TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

Il focus che qui si presenta raccoglie parte delle relazioni (rivedute dagli autori) presentate al convegno “Il salario minimo in Italia: vincoli europei e prospettive di riforma” tenutosi a Siena il 6 maggio 2024 nell’ambito delle attività di ricerca del PRIN 2020 Salario, Legge e Contrattazione collettiva in Italia e in Europa – Prot. 2020NR4WXW e del progetto Tutela della trasparenza ed effettività del diritto a una retribuzione equa, finanziato dall’Università di Siena a valere sul PSR 2023.
Il Convegno si è articolato in due tavole rotonde (la prima coordinata dal sottoscritto e la seconda da Antonio Loffredo) nelle quali si è inteso sollecitare un confronto a più voci sulle questioni poste dal recepimento della direttiva n. 2022/2041 sui salari minimi adeguati nell’UE. Alla riflessione dottrinale (proposta dagli interventi di Antonio Lo Faro, Marco Barbieri, Giancarlo Ricci, Giovanni Calvellini, Marco Tufo e Maura Ranieri) si è quindi affiancato il punto di vista di altri attori che, a vario titolo, sono coinvolti direttamente o indirettamente nel processo di recepimento: attori sindacali (Manola Cavallini, che lo segue nell’ambito della CES e Bernardo Marasco che, come segretario fiorentino della CGIL, segue l’attuazione della delibera comunale sul salario minimo negli appalti pubblici), giurisdizionali (Roberta Santoni Rugiu, giudice del lavoro della Corte d’appello di Firenze) e politici (Nunzia Catalfo, cui si deve, da Ministra del lavoro del Governo Conte II, la presentazione del disegno di legge sul salario minimo poi diventato modello per le proposte successive).
Questo genere di confronto ci è parso tanto più urgente e necessario perché, pur avvicinandosi la scadenza prevista per il recepimento della direttiva (15 novembre 2024), le opinioni in merito a cosa l’Italia sia tenuta a fare per garantire “salari minimi adeguati” ai lavoratori (fine della direttiva, iscritto nel suo titolo) restano estremamente diversificate e divergenti; e ciò non solo sul piano del dibattito accademico e del confronto politico, ma all’interno dello stesso fronte sindacale.
La posizione del Governo è nota ed è sostanzialmente condivisa dalle associazioni datoriali (nonché, appunto, da alcune sindacali). È una posizione nei fatti avallata dal CNEL nel suo rapporto dello scorso ottobre (Elementi di riflessione sul salario minimo in Italia), già formalizzata nella legge di delegazione europea del febbraio scorso (L. n. 15/24), nonché esplicitata nel dibattito pubblico e parlamentare prodotto dalla presentazione del d.d.l. in materia di salario minimo dell’opposizione: sull’Italia non gravano obblighi di recepimento della direttiva, in primo luogo perché questa non impone l’introduzione del salario minimo legale agli Stati membri che ne sono privi, in secondo luogo perché il nostro paese gode di tassi di copertura contrattuale già ampiamente superiori alla soglia prevista dall’art. 4, par. 2, della direttiva per adottare il piano di sostegno alla contrattazione (il fatidico 80%). E, sotto questo secondo profilo, la linea governativa è ad oggi di fatto legittimata anche a Bruxelles, visto che la stessa Commissione, nei suoi documenti ufficiali, accredita il nostro paese di un tasso di copertura contrattuale pari al 100%: in assoluto il più alto tra tutti gli Stati Membri.
Una simile rassicurante lettura del nostro di sistema di determinazione dei salari, tuttavia, non convince. Proprio la sua apparente coerenza con i parametri della direttiva deve infatti indurre ad interrogarsi sui suoi profili problematici e sulle sue anomalie. Il caso italiano, infatti, collocato nel quadro europeo, rappresenta un unicum che evidenzia una sorta di paradosso: il paese che (prima facie) appare come il più virtuoso d’Europa, è in realtà un paese in cui la questione salariale si pone in termini drammatici, come testimonia il fatto che i suoi tassi di crescita salariale negli ultimi 30 anni sono i più bassi tra gli Stati membri. Se si vuole impostare correttamente il tema del recepimento della direttiva nel nostro paese, è necessario dunque confrontarsi sulle ragioni dell’“anomalia italiana”, affrontando i nodi e le questioni problematiche che ne sono causa.
Si tratta allora di far luce sulle molteplici ambiguità e opacità che caratterizzano il nostro sistema di determinazione dei salari e che lo rendono difficilmente intelligibile. Opacità che, dopo l’adozione della direttiva n. 2022/2041/UE, sono perfino aumentate. Queste, infatti, derivano in primo luogo dalla mancanza di regole certe in materia di contrattazione (e prima ancora di rappresentanza sindacale); una situazione di anomia che ha reso possibile la patologica moltiplicazione dei CCNL (i più di 1000 censiti dal CNEL), a sua volta causa della crisi del consolidato meccanismo pretorio di definizione dei minimi salariali fondato sull’art. 36, c. 1, Cost.; il che è di per sé sufficiente per sollevare dubbi sulla nostra presunta virtuosità nel quadro europeo, dal momento che proprio questo meccanismo spiega la sorprendente percentuale del 100% di copertura di cui la Commissione ci accredita e che permette di considerarci più che in regola con gli obblighi previsti dalla direttiva.
Ma l’opacità del nostro sistema di determinazione dei salari riguarda, ancor prima, i dati che lo descrivono e da cui si ricavano i tassi di copertura, per così dire, “reali” e l’importo delle retribuzioni effettivamente corrisposte nei diversi settori. Ciò perché i dati ufficiali, come noto ricavati dall’archivio CNEL, potrebbero non descrivere la realtà dei fatti, essendo fondati sui flussi Uniemens, ovvero sulle denunce obbligatorie trasmesse all’INPS ai fini (esclusivamente) previdenziali.
In un quadro già così caotico incidono poi, oggi, le novità intervenute sia in ambito giurisprudenziale sia sul piano legislativo. Novità che (comunque si valutino nel merito) certo non hanno apportato elementi di chiarezza sistematica, ma che anzi introducono ulteriori profili di ambivalenza e di incertezza. Con il noto sestetto di sentenze dello scorso ottobre, infatti, la Cassazione ha messo in discussione il meccanismo di rinvio per legge al CCNL “leader” come parametro di adeguatezza salariale. Da parte sua, il legislatore, nel nuovo codice dei contratti pubblici, ha invece inteso rafforzare quello stesso meccanismo, attraverso l’indicazione negli atti di gara del CCNL da applicare per determinare le condizioni economiche e normative dei lavoratori impiegati nell’appalto (ex art. 11, d.lgs. n. 36/2023). D’altra parte, nella stessa direzione si è mosso più recentemente il legislatore nel regolare gli appalti privati nel c.d decreto “PNRR” (d.l. n. 19/2024, conv. legge n. 56/2024), con una riscrittura dell’art. 29, d.lgs. n. 276/2003 che configura ulteriori e inediti squilibri nel sistema di contrattazione, in virtù della previsione di un obbligo per le imprese appaltatrici e subappaltatrici che non c’è per tutte le altre imprese operanti nel settore (committente inclusa).
Infine, l’ambiguissimo riferimento ai “contratti maggiormente applicati”, se nel nuovo art. 29 è scomparso in sede di conversione del d.l. n. 19/2024, rimane però nel disegno di legge delega del Governo sui salari e contrattazione che, se mai venisse definitivamente approvato, confonderebbe ulteriormente il quadro.
In un contesto simile, sostenere che la scadenza del 15 novembre non riguardi l’Italia è per lo meno opinabile. Si può avere opinioni diverse sulla percentuale di copertura contrattuale nel nostro paese, sia complessiva che nei diversi settori, ma è un fatto che anche per l’Italia valgono gli obblighi previsti dall’art. 4, par. 1, della direttiva, funzionali a rendere la contrattazione collettiva “solida e ben funzionante” (come precisa il considerando 22). E non c’è dubbio che in molti settori del nostro sistema produttivo la contrattazione collettiva non possa definirsi tale.
Così come valgono certamente anche per l’Italia gli obblighi di trasparenza previsti dall’art. 10 della direttiva nei confronti della Commissione, che sulla base delle informazioni fornite dagli Stati membri è chiamata a monitorarne il corretto recepimento. E non c’è dubbio che il nostro sistema di determinazione dei salari sia tutt’altro che trasparente.
Con i molteplici problemi ancora aperti, connessi direttamente o indirettamente con il recepimento della direttiva, si confrontano dunque gli autori dei contributi che qui si presentano, nel comune sforzo di apportare elementi di chiarificazione al dibattito in corso.

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