TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. Il problema

L’affermazione che la nostra società presenti un deficit di socialità ritengo appartenga alle constatazioni evidenti. Ovviamente questo fatto può essere diversamente interpretato, anche in maniera positiva se si ritiene che sia possibile vivere insieme solo traducendo in comportamenti e relazioni umane la logica competitiva e di scambio del mercato. In ogni caso, il presente contributo sostiene la necessità un incremento della socialità nel nostro vivere comune ed intende pensare questo a partire dalla socialità nel lavoro – se esista e come -, assumendo la questione della socialità non in alternativa all’individualismo, ma come un suo “sfondamento” in direzione di una solidarietà delle diversità che non neghi l’individuo ma lo arricchisca. Ovvero, pensando al soggetto come una persona e ponendo la questione del rapporto tra persona, lavoro e partecipazione.
Il nostro ragionamento inizierà da un’utopia sul lavoro contenuta, secondo noi, nel primo Libro del Capitale, in cui Karl Marx pone la questione della crescita umana del lavoratore nella socialità introdotta dal capitale nella nuova organizzazione della produzione. Quindi considereremo la Condizione operaia di Simone Weil per approfondire la negazione della socialità nel lavoro fordista di cui, come è noto, Weil scelse di avere un’esperienza diretta; per poi passare alla proposta di partecipazione del lavoratore alle decisioni della direzione d’impresa contenuta in Lavoro e capitale monopolistico di Harry Braverman. A questo punto, sulla base dell’analisi di questi testi classici, porremmo la questione della socialità a confronto con le trasformazioni che le attività lavorative conoscono nelle attuali trasformazioni tecnologiche e organizzative, sia facendo appello alla riflessione di Bruno Trentin sulla riproposizione della persona nel lavoro, sia introducendo il tema della socialità nel capitalismo delle piattaforme. Finalmente, alla luce dei risultati ottenuti, cercheremo, di trarre delle conclusioni per quanto riguarda il tema del rapporto tra socialità nel lavoro e socialità nel vivere comune. Una maniera per ripensare il valore politico del lavoro. Ovviamente senza alcuna pretesa che la socialità nel lavoro giochi un ruolo esclusivo e meccanico nella determinazione del carattere solidale dei rapporti sociali. Ma anche con la consapevolezza che la morale ha bisogno dei presupposti materiali di cui è un’interpretazione e dei quali non può essere semplicemente la prescrizione.

2. L’intuizione utopica di Marx

Nell’undicesimo capitolo del primo libro del Capitale Marx sostiene che il modo di produzione capitalistico inizia con una nuova forma di organizzazione del lavoro che egli designa col termine di «cooperazione» (Kooperation), di «operaio complessivo» (Gesamtarbeiter), di «operaio combinato» (kombinierte Arbeiter), di «lavoro sociale» (gesellschaftlicher Arbeit): «La produzione capitalistica comincia realmente […] solo quando il medesimo capitale individuale impiega allo stesso tempo un numero piuttosto considerevole di operai […] La forma del lavoro di molte persone che lavorano l’una accanto all’altra e l’una assieme all’altra secondo un piano […] si chiama cooperazione […] L’operaio combinato o operaio complessivo (Gesamtarbeiter) ha occhi e mani davanti e di dietro, e possiede fino a un certo punto la dote dell’ubiquità, [… ] Ora l’ordine del capitalista sul luogo di produzione diventa indispensabile come l’ordine del generale sul campo di battaglia […] Questa funzione di direzione, sorveglianza, coordinamento, diventa funzione del capitale appena il lavoro ad esso subordinato diventa cooperativo […] quanto alla forma è dispotica» . Economicamente la cooperazione è finalizzata ad accrescere la produttività del singolo operaio. Socialmente si contraddistingue da quella degli antichi egiziani, etruschi e popoli asiatici, perché organizza operai liberi e non schiavi; e dal lavoro indipendente dei contadini proprietari della terra e degli artigiani autonomi in quanto lavori eminentemente individuali. Essa inoltre promuove una divisione del lavoro sempre più specializzata e parcellizzata che sfocia nella sostituzione del lavoro da parte della macchina (è l’organizzazione del lavoro che promuove e permette di applicare la tecnologia). Quindi la cooperazione organizza operai formalmente liberi che nella divisione tecnica del lavoro perdono la loro professionalità ed erogano mera «forza lavoro». Il Gesamtarbeiter organizza «lavoro astratto», lavoro che ha perso l’unità del mestiere concreto ed è stato ridotto ad erogazione di ore di lavoro astrattamente uguali per il tempo necessario a produrre la merce .
In questo quadro Marx compie un’affermazione inaspettata, che egli stesso poi problematizza. L’affermazione riguarda il Gesamtarbeiter e sostiene che «Nella cooperazione pianificata con altri l’operaio si spoglia dei suoi limiti individuali e sviluppa la facoltà della sua specie» . Quindi un giudizio positivo sulla cooperazione, in quanto rottura dei «limiti individuali» del lavoro contadino e artigianale e occasione di sviluppo delle capacità umane in generale. La problematicità dell’affermazione non riguarda il ragionamento economico, che pure si apre improvvisamente sul piano dello sviluppo di valori umani. Né la questione, tipicamente marxiana, se il lavoro possa rappresentare un’attività di autorealizzazione e promozione umane anche nel modo di produzione capitalistico. Possibilità che Marx, evidentemente, non ritiene, in linea di principio, di poter escludere. Il problema è che Marx nega il reale carattere sociale del Gesamtarbeiter. Infatti egli scrive: «Come persone (Personen) indipendenti gli operai sono dei singoli i quali entrano in rapporto con lo stesso capitale, ma non in rapporto reciproco fra di loro. La loro cooperazione comincia soltanto nel processo lavorativo, ma nel processo lavorativo hanno già cessato di appartenere a sé stessi. Entrandovi, sono incorporati nel capitale» . Gli operai sono delle persone al di fuori del rapporto di lavoro cooperativo, appena vi entrano non stabiliscono dei rapporti personali perché nella cooperazione le persone hanno cessato di essere tali. Non appartenendo più a sé stesse, perché sono comandate dal capitale, esse non sono più delle Personen. E quindi non può esserci socialità nel lavoro degli operai organizzati nel Gesamtarbeiter perché questi non entrano in un «rapporto reciproco fra di loro». Il loro «stare insieme» non è propriamente tale, perché non avviene tra individui liberi e autonomi, tra persone, ma tra lavoratori «astratti» in quanto sottomessi, che possono stare insieme umanamente solo fuori dal processo produttivo, mentre in questo sono vicini, «ma non in rapporto reciproco». Il lavoratore è una persona fuori della cooperazione e in essa è solo astrattamente socializzato. Ritorna persona solo fuori del Gesamtarbeiter, nel tempo di non lavoro, quando può riuscire ad essere solidale anche in base ad una critica della cooperazione stessa .
Allora come leggere la frase di Marx sui processi di arricchimento umano nel lavoro cooperativo? Direi in due modi. Uno lo propone lo stesso Marx in un passaggio del primo libro del Capitale (Cap. 8, «La giornata lavorativa»). L’altro, se non sbaglio, come una contraddizione che rivela un’intuizione utopica. Il primo modo consiste nell’interpretazione marxiana del Gesamtarbeiter come «classe operaia»: «nella storia della produzione capitalistica la regolazione della giornata lavorativa si presenta come lotta per i limiti della giornata lavorativa – lotta tra il capitalista collettivo, cioè la classe dei capitalisti, e l’operaio collettivo (Gesamtarbeiter), cioè la classe operaia (Arbeiter-klasse)» . Il secondo interpreta la contraddizione tra l’affermazione che la nuova forma di lavoro cooperativo arricchisce di socialità e capacità il singolo lavoratore, e l’affermazione che, nel lavoro, questa socialità è meramente apparente perché ad essa manca la materia, la persona, protagonista attiva e passiva, della stessa socializzazione; il secondo interpreta questa contraddizione, dicevo, come l’utopia di un possibile arricchimento dell’operaio nel lavoro capitalistico allorché si superi il Gesamtarbeiter svuotandolo del lavoro astratto sostituito dal concreto, ovvero superando lo stare «vicini» senza essere «insieme» perché la persona ricompare nel lavoro.
I due modi di interpretare il Gesamtarbeiter hanno determinato due differenti storie del marxismo pratico e teorico. L’accento posto sulla “classe operaia” compensa culturalmente e ideologicamente l’assenza di una reale socialità nel lavoro capitalistico organizzato sull’ «operaio complessivo» e rimanda la questione dell’autorealizzazione del lavoro a dopo la conquista del potere da parte della classe operaia . Come sia andate le cose nelle esperienze politiche che si sono rifatte a questa interpretazione e costruzione culturale è noto.
All’approfondimento della seconda strada, aperta dall’interpretazione della contraddizione di Marx come una utopia dell’autorealizzazione nel lavoro capitalistico, è dedicato quello che rimane del presente testo.

3. Socialità e condizione operaia in Simone Weil

Nei testi composti tra il 1934 e il 1942, raccolti in La condizione operaia, Simone Weil analizza e denuncia in maniera ineguagliata le condizioni di lavoro del Gesamtarbeiter mettendo in risalto gli aspetti personali di una attività eterodiretta di cui Marx aveva rilevato i termini organizzativi ed economici. In questo modo Weil, per la prima volta, illumina la condizione umana del lavoro di fabbrica posto alla mercé del comando arbitrario dei capi e sotto il costante ricatto del licenziamento, sottolineando la «sofferenza», l’«umiliazione», l’«isolamento», il «silenzio», la «disumanità» di un lavoro concentrato sul guadagno, che per la fatica e la subordinazione impedisce persino l’impiego del pensiero e dell’immaginazione.
Di questa analisi della condizione operaia a noi interessa sottolineare la mancanza di socialità e di solidarietà che Weil rileva, parlando della assenza di comunicazione e della «concorrenza» tra gli operai determinata dall’organizzazione del lavoro e, d’altra parte, la «gioia» e la sicurezza che invece originano le occasioni in cui questa indifferenza e competizione viene superata. La testimonianza di Weil conferma il giudizio di Marx circa l’assenza di reale socialità nella produzione capitalistica che avvicina, senza far stare insieme, gli operai. Scrive Weil: «La fabbrica potrebbe colmare l’animo con il potente senso della vita collettiva – si potrebbe dire: unanime – che è data dalla partecipazione al lavoro di un grande organismo. Tutti i rumori vi hanno un significato, tutti sono ritmati, e si fondono in una specie di grande respiro del lavoro in comune cui inebria partecipare [ …] Se fosse questo la vita di fabbrica, sarebbe troppo bello. Ma non è questo. Quelle gioie sono gioie di uomini liberi; coloro che popolano le officine non le avvertono se non in brevi e rari istanti, perché non sono uomini liberi […] non succede solo, nei mercati, negli scambi, che contino solamente i prodotti del lavoro, e non il lavoro che li ha generati. Nelle fabbriche moderne accade la stessa cosa, almeno al livello dell’operaio. La cooperazione, la comprensione, la reciproca valutazione nel lavoro vi sono monopolizzate dalle sfere superiori. Al livello dell’operaio i rapporti stabiliti fra i diversi posti, le diverse funzioni, sono rapporti fra cose e non fra uomini» .
Ciò che differenzia la posizione di Weil da quella di Marx e del marxismo è che per l’autrice la soluzione va cercata riconoscendo tutta l’importanza della questione del «regime» del lavoro di fabbrica, cosa che il movimento operaio non ha fatto , e quindi, che occorra assumere da subito l’obiettivo di un mutamento di tale condizione, senza rimettersi all’azione trasformatrice che dovrebbe intervenire dopo il mutamento del potere politico. Il quale, se dovesse risultare vincente, come nel caso dell’URSS, senza aver accumulato esperienze di una nuova qualità del lavoro, sarebbe costretto a governare la produzione come prima. Un appello, questo di Weil, che ritiene possa essere accolto dagli operai, la cui condizione di subordinazione e passività non può arrivare, direbbe Vittorio Foa, a «privarla della libertà di volere» . Una libertà da impiegare subito per mutare le condizioni di lavoro presenti, e creare condizioni di più avanzate di socialità generale: perché solo il «proletariato è pronto, se necessario, a consacrarsi interamente, all’edificazione di una società ragionevole con la risolutezza e la coscienza che mette nel suo lavoro» .
In questo quadro Weil mette in atto una riflessione «riformista» che cerca di «conciliare le esigenze della fabbricazione e le aspirazioni degli operai», pensando che la «soluzione ideale sarebbe un’organizzazione del lavoro tale che ogni sera uscissero dalle fabbriche il maggior numero possibile di prodotti ben fatti e di lavoratori felici». Su questa linea inizialmente ricerca la collaborazione con le direzioni di fabbrica , ma, nel 1936, all’indomani della vittoria in Francia del fronte popolare e dello sciopero generale spontaneo che ne segue - «Indipendentemente dalle rivendicazioni, questo sciopero è in sé una gioia. Una gioia pura; una gioia integra», perché è la rottura della subordinazione – Weil ritiene che i lavoratori debbano affidarsi alla propria volontà: «Cominceremo finalmente ad assistere a un miglioramento effettivo e durevole delle condizioni del lavoro industriale? L’avvenire lo dirà; ma, questo avvenire, non bisogna aspettarlo: bisogna farlo» . Nelle stesse pagine parla anche di «controllo operaio».
Su questa linea è da collocare la sua proposta di partecipazione al fine di mettere il lavoratore nelle condizioni di conoscere l’intero processo di produzione cui partecipa, anche nella modalità in cui esso si distribuisce nei diversi reparti della fabbrica che l’operaio dovrebbe essere messo in grado di conoscere, magari di sabato, attraverso una visita della fabbrica. Questo al fine della costruzione di una socialità nella collaborazione del lavoro: «Gli operai non devono più ignorare quello che fabbricano, lavorare un pezzo senza sapere dove andrà; occorre dar loro il senso di collaborare ad un’opera dare la nozione del coordinamento dei lavori. Il mezzo migliore sarebbe forse quello di organizzare al sabato visite dell’azienda […] Sarebbe egualmente bene informare gli operai di tutte le innovazioni, mutamenti e metodi, nuove fabbricazioni, perfezionamenti tecnici. Bisogna dar loro il senso che l’azienda vive e che essi partecipano di quella vita […] Le cose sarebbero diverse se l’operaio sapesse chiaramente, ogni giorno, ogni istante, quale luogo occupi, nella produzione della fabbrica, quel che sta facendo e quale posto occupi nella vita sociale la fabbrica nella quale lavora» . Laddove lo scopo della partecipazione è il superamento dell’organizzazione del lavoro fordista, la costruzione di una socialità con cui svuotare dall’interno la socialità astratta del Gesamtarbeiter e quindi il potere arbitrario dei capi e della direzione sul lavoro.

3 La conoscenza come superamento del Gesamtarbeiter in Harry Braverman

Nella parte finale di Lavoro e capitale monopolistico (1974), opera dedicata all’analisi del processo lavorativo del capitale monopolistico, Harry Braverman affronta il problema del passaggio dal Gesamtabeiter all’ «autentico modo di produzione collettivo» (truly collective mode of production) . Nel Novecento il primo rappresenta, come già ricordato, l’organizzazione del lavoro messa in atto dal taylorismo-fordismo, che Braverman, ex operaio metalmeccanico, ha conosciuto personalmente. Gesamtarbeiter e truly collective mode of production designano quindi due realtà profondamente diverse: il lavoro sociale astratto e il lavoro sociale «autentico». Nell’analisi di Braverman il passaggio dall’uno all’altro è pensato come un processo della conoscenza che, sempre più intrecciata al lavoro, può permettere il superamento dell’«operaio complessivo» a partire dagli stessi luoghi di lavoro, senza una preventiva instaurazione di diversi rapporti sociali di produzione. Tale idea, che Braverman formula in polemica con la tesi del «controllo operaio» e della «partecipazione dei lavoratori» fondata sulla rappresentanza (oltreché con una certa concezione della formazione), si fonda sul carattere emancipativo che, in certe circostanze, può avere la conoscenza.
Scrive Braverman che «gli antagonismi nel processo lavorativo fra chi controlla e chi lavora, fra ideazione ed esecuzione, fra lavoro intellettuale e lavoro manuale» - il Gesamtarbeiter che il fordismo ha realizzato perfettamente - possono essere superati solo col «recupero della necessaria conoscenza tecnica da parte della massa dei lavoratori, e la ristrutturazione dell’organizzazione del lavoro» permessa da tale «recupero». In questo modo – prosegue Braverman - gli operai «diventano padroni (masters) dell’industria nel senso più preciso del termine», cioè «quando il processo lavorativo sia unito (united) nel corpo collettivo (collective body) che lo compie». Ovvero quando il Gesamtarbeiter sarà superato, perché tra erogazione della forza lavoro e direzione del processo lavorativo «dispotico», grazie al recupero della conoscenza, non ci sarà più separazione e quindi si realizzerà effettivamente un lavoro collettivo. Il quale riprodurrà, almeno al livello di conoscenza, l’unità di scopo e attività del contadino e dell’artigiano, ma in veste collettiva. L’espressione «collective body» è il nuovo lavoro sociale oltre il lavoro astrattamente sociale del Gesamtarbeiter, che determina anche il superamento del fordismo, cioè l’attuazione di «un nuovo e autentico modo di produzione collettivo» . «Nuovo e autentico», cioè non astratto. Infatti la conoscenza è rientrata nel corpo del lavoratore rendendo la sua attività concreta. E la direzione d’impresa è privata del potere gerarchico per la perdita del possesso esclusivo della conoscenza del processo produttivo. L’unità di attività e conoscenza ricompone la socialità della forza lavoro astratta e la collettività del processo nel «corpo collettivo» degli operai che lavorano insieme in modo «autentico», determinando un «corpo collettivo» nel lavoro e non solo una collettiva erogazione di tempo di lavoro astratto. Insomma un nuovo lavoro sociale. Questa è l’idea e l’auspicio di Braverman che si allinea perfettamente con l’utopia di Marx.
La trasformazione del Gesamtarbeiter in un «autentico modo di produzione collettivo» permette di andare oltre la partecipazione come cogestione costruita attraverso «votazioni» e una «struttura formale parlamentare», che elegge rappresentanti che «non modificano la condizione di dipendenza dei lavoratori dagli ‘esperti’». La socializzazione del modo di produzione sulla base dell’acquisizione della «necessaria conoscenza» permette, in altre parole, una partecipazione costante e diretta da parte di ciascun lavoratore ai processi produttivi, che essendo collettivi perché hanno eliminato la separazione tra «ideazione e esecuzione», non hanno bisogno di rappresentanti che medino tra questi due lati della produzione, ma semmai di forme che facilitino l’ascolto e l’apporto di idee da parte di ciascun operaio alla realizzazione del processo di cui fa parte. Una sorta di partecipazione totale di ciascun lavoratore al modo di produzione collettivo invece di una partecipazione attraverso «votazioni» e rappresentanti.
Occorre infine notare che se il ragionamento di Marx si fondava sul rovesciamento dell’astratta socialità dell’ «operaio complessivo» in «classe operaia» per arrivare alla conquista del potere politico che poi avrebbe dovuto socializzare il lavoro; se la condizione operaia di Weil rinveniva nella cooperazione tra operai, costruita attraverso una partecipazione capace di rompere il meccanismo dell’isolamento determinato dal comando arbitrario, cioè il primo passo del cambiamento già negli attuali rapporti sociali di produzione; in Braverman la conoscenza unifica, già nell’impresa capitalista, la separazione tra lavoro manuale e intellettuale, trasformando l’ «operaio complessivo» fordista in effettiva socialità partecipata del lavoro. Ovvero, in tutte e tre le posizioni il punto cruciale in cui riscattare la subalternità del lavoro è la realizzazione, nella produzione, di una socialità effettiva contro la socialità astratta, anche se in Marx questo accade attraverso una “classe” sociale e la sua azione politica senza presupposti positivi nel lavoro, mentre in Weil e Bravermann attraverso una socialità come cambiamento della qualità del lavoro capitalistico.

4. La crisi del fordismo e la riproposizione della persona nel lavoro: Bruno Trentin.

Come abbiamo ripetutamente detto il modello del lavoro sociale astratto rappresentato dal Gesamtarbeiter trova il punto più alto nel taylorismo e la sua compiuta applicazione nella catena di montaggio della Ford a partire dagli anni venti del Novecento. Insieme a questo tipo di socialità astratta nel lavoro, tra otto e novecento si è sviluppata anche la socialità ideologico-politica dei partiti e sindacati che si sono rifatti all’idea marxiana del Gesamtarbeiter come «classe», costruendo uno spazio di identità operaia esterno al lavoro, che è stato a lungo in grado di compensare la negazione della persona nel lavoro. La rivoluzione leninista del 1917 ha rappresentato per questo mondo del lavoro la promessa di uno Stato che avrebbe creato una reale socialità del lavoro. Ma questo processo non prevede una nuova organizzazione del lavoro: Lenin condivide il taylorismo, il Gesamtarbeiter, che riduceva «di quattro volte il tempo di lavoro» necessario, e sappiamo che neppure l’estrema ideologizzazione della socialità astratta operata dallo stakanovismo ha creato le condizioni di una socialità reale del lavoro . Una socialità, come abbiamo detto, impossibile nel lavoro finché gli operai non siano, nel processo produttivo, insieme e non solo accanto, come persone capaci di solidarietà in quanto soggetti autonomi.
A partire dagli anni settanta del Novecento questa organizzazione del lavoro centrata sulla negazione dell’autonomia dell’operaio, cui è richiesto di essere ubbidiente, di non pensare e di eseguire la performance del proprio lavoro predefinita dalla direzione aziendale, è finalmente entrata in crisi. Impossibile qui, anche semplicemente, accennare all’insieme dei fattori economici e culturali, dall’economia della conoscenza al neoliberismo, dalla globalizzazione dei mercati alla rivoluzione informatica e digitale, che hanno accompagnato questa crisi. A cui ancora non è stata data una risposta alternativa capace di colmarne il vuoto organizzativo. Obiettivo cui oggi si cerca di dare una risposta anche con l’innovazione centrata sulla AI.
Qui interessa solo segnare un punto alto di consapevolezza del significato della fine del fordismo (e della problematica degli altri processi ad esso legati) rinvenibile nelle parole di Bruno Trentin. Siamo nella Camera del Lavoro di Fermo, nel 2006 – quasi 150 anni dopo la formulazione marxiana del Gesamtarbeiter - alla presentazione del libro di Angelo Ferracuti, Le risorse umane, quando Trentin, che lo discute, dice: «Nel libro c’è l’entrata in campo non della classe o della massa ma della persona, quella che lavora sotto altri […] un fenomeno che emerge oggi con più chiarezza […] il rapporto di oppressione, il rapporto di subordinazione in cui un altro decide per conto tuo e decide a partire dal lavoro […] fenomeni che saltano agli occhi con la fine stentata del fordismo […] Emerge nel libro […] la persona come soggetto attivo nel lavoro […] entrano in campo nel rapporto di lavoro […] valori nuovi […] In primo luogo quello della libertà […] come opportunità di scelta, come precondizione se c’è per una realizzazione della persona […] La condizione di una maggiore libertà diventa la conoscenza […] Quindi la libertà attraverso la conoscenza, la formazione continua, non è certamente la soluzione ma è comunque un mezzo insostituibile per consentire alla persona di realizzarsi nel lavoro […] si tratta di assumere come dato centrale i problemi della persona e di costruire su questi problemi una nuova solidarietà […] la nuova solidarietà non si costruisce più sul salario uguale o sull’orario uguale perché le persone sono diverse, perché le persone sono delle entità assolutamente inconfondibili con le altre, ecco perché soltanto sui diritti individuali noi possiamo immaginare di costruire una nuova solidarietà» . Parole in cui la rottura col Gesamtabeiter non potrebbe essere più radicale, più consapevole e insieme più vicina all’intuizione di Marx della necessità di essere persone nel lavoro per superare la contraddizione di essere vicini senza stare insieme.
Ma nel ragionamento di Trentin compare un elemento che non è presente né in Marx né in Braverman, mentre è presente in Weil : la libertà, la libertà nel lavoro subordinato. E non vi compare perché l’aspirazione alla libertà e all’autonomia nel lavoro, sempre presente nei lavoratori dipendenti, è stata pensata come qualcosa che nel capitalismo poteva esplicitarsi solo fuori dal lavoro, nella critica del sindacato o del partito, oppure nel tempo libero. Nel lavoro gli spazi erano oggettivamente minimi e negati teoricamente, finche la libertà, insieme alla conoscenza che la promuove, non è divenuta un fattore di produttività, e quindi una sfida per il lavoro e per l’impresa che in gran parte si gioca sul terreno della formazione.

5 Il capitalismo delle piattaforme

L’impresa piattaforma, la firm-platform, tende ad essere il modello dell’impresa innovativa, sia nell’industria, sia nei servizi, lati della produzione sempre più intrecciati. La domanda che occorre porsi è se questo tipo di impresa preveda una maggiore o minore socialità del lavoro. Ovvero se il platform capitalism ha ancora bisogno del Gesamtarbeiter. La domanda non è retorica, perché l’impresa ha una natura asimmetrica, sia sul piano della responsabilità economica, sia su quello organizzativo. Il fatto, ormai largamente riconosciuto, è che l’organizzazione gerarchica del passato non è più funzionale, non crea più le condizioni maggiormente favorevoli alla produttività. In altre parole il paradigma del Gesemtarbeiter è superato, ma questo non significa che lo sia altrettanto il suo “spirito”.
L’ «operaio complessivo» è superato oggettivamente e soggettivamente. Nella smart factory le attività lavorative sono suddivise in due principali categorie: quelle che sono pianificate, controllate e valutate attraverso la macchina e quelle che impiegano attivamente e creativamente le macchine. Le prime sono quelle meno qualificate, a stipendi più bassi e che svolgono in misura variabile un lavoro manuale, spesso di servizio al lavoro più qualificato. Le seconde sono lavori cognitivi di più o meno elevata professionalità che non svolgono il lavoro astratto di Marx, che era la base del Gesamtarbeiter, ma un lavoro in diverse misure creativo che presuppone autonomia e responsabilità. Un lavoro quindi che non ammette la subordinazione di cui parla Weil, che infatti viene in genere evitata o digitalizzata in certi casi. Se la produttività dipende dalla creatività del lavoro, forme adeguate di libertà nel lavoro sono necessarie. Quindi la gerarchia è oggettivamente controproducente a causa della crescente qualità cognitiva del lavoro. Ma lo è anche soggettivamente, nel senso che il lavoratore, come riconosce Trentin, ha raggiunto una identità attiva di sé stesso, nel lavoro e nella società, e quindi non è disposto a negarla in nome di una gerarchia organizzativa.
Ovviamente riconoscere la crisi della gerarchia e del comando arbitrario, oltreché non voler dire che i risultati siano lasciati sempre e solo alla responsabilità del lavoratore, non significa ammettere l’esistenza di una effettiva socialità nel lavoro dell’impresa digitalizzata . Tuttavia in queste imprese il lavoro è in genere organizzato per «comunità di pratiche» e per team i quali non funzionano senza una socialità, attività e obiettivi condivisi, relazioni costanti e informate . Tutti essenziali elementi di socialità che vengono meno nelle attività individuali e ripetitive, in genere a base manuale, anch’esse presenti nelle imprese e gestite attraverso le piattaforme. In particolare si può sottolineare che nel Gesamtarbeiter fordista l’attività lavorativa, come nota anche Weil, è svolta in silenzio, mentre la comunicazione (tra uomini, uomini e macchine e tra macchine) è il cuore dell’attività nell’impresa digitalizzata , e questo determina livelli alti di socialità, anche se di per sé non necessariamente forniti dell’autonomia indispensabile al lavoro creativo. Inoltre questa crescita della socialità coincide con una polarizzazione crescente delle attività, anche dentro l’ impresa. Paradossalmente la socialità può essere un fattore di differenziazione, se non di divisione. Se l’«individualizzazione» del lavoro (U. Beck) rende inutilizzabile il concetto di classe, rende insufficiente anche quello di individuo, e richiede di caricare al massimo di cultura della solidarietà e della relazionalità l’idea di persona.

5. Conclusioni

Abbiamo visto che il capitalismo si afferma, contro il contadino autonomo e l’artigiano, realizzando il paradigma di un processo lavorativo collettivo astratto in cui i lavoratori sono accanto senza essere insieme. Marx ritiene che il capitalismo sia inconciliabile col superamento di questo paradigma, mentre Weil, Braverman, in linea di principio ed a certe condizioni, non negano la possibilità di abbinare capitalismo e truly collective mode of production, anche se non si esprimono sulla forma di questo capitalismo. Anche Trentin ritiene che a partire dalla libertà nel lavoro, quindi dal superamento del Gesamtarbeiter fordista, si possa spezzare l’originaria incompatibilità tra capitale e socialità concreta nel lavoro.
Il fatto cruciale, rilevato dalla crisi del fordismo, è che oggi il capitale stesso ha necessità di non rimanere chiuso nel Gesamtarbeiter, cioè nella forma del lavoro astratto. In un primo momento ha proposto, dopo il contadino autonomo e l’artigiano, una nuova figura di lavoratore individuale, il possessore di capitale umano. Analogamente all’attività dei primi due, anche il lavoro di questi, che può essere dipendente, è concreto, anche se non necessariamente sociale. In questo modo il capitalismo introduce e rafforza il lavoro concreto nel processo produttivo, di cui ha sempre più bisogno, ma in una modalità che potrebbe realizzare il passaggio dal Gesamtarbeiter al truly collective mode of production solo nel caso di una diversa e favorevole organizzazione del lavoro. In altre parole, il capitale umano può contribuire ad approfondire la crisi dell’«operaio complessivo» senza favorire il passaggio al lavoro direttamente sociale e totalmente partecipato. Per cui negli ultimi decenni del XX secolo il lavoro si ritrova senza socialità astratta e senza socialità autentica, oltreché senza socialità ideologica (la “classe”).
Che ciò abbia avuto importanti e negative conseguenze sul vivere sociale è evidente. Infatti non è solo il lavoro a trovarsi in questa condizione di carenza di socialità, lo è anche la società stessa. Privata delle basi industriali (materiali) della propria socialità (ancorché astratta e ideologica) la nostra società, surdeterminata anche dal disordine mondiale, presenta forme di disgregazione e frantumazione che incidono sulla sicurezza psicologica e materiale delle persone aprendo, politicamente, alla crisi della democrazia. E la socialità concreta delle pratiche di cura, del volontariato e del “terzo settore”, insieme culture della solidarietà umana, come il cristianesimo e una certa cultura sindacale, non possono supplire all’assenza di una socialità nel lavoro.
In questo quadro sta accadendo la più importante rivoluzione tecnologia dopo quella settecentesca. La quale richiederebbe al capitalismo una nuova capacità organizzativa in grado di inquadrare l’innovazione in un disegno del lavoro centrato sulla persona, sul lavoro concreto, la formazione continua e il superamento del management gerarchico, mettendo fine il più ampiamente possibile alle attività esecutive e ripetitive. In Italia, Federico Butera ha ripetutamente richiamato l’attenzione su questi problemi che non possono essere affrontati a partire dalla tecnologia, ma da un’idea complessiva dell’organizzazione del processo produttivo, in cui inserire anche le nuove tecnologie . Se non si opera la scelta teorica e pratica di pensare a come si possa sostituire il marxiano «operaio complessivo», permanendo nella persuasione che si debba in ogni modo evitare il truly collective mode of production e la partecipazione totale, non rimarrà che mantere il Gesamtarbeiter, magari rinnovandolo con l’AI, realizzando forme di socialità virtuale e a rete in grado di concedere, sotto un controllo in tempo reale, il massimo di autonomia possibile nell’attività, ma solo in vista di scopi unilaterlmente prefissati. Il capitale è assai lontano dal mito di una automazione generalizzata che sostituirebbe il lavoro – che invece probabilmente aumenterà, ancorché con soglie più elevate di professionalizzazione -, e senza una cultura del superamento del Gesamtarbeiter non rimarrà che la carta di un processo produttivo in cui la socialità sia solo virtuale e la società ricomposta attraverso il legame dei consumi mantenuti da una redistribuzione individualistica del sovrappiù ottenuto grazie all’innovazione (bonus, redditi sociali, Welfare aziendale, ecc.).
Non è possibile prevedere a cosa approderanno i processi in corso, anche se nel paragrafo precedente abbiamo sottolineato i significativi sviluppi della socialità nell’organizzazione della produzione. Un eventuale tentativo di evitare la socializzazione del modo di produzione è probabile che approfondirà anche la contraddizione tra l’insufficiente socializzazione del processo di produzione e l’esigenza oggettiva di una socializzazione degli scopi della produzione, di cui la sostenibilità ecologica e la green economy sono l’ iceberg di un bisogno oggettivo e trasversale di socialità che richiede di essere rappresentato nella produzione e nei consumi, e la cui rimozione può aprire la strada ad un aggravamento dei caratteri di «non società» delle comunità in cui viviamo.
Il fatto nuovo è che sviluppo della persona e incremento della produttività, socializzazione dell’organizzazione e sviluppo dei bisogni sociali avversi al paradigma della crescita illimitata, sono elementi che si tengono l’un l’altro, e volerli trattare separatamente comporta delle cadute verticali di efficienza in un sistema in cui produzione e consumo non sono più separabili. Una socialità autentica realizzata nei processi produttivi appare, quindi, come il punto cruciale, evidentemente non esclusivo, da cui partire per una convivenza più umana. E su questo piano, come abbiamo visto, convergono le esigenze di un certo marxismo e quelle di un certo cristianesimo che ha visto, anche utopisticamente, nell’organizzazione del lavoro moderno l’occasione storica del «principio di una comunità» .
Quanto alla battaglia, weiliana e trentiniana, per un lavoro “scelto”, cioè di qualità, la socializzazione autentica del processo lavorativo, che presuppone la libertà della persona che lavora, non potrà che rendere più concreta la possibilità (diritto) di tale scelta e maggiormente realizzabile il bisogno soggettivo (autorealizzazione) di lavoro. Viceversa il mantenimento, ancorché in vesti digitali, dello spirito del Gesamtarbeiter, acuirà la contraddizione tra bisogno oggettivo (guadagno) e bisogno soggettivo di lavoro, fino a rendere penoso l’espletamento di un lavoro svolto solo per il salario (“grandi dimissioni”, yolo, smart working, settimana lavorativa di 4 giorni, ecc.).

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