testo integrale con note e bibiografia

1. Posizione del problema

La «grande avventura» della rivoluzione industriale viene consegnata alla storia scandita in una «sequenza ormai classica» , che vede in una prima fase lo sviluppo delle macchine ad energia fossile, in una seconda fase la scoperta dell’elettricità e in una terza fase l’invenzione dell’informatica centralizzata (il computer). Eppure, questa avventura non può dirsi ancora del tutto conclusa; al contrario, una nuova era di questa ininterrotta rivoluzione è da tempo cominciata, nota ai più come Quarta Rivoluzione Industriale .
La scoperta dell’intelligenza artificiale sta generando una transizione verso un nuovo paradigma di sviluppo, nell’ambito del quale l’interazione uomo-macchina non è caratterizzata tanto dal controllo del primo sulla seconda, quanto da una interazione e una collaborazione con la stessa.
Le “macchine” di nuova generazione, infatti, sono spesso dotate di un certo grado di autonomia decisionale, indipendente da quella umana . Si tratta di sistemi intelligenti dotati di «una reale capacità di autoapprendimento con riguardo alle informazioni che gli derivano dall’esperienza e dall’ambiente (c.d. machine learning)» ( ).
Non si tratta, dunque, di tecnologie che si limitano ad applicare delle regole e dei parametri preimpostati dall’uomo, al pari degli algoritmi “tradizionali”, ma di macchine capaci di elaborare e interpretare dati utili ad assumere delle decisioni autonome ed efficienti , adattandole e rielaborandole anche in relazione all’ambiente circostante.
Davanti a questa profonda trasformazione, la riflessione giuslavoristica non è rimasta certamente inerme, poiché è fuor di dubbio che un tale cambiamento sia in grado di mettere in crisi non solo le categorie giuridiche attraverso le quali il diritto dà ordine ai rapporti di produzione, ma anche i diritti e le tutele dei lavoratori che, tuttavia, l’ordinamento giuridico deve continuare a garantire, in virtù dei principi sanciti dalla Carta Costituzionale.
Si discute degli aspetti definitori ( ) - rispetto ai quali un primo approdo normativo è stato raggiunto il 6 marzo 2024, con l’approvazione del Regolamento europeo sull’intelligenza artificiale ( ) - e dei diversi nodi problematici che solleva l’utilizzo dell’intelligenza artificiale nella esecuzione e nella gestione dei rapporti di lavoro ( ).
Tuttavia, la riflessione giuslavoristica deve anche farsi carico di verificare come possa impattare la progressiva diffusione dell’intelligenza artificiale sul sistema della sicurezza sociale.
Il diritto del lavoro, infatti, non è funzionale a tutelare il lavoratore solo nell’ambito della organizzazione dell’impresa. Questo «congegno molto raffinato» (così lo aveva definito Francesco Santoro-Passarelli) ha tra i suoi obiettivi anche quello di rispondere ai bisogni essenziali del lavoratore derivanti dall’assenza o dall’impossibilità del lavoro; assenza o impossibilità che, stando alla lettera dell’art. 38 Cost., può dipendere da determinati eventi, tra i quali la disoccupazione, l’infortunio o l’aver contratto una malattia di origine professionale ( ).
Come è noto, per rispondere ai bisogni che l’assenza (sia pure temporanea) di lavoro genera, l’ordinamento riconosce al lavoratore delle prestazioni (anche ma non solo) economiche ( ), sebbene a fronte di determinate condizioni stabilite dalla legge. Sennonché, l’adeguatezza di tali misure e i relativi presupposti giuridici che ne consentono il godimento è, però, tutta da verificare a fronte di un nuovo scenario che si va delineando in ragione del progresso tecnologico.
Sotto questo profilo, infatti, gli attuali “turbamenti” tecnologici ( ) pongono almeno due questioni.
La prima questione riguarda la necessità di verificare come reagisce l’attuale disciplina dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali rispetto alle caratteristiche proprie dell’intelligenza artificiale (§ 2).
La seconda questione, invece, riguarda gli effetti che l’impiego dell’intelligenza artificiale può ingenerare sull’occupazione e i relativi strumenti di tutela predisposti dall’ordinamento per fronteggiare tali effetti. Anche in questo caso, occorre vagliare con attenzione l’adeguatezza del quadro giuridico-istituzionale di riferimento (§ 3).
Per poter affrontare efficacemente le suddette questioni, appare utile provare a far interagire l’attuale quadro normativo e i relativi strumenti di tutela con dei casi paradigmatici, anche nell’ottica di scorgere se sia necessario prospettare delle soluzioni de iure condendo (§ 4).

2. Intelligenza artificiale e tutele assicurative: il caso paradigmatico della driverless car

Il caso della driverless car è certamente rappresentativo di come lo sviluppo tecnologico, se da un lato porta con sé l’opportunità di migliorare i livelli di sicurezza sul lavoro, dall’altro può generare dei nuovi rischi i cui effetti, talvolta, non possono essere sempre gestiti attraverso il vigente quadro normativo.
La driverless car è un’automobile «capace di effettuare percorsi senza l’intervento del conducente» e che riesce «a coordinare le proprie azioni con quelle di altri veicoli a loro volta connessi, ad adeguare la guida in funzione di informazioni ricevute dalla rete stradale interattiva» ( ).
Secondo la definizione offerta da SAE International (Society of Automotive Engineers) l’automobile completamente automatizzata (Full Automation) svolge una funzione completamente diversa dagli attuali veicoli, perché esclude ogni intervento umano ( ), essendo peraltro priva degli strumenti attraverso i quali questo si realizza (ovvero, sterzi e pedali) ( ).
Si tratta di uno strumento tecnologico che, oltre a segnare da un punto di vista storico e sociale il passaggio tra due epoche ( ), contribuisce a creare una sorta di “guida predittiva”, in quanto la driverless car, grazie ad una permanente connessione alla rete e ad una capacità autonoma di elaborare i dati «potrà ottimizzare percorsi, soste, tempi di utilizzo e consumi in funzione» ( ).
Siamo di fronte ad una nuova tecnologia, in alcuni paesi ancora in fase di sperimentazione e, dunque, non accessibile all’uso di massa. Eppure, gli sviluppi in materia non si arrestano poiché i benefici che ne deriverebbero sono diversi: verrebbe innalzato il livello di sicurezza urbano giacché, grazie alla connessione in rete, l’automobile autoguidata diventerebbe parte della comunità, ponendosi in equilibrio con gli altri veicoli ed anche i pedoni, prevenendo il rischio di incidenti ( ).
Di rilievo sarebbe anche il minore impatto ambientale di questa tecnologia, posto che la driverless car è, nella maggior parte dei casi, un veicolo elettrico e contribuisce a ridurre le immissioni di Co2 ( ), in linea con i recenti obiettivi dell’Unione Europea che, tramite il PNRR, ha avviato un processo di decarbonizzazione complessivo ( ). Peraltro, la diffusione dei veicoli senza conducente (conosciuti anche come CAV - Connected and autonomous vehicles) contribuirebbe ad aumentare le opportunità di mobilità per gli anziani e le persone affette da disabilità ( ).
Tutti questi benefici fanno presumere che non passerà molto tempo prima che le macchine a guida autonomia abbandonino la fase sperimentale per passare all’uso di massa.
In un tale scenario, se utilizzata anche per ragioni di lavoro (ad esempio, per recersi sul posto di lavoro) o nell’attività d’impresa (ad esempio, per svolgere attività di trasporto di persone e/o merci), la capacità predittiva della driverless car potrebbe contribuire ad innalzare gli standard di sicurezza dei lavoratori che ne fanno uso, poiché in grado di favorire la diminuzione del rischio di incidenti ( ) o finanche di soccorrere adeguatamente il lavoratore in caso di pericolo (come accaduto di recente negli Stati Uniti, dove un uomo, colto da infarto, è stato trasportato da una driverless car in ospedale) ( ).
Sennonché, ipotizzando che il lavoratore utilizzi un veicolo a guida autonoma per recarsi dalla propria abitazione al posto di lavoro e che nel percorrere il tragitto lo stesso possa incorrere in un incidente, occorre chiedersi se l’attuale quadro normativo sia adeguato a tutelare una situazione di questo tipo.
In questo caso, la legge predispone una particolare forma di tutela assicurativa, sebbene l’incidente non si sia verificato in senso stretto durante l’occasione di lavoro: si tratta del c.d. infortunio in itinere.
L’art. 2, comma 3, del d.p.r. n. 1124 del 1965, infatti, prevede che «l’assicurazione» obbligatoria comprende anche «gli infortuni occorsi alle persone assicurate durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello di lavoro, durante il normale percorso che collega due luoghi di lavoro se il lavoratore ha più rapporti di lavoro e, qualora non sia presente un servizio di mensa aziendale, durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di lavoro a quello di consumazione abituale dei pasti».
Inoltre, la medesima disposizione specifica che «l’interruzione e la deviazione si intendono necessitate quando sono dovute a cause di forza maggiore, ad esigenze essenziali ed improrogabili o all’adempimento di obblighi penalmente rilevanti».
Infine, la disposizione precisa che «l’assicurazione opera anche nel caso di utilizzo del mezzo di trasporto privato, purché necessitato».
La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha chiarito che il “normale percorso” casa-lavoro non coincide necessariamente con il percorso più breve. Secondo i giudici, infatti, è esclusa l’indennizzabilità dell’infortunio in itinere solo quando il lavoratore abbia scelto il percorso più lungo senza che vi sia una ragione legata a particolari condizioni della strada o alla viabilità ( ).
Piuttosto, deve trattarsi di un percorso abituale e la scelta non deve dipendere da ragioni del tutto personali o comunque estranee all’attività lavorativa ( ).
Il requisito della abitualità e quindi della normalità viene meno quando vi sia una «macroscopica divergenza del tracciato prescelto» tale da «non risultare ragionevolmente giustificabile, se non per dimostrare esigenze inerenti allo stretto raggiungimento del luogo di lavoro» ( ).
Pertanto, salvo che non si dimostri in concreto il contrario, un cambiamento ingiustificato del percorso necessitato a raggiungere il luogo di lavoro non dà diritto alla copertura assicurativa ex art. 2, comma 3, del d.p.r. n. 1124 del 1965.
Più di recente, la Corte di Cassazione ha riesaminato il concetto di “normalità” del percorso, ritenendo che questo vada necessariamente valutato anche alla luce dei «valori guida dell’ordinamento giuridico» e tutelati dalla Costituzione quali la ragionevolezza (art. 3 Cost.), la libertà di fissare la propria residenza (art. 16 Cost.), le esigenze familiari (art. 31 Cost.); è attraverso la tutela di questi valori che occorre vagliare la legittimità del percorso compiuto dal lavoratore per recarsi al lavoro o tornare presso la propria dimora dopo l’attività di lavoro ai fini dell’accesso alla tutela assicurativa specificamente prevista ( ).
In relazione alla driverless car, il concetto normativo di “normale percorso” solleva dei problemi applicativi di non poco conto, perché il veicolo a guida autonoma ha la capacità di variare il percorso in ragione delle diverse anomalie della rete stradale, che possono essere varie.
Alcune deviazioni sono necessarie, dettate cioè da motivi di mancata viabilità e dunque di sicurezza (deviazioni connesse ad incidenti, problemi metereologici etc.). E in questo caso, non pare si possano porre particolari problemi, giacché è la disposizione a prevedere la non considerazione delle cause di forza maggiore ai fini della deviazione dal normale percorso di lavoro.
Altre deviazioni, invece, potrebbero essere dettate da motivi di viabilità che tuttavia non sono tali da giustificare una modifica del tragitto ordinariamente percorso: si pensi all’ipotesi in cui il veicolo a guida autonoma calcoli la fattibilità di più percorsi e scelga quello più breve, anche per un differenziale di tempo minimo rispetto agli altri possibili. Tuttavia, la tutela dell’infortunio in itinere agisce in relazione all’abitualità del percorso, non in ragione di quello più breve.
Conseguentemente, in caso di incidente, la posizione del lavoratore infortunato sarebbe gravemente compromessa, essendo concreto il rischio che gli possa essere negata la tutela indennitaria ex art. 2, comma 3, del d.p.r. n. 1124 del 1965 in caso di incidente, a meno che non si voglia aderire a quell’orientamento dottrinale secondo cui le modalità di spostamento e la scelta del mezzo utilizzato per effettuarlo risultano irrilevanti ai fini dell’accesso alla tutela, essendo piuttosto rilevante che permanga il nesso funzionale del viaggio con il lavoro ( ).
Questo primo profilo di analisi dimostra come l’attuale sistema assicurativo obbligatorio presenti - se non un vero e proprio vulnus - dei significativi margini di incertezza rispetto alle caratteristiche tecniche della driverless car.
Sennonché, le criticità non paiono arrestarsi.
Sono ancora tutti da verificare, infatti, gli ulteriori effetti che questa tecnologia può ingenerare sulla salute psichica del personale che si occupa di trasporto merci il quale, da una funzione “attiva” quale è quella di autista, si potrebbe trovare relegato a svolgere una funzione di mero “sorvegliante” dell’automezzo.
Non si può escludere, ad esempio, che l’affidarsi ad un mezzo che autonomamente percorre un tragitto, con il continuo timore che possa improvvisamente prendere delle deviazioni e causare un impatto mortale o essere oggetto di attacco informatico, e la necessità di controllare costantemente il suo operato nell’ottica di riprendere subito il controllo in caso di anomalia, potrebbe esporre il supervisore a livelli di stress emotivo, tali da poter generare delle patologie psichiche alcune delle quali ancora del tutto inedite ( ).
Sotto questo profilo, possiamo riscontrare almeno due ricadute critiche di ordine sistematico: a) mentre i datori di lavoro dovranno certamente farsi carico di ripensare adeguate misure di prevenzione ex art. 2087 c.c., in caso di malattie psichiche i lavoratori si troveranno esposti ad un importante onere probatorio, che impone di dimostrare l’eziologia professionale di dette patologie, specie di quelle inconsuete; b) inoltre, non si può calcolare quale impatto potrà produrre l’accrescimento potenziale delle patologie psichiche sull’equilibrio delle risorse economiche dell’INAIL.
Infine, in caso di incidente dovuto ad un malfunzionamento del “sistema intelligente” che guida la vettura ( ), resta da capire anche a chi imputare le conseguenze dell’infortunio del lavoratore, se al datore di lavoro - tradizionalmente ritenuto il soggetto «che dall’intrapresa attende il vantaggio» e quindi deve sopportarne anche «le eventualità dannose» ( ) - oppure al produttore, trasferendo su di esso il “costo dell’incidente” in quanto soggetto maggiormente capace di sopportarne il peso (cheapest cost avoider), seguendo così una nota teoria transatlantica della responsabilità ( ). Si tratta di una scelta che inevitabilmente si riflette sui confini dell’azione di regresso che l’INAIL, ai sensi dell’art. 11 del d.p.r. n. 1124 del 1965, può esercitare verso le «persone civilmente responsabili» ( ).

3. Intelligenza artificiale e “disoccupazione tecnologica”

Da tempo la scienza economica - sia pure con visioni e approcci differenti - segnala che ogni progresso tecnologico può generare degli shock temporanei sui livelli occupazionali, causandone anche contrazioni eccessive.
Fu proprio J. M. Keynes a rilevare come lo sviluppo tecnologico potesse generare, specularmente, la c.d. disoccupazione tecnologica, cioè una disoccupazione causata dall’impiego di strumenti atti a economizzare l’uso di manodopera e dalla contemporanea incapacità dello Stato e delle imprese di reimpiegare nel breve termine la manodopera in esubero ( ).
La prospettiva keynesiana torna ad essere, ancora una volta, attuale: forte è il timore che l’intelligenza artificiale possa generare questo tipo di effetti ( ).
Vi sono alcuni casi significativi al riguardo.
In Spagna, disegnatori artistici, fumettisti ed illustratori hanno protestato a lungo contro l’utilizzo ormai massivo dell’intelligenza artificiale nell’ambito della loro attività lavorativa. Le cronache del 2023 ci informano anche di una protesta tenutasi a Hollywood e che ha portato sceneggiatori e autori a scioperare per circa cinque mesi: il sindacato Writers Guild of America, che rappresenta oltre 11mila iscritti di addetti ai lavori, ha fortemente contestato l’utilizzo di sistemi dotati di intelligenza artificiale per la progettazione, la scrittura e l’ambientazione dei film.
I sistemi di intelligenza artificiale, dunque, si sono evoluti nel corso degli ultimi anni al punto da poter svolgere compiti che un tempo potevano essere realizzati unicamente dalla forza creatrice dell’uomo. Questa nuova tecnologia è oggi in grado di generare contenuti originali, come testi, illustrazioni, brani musicali o video, producendo un impatto di segno negativo non trascurabile sul settore dei servizi creativi e culturali ( ).
Allo stesso modo, sono diversi i report ( ) e gli studi ( ) che segnalano come la diffusione delle driverless car (cfr. supra, § 2) rappresenti una concreta minaccia per interi indotti occupazionali, quali i servizi di mobilità cittadina, i servizi di trasporto privati (taxi), i servizi di noleggio dell’automobile con conducente (il c.d. NCC), i servizi di trasporto delle merci. In alcune città deli Stati Uniti, del resto, sono già operativi dei taxi a guida autonoma (noti come taxirobot) ( ).
In questo scenario, non si può calcolare con certezza l’entità dei job losers, poiché la spirale negativa che l’intelligenza artificiale genererà sull’occupazione, a differenza dei precedenti processi di automazione, non colpirà solo i lavoratori low-skilled ma anche i lavoratori con elevate competenze. Quanto sta accadendo in Spagna - ma anche in Italia, dove in alcuni musei sono stati installati dei robot intelligenti in grado di svolgere l’attività di guida e rispondere alle domande (c.d. robot museali) - contribuisce a dare conferma a questo assunto.
Sennonché, il nostro ordinamento non è certamente sprovvisto di strumenti idonei a garantire una forma di tutela a tutti i lavoratori che resteranno privi della propria attività lavorativa perché licenziati per ragioni organizzative, a causa della scelta datoriale di adottare tecnologie capaci di sostituire il lavoro dell’uomo (trattasi dei c.d. licenziamenti tecnologici), fermo restando che la scelta datoriale di ricorrere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo deve pur sempre essere accompagnata dall’onere di repêchage.
Per le imprese, invece, che decideranno di non ricorrere in modo immediato al recesso, non mancano strumenti per favorire la riqualificazione e la conseguente ricollocazione, anche presso altre imprese, di quei lavoratori temporaneamente sospesi dall’attività di lavoro a causa di una ridotta utilità marginale del loro ruolo e della loro funzione nel processo produttivo.
Oltre all’ordinaria indennità di disoccupazione (meglio nota come NASpI e disciplinata, da ultimo, dal d.lgs. n. 22 del 2015) e ai tradizionali ammortizzatori sociali (quali, la Cassa Integrazione Guadagni e l’articolato sistema di fondi previsto dal d.lgs. n. 148 del 2015), l’attuale quadro normativo si è arricchito di ulteriori strumenti che tentano di coniugare, sinergicamente, le politiche passive di sostegno al reddito alle politiche attive del lavoro, nell’ottica di favorire un rimpiego del lavoratore, possibilmente riqualificato, anche in un contesto o in un settore che non sia quello iniziale ( ).
In questo senso, si pensi all’Accordo di Transizione Occupazionale (ATO), disciplinato dall’ art. 22-ter, d.lgs. n. 148 del 2015, che consente alle imprese che abbiano esaurito il limite di utilizzo della CIGS di accedere ad un ulteriore intervento cui sono connesse specifiche politiche attive in favore dei lavoratori coinvolti, nonché aiuti economici e incentivi contributivi in caso di rioccupazione per le aziende che assumono tali lavoratori in esubero.
Merita menzione anche il Fondo Nuovo Competenze (FNC) di cui all’articolo 88 del d.l. 19 maggio 2020, n. 34, convertito con modificazioni dalla legge 18 luglio 2020, n. 77. Si tratta di una misura di politica attiva che consente il (parziale) rimborso, a favore del datore di lavoro, della retribuzione delle ore di lavoro che il dipendente impiega in attività di formazione, in presenza di accordi di rimodulazione dell’orario di lavoro sottoscritti con le rappresentanze sindacali aziendali o territoriali afferenti alle organizzazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale ( ).
Secondo quanto previsto dal Decreto del Ministero del lavoro del 22 settembre 2022, le finalità delle attività formative devono ora essere necessariamente orientate a supportare processi di innovazione che richiedano un «aggiornamento delle professionalità dei lavoratori a seguito della transizione digitale ed ecologica» ( ).
Tuttavia, le finanze utili al funzionamento di detti strumenti si basano, in larga parte, tanto sulla fiscalità generale che sull’ammontare dei contributi versati da imprese e lavoratori attivi che, da qualche decennio, vanno però diminuendo, con non poche conseguenze sull’equilibrio economico del sistema previdenziale, la cui crisi è da tempo annunciata.
All’orizzonte, dunque, vi è il rischio di potenziali squilibri nella “spesa previdenziale”, che possono rivelarsi oltremodo eccessivi.
Non ci si può esimere, dunque, dal valutare di battere nuove strade, alla ricerca di ulteriori strumenti che possano contribuire ad accompagnare questa transizione, che colpisce in modo significativo il mondo del lavoro ( ).

4. Alcune considerazioni (de iure condendo) sul “costo sociale” dell’innovazione tecnologica

Lo sviluppo tecnologico serba ancora tante incognite: del tutto inatteso e imprevedibile è, ad esempio, l’aumento delle patologie legate a fenomeni di tecnostress; allo stesso modo, ancora incerto è l’effetto che la diffusione dell’intelligenza artificiale potrà produrre sui tassi occupazionali.
Tutte queste incertezze, però – e qui si giunge al cuore della questione che s’intendeva sollevare – non sono certamente indifferenti per il sistema di welfare pubblico, il quale deve costantemente fare i conti con l’equilibrio delle risorse economiche e con l’emergere di nuovi rischi e nuovi bisogni che la società post-industriale solleva.
L’incremento esponenziale delle malattie psichiche di origine professionale o la velocità con la quale la forza lavoro diviene obsolescente al cospetto del progresso tecnologico possono facilmente esporre il sistema del welfare pubblico ad una indebita pressione, tale da far sospettare che l’attuale sistema di tutele precedentemente evocato (§§ 2 e 3) possa rivelarsi, se non del tutto inadeguato, quantomeno insufficiente a sostenere questa transizione.
Da questo punto di vista, dunque, non pare che ci si possa esimere dal prospettare, de iure condendo, alcune possibili misure per rendere maggiormente sostenibile una tale transizione, senza che i diritti costituzionalmente previsti - primo tra tutti, il diritto al lavoro di cui all’art. 4 Cost. - vengano eccessivamente compromessi.
Le strade percorribili potrebbero essere diverse, alcune delle quali tra loro complementari.
Una prima soluzione potrebbe consistere nell’adottare - sulla scia dell’esperienza spagnola e di quella hollywoodiana - delle linee guida riguardanti l’utilizzo dell’intelligenza artificiale nei diversi settori produttivi, utili a non reprimerne o bandirne l’utilizzo ma a minimizzarne gli impatti sulla popolazione lavorativa, non solo in termini di sicurezza per la salute ma anche sotto il profilo della sicurezza occupazionale.
La definizione di dette linee guida potrebbe essere affidata anche alla contrattazione collettiva o alla bilateralità, strumenti certamente idonei a fotografare e disciplinare le diverse peculiarità organizzative che presenta ogni singolo settore produttivo ( ).
Il sindacato, del resto, è già chiamato a dare il proprio contributo dal Regolamento europeo del 6 marzo 2024 sull’intelligenza artificiale: all’art. 26, comma 7 è previsto che «prima di mettere in servizio o utilizzare un sistema di IA ad alto rischio sul luogo di lavoro, i deployer che sono datori di lavoro informano i rappresentanti dei lavoratori e i lavoratori interessati che saranno soggetti all’uso del sistema di AI ad alto rischio».
Il diritto del sindacato ad essere informato, tuttavia, non può essere marginalizzato alle ipotesi in cui ad essere compromesso sia solo il bene “salute”: il bene “occupazione”, infatti, non può essere certamente perso di vista, anche perché non occorre dimenticare che, in assenza di adeguati mezzi di tutela, la giurisprudenza potrebbe sempre offrire il proprio contributo, magari “rivisitando” (e, quindi, ridisegnando) i confini dell’obbligo di repêchage, includendo profili fino ad oggi esclusi, quali ad esempio l’obbligo di fornire l’adeguata formazione necessaria per l’adibizione del lavoratore a diverse mansioni.
Seppure ancora tutti fa verificare, segnali incoraggianti per l’Italia arrivano dal un recente DDL discusso il 23 aprile scorso, in cui si prevede l’istituzione di un Osservatorio sull’adozione di sistemi di intelligenza artificiale nel mondo del lavoro, «finalizzato a rispondere ad una esigenza espressa da parti sociali e altri operatori del mercato del lavoro di costruzione di un “luogo” di confronto e monitoraggio degli effetti dell’intelligenza artificiale sul mondo del lavoro, così da poter valutare le specifiche esigenze che ne derivano sia in termini di tutela dei lavoratori che in termini di competitività delle imprese e del sistema economico italiano» ( ).
Tuttavia, occorrerà valutare la reale capacità di questo osservatorio di raccogliere e rappresentare le istanze provenienti dal mondo produttivo, una volta che sia stato emesso il decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali che ne deve disporre la composizione e l’operatività.
In aggiunta o in alternativa ad una soluzione che vede il sindacato partecipare alla gestione dell’utilizzo dell’intelligenza artificiale - richiamando un dibattito emerso già in una fase iniziale della Quarta Rivoluzioni Industriale ( ) - è possibile prospettare anche una differente misura, tesa ad allocare il “costo sociale” di questa transizione sul soggetto che meglio può sopportarlo.
Se, come detto, lo sviluppo di questa nuova tecnologia può contribuire a mettere sotto stress le risorse economiche del sistema previdenziale e assicurativo a causa dell’accrescimento delle patologie e dell’eccessivo tasso di disoccupazione (sebbene temporaneo), si potrebbe prospettare - come del resto parte della dottrina (anche giuslavoristica) ipotizza da tempo - un prelievo contributivo e fiscale sulle diverse forme di intelligenza artificiale impiegata nell’attività di impresa, soprattutto se dall’adozione di queste dipende, in stretta connessione, la riduzione della forza lavoro umana da un lato e l’aumento dei profitti dall’altro ( ).
Del resto, una simile misura era apparsa già nel testo della Risoluzione del Parlamento europeo del 16 febbraio 2017 concernente l’adozione di norme di diritto civile sulla robotica, sebbene espunta successivamente dalla versione definitiva del testo ( ).
Si tratta di una misura che deve essere necessariamente discussa nelle sedi opportune ma al riguardo è necessario rammendare che laddove le istituzioni democratiche decidano di intraprendere un dibattito sull’opportunità di adottare questa misura, occorre tenere presente che non sarebbe la prima volta che la legge impone alle imprese di partecipare e contribuire al sostentamento dei costi del sistema della sicurezza sociale. Basti ricordare, ad esempio, la misura introdotta dall’art. 2, co. 31-35 della legge n. 92 del 2012 (Legge Fornero) passata agli onori della cronaca come “ticket di licenziamento”.
Si tratta di una vera e propria tassa che il datore di lavoro ancora oggi deve pagare nel momento in cui licenzia i lavoratori.
La funzione di questa misura è duplice:
a) da un lato, essa ha lo scopo di concorrere alle spese che il sistema pubblico della sicurezza sociale deve sostenere nel frattempo che sia consentito al lavoratore di ritrovare un impiego;
b) dall’altro, essa rappresenterebbe anche una misura di deterrenza, poiché contribuisce a disincentivare il ricorso al licenziamento incentivando la ricerca di soluzioni alternative, posto che l’importo del ticket varia anche in ragione del tasso annuo d’inflazione.

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