione dell’Intelligenza Artificiale (IA ACT) già discusso dal Parlamento di Strasburgo (13 marzo 2024) e recentemente approvato dal Consiglio Europeo (21 maggio 2024) . Il regolamento avrà tempi di attuazione diversi, dai nove ai trentasei mesi a seconda dei contenuti. Per questo, il 16 novembre 2023 il commissario europeo per il mercato interno, Thierry Breton, ha lanciato il «Patto Ue sull’intelligenza artificiale» rivolto soprattutto alle imprese, perchè possano anticipare volontariamente le azioni utili ad adempiere ai requisiti della (futura) legge europea.
L’Unione europea è, ad oggi, l’unica istituzione internazionale ad avere regolamentato lo sviluppo e l’utilizzo dell’intelligenza artificiale in economia e nella società. Non si tratta di un atto annacquato o solo di facciata: il regolamento intende classificare le applicazioni dell’intelligenza artificiale in base al grado di rischio di danni per i cittadini. Sono quattro i livelli di rischio individuati.
Il «rischio inaccettabile» comporta il divieto di utilizzo di applicazioni di intelligenza artificiale basati su tecniche subliminali. Parimenti, è vietata ad ogni autorità pubblica l’adozione di sistemi di punteggio algoritmici (è perciò impedita, per esempio, la “polizia predittiva”) e qualsiasi applicazione che abbia conseguenze discriminatorie e intrusive della privacy (ad esempio: sistemi biometrici per il riconoscimento di una persona).
Il «rischio alto» comprende applicazioni legate ai trasporti, istruzione, lavoro. Tali sistemi devono essere certificati e le aziende che vorranno utilizzarli dovranno obbligatoriamente condurre una valutazione di conformità. La stessa Commissione Europa curerà un database con accesso pubblico ove rintracciare tutte le applicazioni di IA, perché l’informazione sia accessibile a tutti i cittadini.
Il «rischio limitato» riguarda sistemi più diffusi, quali i chatbot, per i quali l’obbligo principale è la trasparenza: le persone devono sempre sapere se stanno interagendo con una forma di IA invece che con un essere umano.
Le applicazioni a «rischio minimo» sono quelle già assai comuni sui nostri pc, sui tablet e sugli smartphone, tramite app o programmi eseguibili, la cui eventuale invasività è contenibile con un semplice filtro anti-spam.
3. L’irriducibilità delle “relazioni” di lavoro
A fronte di un grande numero di ricerche dedicate all’applicazione dell’intelligenza artificiale nei contesti di lavoro, molti meno sono i lavori degni di nota interessati ad indagare l’interazione, già effettiva o potenziale, tra l’intelligenza artificiale e le dinamiche tipiche delle relazioni di lavoro .
Prima di entrare nel merito di questa materia, è opportuna una considerazione preventiva, di carattere generale.
In buona parte dei documenti istituzionali e della letteratura scientifica che si è dedicata all’intelligenza artificiale ricorre la raccomandazione sulla necessaria riscoperta della “dimensione umana”, in ultima istanza dell’etica, da contrappore al perfezionismo matematico, ma non morale, dell’algoritmo . In estrema sintesi, vi è una convergenza tra scienziati (ingegneri, esperti informatici etc.) e umanisti (filosofi, antropologi, sociologi etc.) circa l’urgenza di riscoprire le dimensioni più caratteristiche e caratterizzanti l’umano, da contrappore alle macchine proprio perché da queste non replicabili (creatività, vitalità, discrezionalità, sensibilità artistica etc.).
Tra queste dimensioni, una delle più distintive è indubbiamente la “relazionalità”, esperienza non sperimentabile per un robot, che può “connettersi”, ma non costruire rapporti di fiducia. Ebbene, quelle “di lavoro” sono nella denominazione e, soprattutto, nella vita di ogni giorno, delle “relazioni”, quindi una frontiera ancora non insidiabile dagli algoritmi. Molto opportunamente qualcuno ha parlato di «intelligenza artigianale» , ossia della riscoperta delle caratteristiche non uniformi e non “in serie” dell’intelligenza umana. La relazionalità e l’artigianalità sono in questo senso usate in contrapposizione alla omologazione derivante dall’intelligenza artificiale. Se infatti da una parte è vero che l’IA generativa non è mai uguale a se stessa (è una delle sue peculiarità, che la differenzia dai calcolatori del passato), dall’altra è altrettanto indubbio che l’algoritmo, per quanto ben programmato nei nessi di causa-effetto, è incapace di sentimenti e manca perciò di una caratteristica inestirpabile della persona, quella che genera creatività, coinvolgimento, pensiero divergente. Doti, queste, di carattere non cognitivo e perciò non “databasizzabili”, complesse da fare emergere (più che “formare”) anche nelle persone e per questo assai rilevanti nei contesti di lavoro di oggi e sempre più premiate, anche retributivamente .
Dopo il Novecento delle fabbriche, quando le relazioni tra impresa e lavoratori furono correttamente definite “industriali”, ponendo l’enfasi su questo (glorioso) termine; dopo il “secolo breve” tra gli anni Novanta e Duemila, quando si reputò opportuno tornare a parlare di “relazioni di lavoro” in ragione della marcata terziarizzazione delle economie occidentali; ecco che oggi torna al centro della riflessione non la sua aggettivazione, ma la stessa “relazione”, patrimonio che mette al riparo questa disciplina dall’assalto della spersonalizzazione tecnologica e obbliga tutti gli attori del dialogo sociale a confrontarsi sui rischi e i vantaggi dell’inarrestabile marcia dei “computer intelligenti”.
4. La riproposizione del «principio fondamentale delle relazioni industriali»
Come riassunto in un recente lavoro sul diritto del lavoro al tempo dell’IA, non è peregrino pensare che sempre più frequentemente il proprio capo possa essere un algoritmo . Come è possibile contrattare con un algoritmo? Non stupisce che nelle aziende che più si affidano ai sofware decisionali il tasso di sindacalizzazione sia nullo o in decremento e, conseguentemente, la contrattazione collettiva integrativa assente (si pensi alle numerose e orgogliose dichiarazioni di dirigenti delle c.d. Big Tech a proposito dell’assenza delle unions).
La risposta del sindacato a questa tendenza non può essere quella vertenziale e neanche la moltiplicazione delle attività di proselitismo, neutralizzate dalla diffusissima abitudine al lavoro a distanza, tipico delle aziende ad alto tasso di tecnologia.
La sfida è quella di guadagnare una posizione ancor più ambiziosa, di recitare un ruolo oltre quello di agente negoziale: difensore della discrezionalità umana nelle decisioni inerenti l’organizzazione e i rapporti di lavoro. Così come in origine il sindacato è stato in un certo qual modo il moralizzatore dell’economia capitalistica, rifiutando il modello convenzionale e neoclassico di un mercato del lavoro basato sull’equilibrio automatico («la mano invisibile») di domanda e offerta di lavoro e affermando perciò, con convinzione, che il lavoro non è una merce (è questo, in estrema sintesi, il «principio fondamentale delle relazioni industriali» di Bruce Kaufman) , oggi il sindacato è chiamato a ricordare, ancora una volta, che il lavoro non è un mero «fattore di produzione» e perciò non può essere amministrato con le stesse soluzioni informatiche ed automatizzate con le quali vengono gestiti i magazzini. Così come il modello concorrenziale di domanda-offerta possiede una coerenza teorica solo se il lavoro viene considerato alla stregua di un bene generico, così la gestione delle risorse umane “artificializzata” è proponibile soltanto trattando le persone come materia prima inanimata, oggettivandole.
Una posizione di questo genere, una sfida così ardita a soluzioni tecnologiche che appaiono inarrestabili tanto sono stupefacenti e facilitanti la vita di tutti i giorni (addirittura con costi relativamente contenuti!), comporta un protagonismo culturale al quale il sindacato non è più abituato, ma che fa parte della sua storia. Si tratta di diventare l’avversario dichiarato della deresponsabilizzazione economicistica delle decisioni artificiali e, quindi, indirettamente, il sostenitore della centralità della relazione umana (educativa, lavorativa, affettiva etc.) in ogni processo che riguardi le decisioni sul futuro di persone.
5. La riscoperta della funzione educativa del sindacato
Il secondo possibile impatto dell’intelligenza artificiale sulle relazioni di lavoro riguarda la qualità dei contratti collettivi e, più in generale, di ogni accordo di natura giuridico-sindacale.
I formulari per la contrattazione individuale e collettiva oggi utilizzati dai professionisti e dai centri servizi possono con minor margine di errore essere profilati alle caratteristiche delle diverse situazioni da software di intelligenza artificiale generativa. La stessa dinamica interessa anche la pareristica, la costruzione delle memorie processuali, addirittura l’impostazione delle sentenze. Sarà quindi l’intelligenza artificiale, allenata sulle capienti banche dati dei grandi studi legali (o addirittura dei tribunali), a generare bozze di accordi sindacali, finanche veri e propri contratti collettivi. E’ uno scenario tutt’altro che futuristico, emerso nei lavori preparatori della raccomandazione europea, oggetto di dibattito tra avvocati, consulenti del lavoro, commercialisti, che si interrogano sul futuro delle proprie professioni di fronte a una tecnologia capace di pensiero ricostruttivo. Lo stesso sindacato può sfruttare gli archivi di pratiche dei patronati, dei CAF, delle associazioni di consumatori, per costruire servizi innovativi, liberamente consultabili, più completi dei portali di informazione pubblica.
Questa (potenziale) perfezione giuridica riduce non di poco la centralità della preparazione tecnica di sindacalisti e uomini di impresa e libera per altre attività il tempo oggi destinato al consolidamento dei testi e alla ricerca delle formulazioni più comprensibili e meno equivoche. L’impoverimento di questi compiti, che richiedono competenze specialistiche di natura nozionistica (quindi “datasettizzabili”) potrebbe incoraggiare la riscoperta dell’originaria vocazione educativa del sindacato, ossia il ruolo sociale di accompagnamento delle persone nelle scelte inerenti il lavoro. Una riscoperta che appare quantomai opportuna: in una fase di cambiamento d’epoca come quella attuale, i lavoratori al sindacato non chiedono soltanto “difesa”, ma anche compagnia, sia professionale che, molto più frequentemente, di natura sociale. Le relazioni, in questo caso non “di lavoro”, potrebbero perciò colmare il minore interesse verso i servizi di natura servile, a tutto vantaggio del senso di appartenenza degli associati verso la sigla di cui posseggono la tessera. Sentimento, quest’ultimo, affievolitosi negli anni, soprattutto tra i sindacati a vocazione antagonista e di classe, che hanno bisogno dell’imperfezione per movimentare l’interesse verso di sé.
6. La necessità di “partecipare” in azienda
Il terzo possibile impatto concerne la qualità e la maturità della relazione tra lavoratori e imprese.
Come noto, la CISL ha presentato in Parlamento una legge di iniziativa popolare volta ad attuare l’articolo 46 della Costituzione in materia di partecipazione dei lavoratori alla governance di impresa. I membri delle Commissioni congiunte Finanze (VI°) e Lavoro pubblico e privato (XI°) hanno deciso di ritirare ogni altra proposta sul medesimo argomento ed iniziare l’analisi di quello che è diventato l’Atto Camera n. 1573 .
Tra le ragioni che giustificano l’iniziativa della CISL vi è anche la convinzione che l’intelligenza artificiale generativa ridurrà sensibilmente numeri e qualità delle posizioni di lavoro ripetitive e routinarie. Questo obbligherà il legislatore e le parti sociali a individuare modelli organizzativi che sappiano valorizzare l’autonomia responsabile dei lavoratori e la loro creatività: la prestazione lavorativa, ad ogni livello, sempre meno consisterà nella mera esecuzione di ordini gerarchicamente impartiti, bensì richiederà spirito di iniziativa, pensiero laterale e relazionalità.
Queste rinnovate relazioni di lavoro inevitabilmente esigeranno adeguati livelli di conoscenza del contesto e degli obiettivi aziendali (c.d. partecipazione consultiva), la collaborazione dei lavoratori alle scelte dell’impresa (c.d. partecipazione gestionale), ai suoi risultati (c.d. partecipazione economico-finanziaria) e al miglioramento di prodotti e processi (c.d. partecipazione organizzativa).
7. Breve conclusione
La concezione sottostante a tutte le proposte accennate è che il destino dell’Intelligenza Artificiale sia sottoposto alle decisioni democratiche dell’Unione Europa, del Governo e dei corpi intermedi, ognuno per la propria competenza. Addirittura della contrattazione collettiva, come già sta accadendo sul tavolo di rinnovo del CCNL della meccanica, ove le parti stanno discutendo di prime regolazioni nazionali dell’uso della IA nelle aziende del comparto.
Laddove invece si affermasse la posizione (o si realizzasse nella pratica) che l’IA generativa è un fiume in piena destinato a trascinare a valle tutti coloro che incontra, quali che siano le loro intenzioni, semplicemente non avrebbe alcun senso scrivere di “nuove” relazioni di lavoro o di responsabilizzazione dei lavoratori, non più artefici (neanche come cittadini) del proprio futuro.