testo integrale con note e bibliografia

1. Introduzione
Il tema di cui mi occuperò riguarda i rapporti tra trasparenza e retribuzione. Ecco, se si guarda al sistema delle fonti multilivello mi pare che questo binomio si snodi su tre piani:
1. il piano istituzionale, “macro”, che si compone degli obblighi di trasparenza di ciascuno Stato membro dell’Unione europea relativamente al sistema salariale nazionale;
2. il piano individuale, “micro”, popolato dall’insieme degli obblighi del datore di lavoro di informare il lavoratore delle condizioni che si applicano al rapporto di lavoro ;
3. il piano collettivo, sul quale si collocano i diritti di informazione sindacale.
Nel mio intervento voglio cercare di scattare una fotografia dello stato delle cose su questi tre piani sperando di sollecitare qualche riflessione sulla direzione che l’evoluzione di quel binomio sarebbe opportuno che prendesse nel prossimo futuro.

2. La trasparenza sul piano istituzionale
La direttiva sui salari minimi adeguati prevede all’art. 10 obblighi per gli Stati di comunicare alla Commissione una nutrita serie di informazioni. Per quanto ci riguarda queste informazioni concernono i livelli delle retribuzioni riconosciute dai contratti collettivi e quelli dei salari versati ai lavoratori non coperti da un contratto collettivo, nonché il tasso di copertura della contrattazione collettiva.
La direttiva n. 2022/2041/UE è quindi anzitutto «una direttiva sulla “trasparenza” dei sistemi di determinazione dei salari dei diversi Stati membri» . E non si può fare a meno di notare come, nell’impianto di questa fonte, assuma particolare importanza il dato sulla copertura. Esso risulta centrale sia – in generale – in relazione all’obiettivo di promuovere la contrattazione collettiva sulla determinazione dei salari (art. 1, par. 1, e art. 4, par. 1), sia – più nello specifico – per la verifica del rispetto della soglia dell’80% al di sotto della quale scattano gli ulteriori obblighi di promozione ai sensi dell’art. 4, par. 2.
Ebbene, sul tasso di copertura nel nostro Paese si è detto e si continua a dire di tutto e di più, senza che, al momento, si possa contare su di un punto di riferimento ufficiale e veramente attendibile. Le stime che circolano si basano fondamentalmente su due elementi: 1) la giurisprudenza sull’art. 36 Cost., che accrediterebbe una copertura del 100% , e 2) le comunicazioni Uniemens.
Non prendo neanche in considerazione la prima opzione, che trascura – tra l’altro – il fatto che quella giurisprudenza non comporta un’estensione dell’efficacia soggettiva dei contratti collettivi, ma si limita a individuare un parametro, da cui peraltro il giudice si può serenamente discostare (come ha ribadito per l’ennesima volta la Cassazione a ottobre 2023 ).
Anche dai dati Uniemens, però, sembra emergere un quadro estremamente rassicurante. Da essi, infatti, risulta per il 2023 un tasso di copertura nel settore privato pari a poco meno del 99% e una copertura dei 202 ccnl riconducibili a Cgil, Cisl e Uil superiore al 96% dei lavoratori per i quali nella comunicazione mensile Uniemens è stato indicato un contratto collettivo. Questo significherebbe, in sostanza, che non solo la copertura in Italia raggiunge livelli assolutamente ottimali, ma il problema della pirateria contrattuale di fatto non esiste.
Ecco perché nell’ultimo Rapporto del Cnel su mercato del lavoro e contrattazione collettiva è attestato «un buono stato di salute del nostro sistema di relazioni industriali con una applicazione generalizzata dei contratti collettivi e con dinamiche contrattuali ancora oggi largamente governate dai sindacati confederali»; ed ecco perché le risultanze dei flussi Uniemens sono valorizzate, espressamente, nel ddl approvato a dicembre dalla Camera (e che da allora giace in Commissione affari sociali, sanità, lavoro pubblico e privato, previdenza sociale del Senato) e, implicitamente, nell’art. 29, d.l. n. 19/2024 (prima della retromarcia fatta con la legge di conversione ) per individuare i “ccnl maggiormente applicati” da utilizzare come parametro per la quantificazione, nel primo caso, del minimo costituzionale e, nel secondo, del trattamento economico minimo da riconoscere ai lavoratori in appalto.
In realtà, però, diversi elementi inducono alla cautela nell’impiego di quei dati ai fini dell’attuazione degli obblighi di trasparenza della direttiva . Ne richiamo brevemente alcuni secondari per poi concentrarmi su quello decisivo:
- dai flussi Uniemens restano esclusi il settore agricolo e quello del lavoro domestico e di cura, non proprio due ambiti irrilevanti quando si parla di salari minimi e, quindi, di lavoro povero;
- quei dati nulla dicono sul lavoro autonomo economicamente dipendente, che invece dovrebbe essere preso in considerazione ai sensi della direttiva;
- le risultanze del flusso informativo diretto all’Inps consentono un calcolo della copertura solo a livello aggregato, intersettoriale, laddove invece la dottrina maggioritaria concorda sulla necessità di elaborare il tasso per i diversi settori al fine di evitare che venga trascurato un basso tasso di copertura in un settore perché compensato da tassi più elevati in altri; circostanza, questa, non coerente con le finalità della direttiva.
Venendo al problema di fondo, non si può non evidenziare che nelle comunicazioni mensili Uniemens deve essere indicato il contratto collettivo che si applica per la determinazione dell’imponibile a fini contributivi, la quale, tuttavia, non può avvenire sulla base di un qualsiasi prodotto negoziale, individuato liberamente dal datore di lavoro. A quest’ultimo, infatti, la legge previdenziale impone di attenersi alle retribuzioni stabilite dal contratto collettivo della categoria di appartenenza stipulato dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative su base nazionale . Non è scritto da nessuna parte, però, che quel ccnl “leader” indicato nelle denunce Uniemens debba poi essere lo stesso che viene applicato al rapporto per regolare le condizioni di lavoro. Ad esempio, un’impresa industriale del settore metalmeccanico per il calcolo dei contributi previdenziali è obbligata a utilizzare e indicare nelle comunicazioni all’Inps il ccnl firmato da Federmeccanica e Fiom, Fim e Uilm (quello sottoscritto dalle organizzazioni più rappresentative); nella scelta del ccnl da applicare ai rapporti di lavoro – e quindi anche per il calcolo del trattamento retributivo da corrispondere al personale – quella medesima impresa non sarà però in alcun modo vincolata dall’indicazione fatta a fini previdenziali e potrà pertanto individuare anche uno dei contratti sottoscritti da soggetti di scarsa o nessuna rappresentatività presenti in abbondanza per quel settore. Con la conseguenza che il relativo dato Uniemens non fotograferà la reale fonte di determinazione del salario dei lavoratori .
Nell’ultimo Rapporto su mercato del lavoro e contrattazione collettiva il Cnel per la prima volta prende atto del fatto che «Tra gli osservatori delle dinamiche contrattuali vi è chi ha dubitato circa l’attendibilità di questi dati provenienti dai flussi Uniemens». Si tratta però, per l’appunto, di una mera presa d’atto, perché subito dopo si afferma, da un lato, che «Là dove […] è stato possibile incrociare i dati Inps e i dati delle comunicazioni obbligatorie (sia pure solo a livello locale) è stata verificata la sostanziale corrispondenza fra le risultanze che emergono fra i due sistemi di rilevazione»; dall’altro, che, «un mancato allineamento tra i due sistemi [comunicazioni obbligatorie e Uniemens] implicherebbe una criticità di comportamento da parte delle imprese (di fatto la tenuta di due sistemi di contabilità)» .
Da quest’ultimo punto di vista, devo dire che la prova dell’esistenza di una – lecita – “tenuta di due sistemi di contabilità” è data dalla situazione di Stellantis, il cui “contratto collettivo specifico di lavoro”, in base ai flussi Uniemens, risulta essere stato applicato solo a 170 lavoratori nel 2023. Mi sembra evidente, appunto, che le aziende di quel gruppo, nel predisporre le denunce mensili all’Inps, indicano un ccnl – verosimilmente quello per l’industria metalmeccanica siglato da Federmeccanica – che poi non applicano ai rapporti con i propri dipendenti.
Dove parla invece dell’incrocio tra i dati Uniemens e quelli delle comunicazioni obbligatorie, da cui risulterebbe confermata l’attendibilità dei primi, il Rapporto fa riferimento a uno studio dell’Osservatorio del mercato del lavoro della Città metropolitana di Milano . Non ho le competenze di uno statistico e quindi non mi azzardo a criticare la metodologia con cui è stato realizzato l’allineamento delle codifiche dell’Inps (che utilizza i codici alfanumerici dell’archivio Cnel) con le quelle del Ministero del lavoro (che fa uso dei vecchi codici Inps). Voglio solo osservare che anche i risultati di questa ricerca, seppur preziosi, vanno maneggiati con cautela e non possono certamente essere letti come una conferma dell’attendibilità dei dati Uniemens ai fini in esame. Essi al più costituiscono un indizio che, per il momento, il nostro sistema di contrattazione collettiva resta ad elevata copertura – ma di questa circostanza in pochi dubitano – e relativamente immune dalla pirateria; ma non dissipano affatto i dubbi legati al detto problema di fondo delle risultanze dei dati Uniemens, cioè al problema della possibilità di scissione tra ccnl indicato a fini previdenziali e ccnl applicato al rapporto di lavoro.
Mi limito a segnalare inoltre che l’elenco dei ccnl presenti nel data-base ministeriale si presenta veramente povero e poco aggiornato: il numero dei contratti collettivi catalogati è di gran lunga inferiore a quello risultante dall’archivio del Cnel a cui si affida il sistema Uniemens. Il Rapporto parla di 517 codifiche vigenti nel 2019, contro i 976 del Cnel al 30 giugno 2023. Non è secondario poi che i dati ricavabili dal sistema Unilav delle comunicazioni obbligatorie sono relativi alle attivazioni di contratti di lavoro in un dato anno e non – come i flussi Uniemens – al totale degli occupati con una posizione previdenziale aperta in quello stesso anno. In altre parole, il lavoratore assunto a tempo indeterminato nel 2020 risulterà dai dati Uniemens del 2023, ma non da quelli Unilav dello stesso anno.
Mi sembra ci siano insomma gli elementi per ritenere che la concordanza tra alcune delle informazioni ricavabili dai due sistemi sia una mera indicazione di massima, tutt’altro che insuperabile.
Peraltro, non si può fare a meno di notare come il Rapporto dell’Osservatorio milanese riveli anche informazioni per niente rassicuranti. Solo per citarne alcune:
- nel periodo 2019-2022 le attivazioni con un ccnl non riconducibile alle tre grandi confederazioni sindacali «risultano avere una maggiore incidenza tra le cooperative ed i rapporti di lavoro a tempo parziale, coinvolgendo le basse qualifiche, nel settore dei servizi alle imprese». Si pensi che il 50,8% degli avviamenti con un ccnl non-leader riguarda il settore dei servizi alle imprese. Il che rende assolutamente rilevante quanto si diceva supra a proposito dell’impossibilità di scattare attraverso il sistema dei flussi Uniemens un’istantanea della copertura per ciascun settore;
- è registrata una crescita nell’applicazione dei ccnl non-leader negli ultimi quattro anni presi in considerazione: il 79,4% delle attivazioni con quei contratti nel periodo 2015-2022 si collocano infatti nel quadriennio 2019-2022;
- nel periodo 2019-2022 c’è una diminuzione dell’incidenza dei contratti leader di oltre il 3% rispetto al periodo 2015-2018. Anche per questo il Rapporto parla di «lenta ma costante espansione della quota di avviamenti al lavoro il cui contratto nazionale risulta non essere stato sottoscritto dai sindacati confederali».
In definitiva, mi pare che non ci siano i presupposti per ritenere di poter correttamente adempiere agli obblighi di trasparenza imposti dalla direttiva avvalendosi dei dati oggi disponibili. Se il senso di quegli obblighi è consentire una valutazione del reale stato di salute del nostro sistema di contrattazione collettiva, lo strumento dei flussi Uniemens potrebbe non essere idoneo allo scopo.

3. …sul piano individuale…
Parlare di trasparenza sul piano individuale significa fare riferimento agli obblighi del datore di lavoro di informare ciascuno dei propri dipendenti circa le condizioni economiche e normative che caratterizzano il rapporto. La trasparenza delle condizioni di lavoro, però, «non [è] un approdo» , un valore in sé. Rendere le informazioni sugli elementi essenziali del rapporto di lavoro conoscibili per il contraente debole risponde evidentemente all’obiettivo di permettere a quest’ultimo una tutela effettiva dei propri diritti sostanziali. Questa circostanza trova conferma proprio nella direttiva n. 2019/1152/UE, il cui scopo è «migliorare le condizioni di lavoro promuovendo un’occupazione più trasparente e prevedibile, pur garantendo nel contempo l’adattabilità del mercato del lavoro» (art. 1, par. 1).
Com’è noto, il d.lgs. n. 104/2022, recependo proprio questa direttiva, ha arricchito sensibilmente, anche oltre quanto previsto dalla fonte europea, il novero delle informazioni che il datore è tenuto a fornire al lavoratore. Tra queste, in materia salariale, si segnalano l’importo iniziale della retribuzione e i relativi elementi costitutivi (invero già contemplati dalla versione originaria del d.lgs. n. 152/1997), le condizioni relative al lavoro straordinario e alla sua retribuzione, nonché, quando il rapporto si caratterizza per un’organizzazione del lavoro imprevedibile, l’ammontare minimo delle ore retribuite garantite e la retribuzione per il lavoro prestato in aggiunta ad esse.
Considerato poi che in Italia l’autorità salariale è la contrattazione collettiva, è assolutamente rilevante dal punto di vista della tutela dei diritti retributivi l’introduzione dell’obbligo di comunicare al lavoratore i contratti collettivi applicati al rapporto con l’indicazione dei soggetti stipulanti. Di fronte alla proliferazione dei ccnl con perimetri in tutto o in parte sovrapposti, la previsione di un obbligo di fare chiarezza sul contratto collettivo applicato non può che essere salutata favorevolmente. Così come è degna di sottolineatura una delle novità introdotte dal d.l. n. 48/2023 . Questo decreto, oltre a riesumare la possibilità – soppressa dal d.lgs. n. 104/2022 – di assolvere a una parte dell’onere informativo tramite l’indicazione del riferimento normativo o del contratto collettivo che disciplina le materie oggetto dell’onere stesso , ha previsto un obbligo per il datore di lavoro di consegnare o mettere a disposizione del personale (anche mediante pubblicazione sul proprio sito web) i contratti collettivi e gli eventuali regolamenti aziendali applicabili al rapporto di lavoro .
A mio parere si tratta di una misura che, oltre all’effetto più immediato di rendere il lavoratore consapevole della fonte di regolazione della propria retribuzione, può anche sortire un effetto indiretto di disincentivo all’impiego di ccnl sottoscritti da organizzazioni poco rappresentative, in precedenza favorito dalla possibilità di fare leva sui «fraintendimenti» generati dalla presenza di più contratti per la medesima categoria (cosicché nel contratto individuale e nella busta paga si poteva scrivere “ccnl industria metalmeccanica” e poi applicare quello firmato per questa categoria da soggetti collettivi sconosciuti) .
La convinzione che la trasparenza possa avere un effetto incentivante di comportamenti più virtuosi da parte del datore di lavoro è evidentemente anche alla base della direttiva n. 2023/970/UE su trasparenza e parità retributiva di genere.
Questa fonte europea prevede un ampio diritto di informazione del lavoratore , accompagnato da un sistema di rimedi contro il mancato o l’inesatto adempimento da parte del datore di lavoro a mio parere molto più efficace di quello stabilito dalla direttiva n. 2019/1152/UE e dal decreto trasparenza. Lo stesso diritto, peraltro, è esteso alla fase preassuntiva, nell’ambito della quale ha ad oggetto pure il contratto collettivo che si ha in animo di applicare al rapporto che sarà instaurato. L’attuazione di questa direttiva, quindi, irrobustirà sensibilmente la posizione giuridica attiva del lavoratore in relazione alla trasparenza salariale, non solo nell’ottica della direttiva stessa – cioè quella del rafforzamento del principio della parità di trattamento –, ma, più in generale, con riferimento alla garanzia dei diritti retributivi di tutti i lavoratori.

4. …e sul piano collettivo
Diversa dalla trasparenza a fini cognitivi (quella sul piano individuale) è la trasparenza a fini partecipativi (quella sul piano collettivo). Certo, non si può dire che la dimensione sindacale della trasparenza risponda solo a una logica di partecipazione. Naturalmente, l’inclusione dei sindacati fra i destinatari di certe informazioni che il datore di lavoro è tenuto a comunicare va letta anche nella prospettiva di agevolare l’emersione, l’accertamento e la prova di violazioni di posizioni individuali . Tuttavia, non vi è dubbio che il profilo tipico dell’informazione sindacale è la sua strumentalità rispetto all’azione e alla contrattazione collettiva.
Bisogna però constatare che quest’ultima dimensione in cui può svilupparsi il binomio trasparenza-retribuzione è la grande assente nel nostro ordinamento, completamente trascurata dal d.lgs. n. 104/2022, che vi ricorre solo in relazione ai sistemi decisionali e di monitoraggio automatizzati (nuovo art. 1-bis, d.lgs. n. 152/1997 ). Eppure, sempre nella prospettiva dell’incentivazione di comportamenti virtuosi da parte dei datori di lavoro, oltre che del monitoraggio sulle dinamiche salariali a livello aziendale e territoriale, mi paiono evidenti i benefici della «doppia titolarità del diritto di informazione» sul contratto collettivo applicato e sul sistema retributivo adottato. Peraltro, l’obbligo di informazione sindacale sarebbe chiaramente molto più efficace su queste tematiche di quanto lo sia in relazione al meccanismo di funzionamento dell’algoritmo, su cui la competenza del sindacato è sicuramente meno specialistica (e quindi meno adeguata).
In tema è tuttavia lecito attendersi qualche novità in un futuro prossimo. Un maggior coinvolgimento dei rappresentanti dei lavoratori è difatti previsto dalla direttiva n. 2023/970/UE . Il recepimento di questa potrebbe allora essere l’occasione per rimettere mano al profilo in esame e sondare l’opportunità di una calibrata valorizzazione del ruolo delle organizzazioni sindacali nel sistema di tutela della trasparenza a fini retributivi.

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