testo integrale con note e bibliografia
1. Premessa
Oggetto di queste riflessioni sono le connessioni intercorrenti tra lo sfruttamento lavorativo e i minimi salariali; si tratta di una angolazione specifica, una feritoia attraverso cui scrutare temi ben più complessi e articolati. Spesso, per vero, osservare lungo strette fessure schiude alla vista orizzonti più vasti e così indagare questa correlazione consente di aggiungere elementi precipui, talora di criticità, talaltra di opportunità, nell’ambito del dibattito, corposo e acceso, che contorna la questione del salario .
La scelta, a ben vedere, è sorretta da una opzione metodologica notoria , poiché l’intento perseguito è servirsi di un frammento di disposizione – ovvero un elemento, peraltro neanche di per sé costitutivo della fattispecie, cioè nello specifico un dato indice di sfruttamento – e quindi approfondire un profilo preciso con l’obiettivo di scandagliare una questione più complessa che si proietta nel sistema giuridico del lavoro.
Questo esperimento necessita però di una ulteriore premessa. Non è possibile dedicare spazio sufficiente ed autonomo ai due istituti posti in relazione; ma se sul primo, vale a dire il salario, gli scritti della giornata senese, qui riproposti, compensano ampiamente le mancanze di questo contributo, sul secondo, e cioè lo sfruttamento lavorativo, si proverà tanto in apertura, quanto in chiusura a fornire alcune minime e sintetiche indicazioni, indispensabili però al fine di mettere meglio a fuoco l’oggetto dell’intervento.
Come noto, lo sfruttamento lavorativo è codificato come fattispecie penale (ex art. 603 bis c.p.) da oltre un decennio e tuttavia il tempo, e la (ri)formulazione della disposizione intervenuta più di recente ad opera della l. n. 199/2016 , non hanno dissipato le ombre che continuano ad allungarsi su di essa. Perplessità, per vero, che insistono tanto in ordine ai confini esterni della fattispecie, quanto con riguardo alla configurazione in sé della stessa.
Sul primo versante, ad esempio, è possibile rammentare i dubbi interpretativi circa la linea di demarcazione tra la figura giuridica delineata dall’art. 603 bis c.p. ed altri reati, come la riduzione in schiavitù o il suo difficile coordinamento con altri strumenti e misure inerenti a forme di sfruttamento: si pensi tra tutti al permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale ex art. 18 d.lgs. n. 286/1998.
Sul secondo versante, diverse incertezze ricorrono anche con riferimento agli elementi costitutivi della fattispecie a partire dalla fumosità della nozione di stato di bisogno, che continua ad essere percepita come “concetto vago” .
Non minori appaiono poi le riserve circa quella condizione di sfruttamento lavorativo in cui deve incorrere il dipendente e ciò malgrado la previsione di appositi indici di riferimento su cui, per vero, qualche maggiore certezza è maturata in ordine, ad esempio, al loro carattere non tassativo e alla sufficiente presenza di uno solo di essi ai fini dell’integrazione della fattispecie di reato.
Al di là comunque delle plurime questioni interpretative che ancora, a distanza di anni, accompagnano la fattispecie penale descritta, in questa sede è opportuno, come anticipato, focalizzare l’attenzione su un frammento di essa, impiegato, per l’appunto, come passpartout, al fine di scrutare una tematica di estrema attualità e complessità che investe il sistema giuridico del lavoro, ossia la questione dei minimi salariali e verificare se attraverso di essa sia possibile cogliere (o meno) elementi utili in chiave sistemica. Il frammento è, come noto, contenuto nell’art. 603 bis c.p., comma 3, n. 1 e si articola in due criteri che, seppur connessi, meritano una apposita e separata trattazione, posto che ciascuno di essi schiude diverse problematiche interpretative e applicative.
2. Il mancato rispetto dei minimi contrattuali
Il primo parametro dell’indice retributivo in esame fa riferimento alla “reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale”. Una formula, per vero, sulla quale opzioni interpretative più solide si alternano a letture che appaiono meno salde.
Innanzitutto, il legislatore impone una “reiterazione” nella condotta addebitabile al datore di lavoro, sostituendo la pregressa formula della “sistematicità” la legge amplia gli spazi di tutela accordati al lavoratore non essendo più richiesta una continuità (e quindi una sistematicità) nella condotta, risultando sufficiente la ripetizione del comportamento . Fermo restando però che “la reiterazione deve riguardare il medesimo soggetto passivo” , perché “non c’è sfruttamento […] per una mera sommatoria di condotte episodiche in danno di lavoratori diversi” .
E sempre di recente, per vero, i giudici di legittimità hanno fatto chiarezza anche sull’elemento della “corresponsione” evocato dalla disposizione codicistica, ribadendo la necessità dell’effettività del compenso; di modo che, la previsione deve essere agganciata alle “effettive erogazioni patrimoniali dovute” non a quelle “realmente versate”, né “al corrispettivo pattuito con accordi per dissimulare la sottoretribuzione” .
Particolarmente meritevole di segnalazione, proprio nella prospettiva sistematica prescelta, è l’impiego del termine “retribuzione”. Come noto la giurisprudenza ha consolidato un orientamento secondo cui la tutela costituzionale ex art. 36 non comprende il trattamento contrattuale complessivo, ma solo il c.d. minimo costituzionale che, di fatto e tendenzialmente, si riduce al minimo tabellare, all’indennità di contingenza e alla tredicesima mensilità .
Orientamento da più parti criticato per gli evidenti rischi di discrezionalità cui è esposto, determinando la diffusione di “trattamenti sperequativi nel mercato del lavoro” e, per di più, difficilmente sostenibile alla luce della complicazione, nei termini di arricchimento delle diverse voci retributive, della parte economica del ccnl; sicché è inevitabilmente aumentato “lo scarto tra la retribuzione costituzionalmente “minima” e la retribuzione identificata dalle parti sociali come controprestazione del lavoro” .
Peraltro, questa parte della disposizione in esame si pone in continuità con altre disposizioni specifiche disseminate, negli ultimi anni, nell’ordinamento giuridico che impiegano formule più estese.
Così, ad esempio, l’art. 7, c. 4, d.l. 31 dicembre 2007, n. 248, conv. l. 28 febbraio 2008, n. 31 relativamente ai soci lavoratori di cooperativa, garantisce “trattamenti economici complessivi non inferiori” a quelli fissati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale. Ancora, ai sensi dell’art. 16, c. 1, d.lgs. 3 luglio 2017, n. 117, ai lavoratori degli enti del Terzo settore è accordato il diritto “ad un trattamento economico e normativo non inferiore” a quanto disposto dai contratti collettivi ex art. 51, d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81. Da ultimo, ai dipendenti dei vettori aerei e delle imprese che operano sul territorio italiano debbono essere assicurati “trattamenti retributivi comunque non inferiori a quelli minimi” stabiliti dal ccnl del settore stipulato dai sindacati comparativamente più rappresentativi a livello nazionale (art. 203, c. 1, d.l. 19 maggio 2020, n. 34, conv. l. 17 luglio 2020, n. 77).
Al di là della specificità di ciascuna espressione, ciò che le accomuna è il riferimento ad un quantum retributivo più esteso di quanto abitualmente ricompreso nel c.d. minimo costituzionale e, dunque, sintomatico dell’emergere di una tendenza legislativa destinata ad incidere sull’applicazione giurisprudenziale.
In questa direzione pare porsi quindi anche il lemma “retribuzione” impiegato nell’art. 603 bis c.p.; del resto, seppur timidamente, la giurisprudenza ha di recente precisato che esso ricomprende “[…] tutto ciò che è dovuto per la prestazione lavorativa non solo come complessivo trattamento economico di base ma anche come indennità a vario titolo corrisposte per la prestazione” . Di tal che, anche il frammento normativo indagato può, nella descritta prospettiva sistemica, concorrere a riconsiderare un’impostazione che, come messo in risalto, non pare più funzionale all’assetto attuale dell’ordinamento giuridico e del sistema di relazioni sindacali.
Ciò che il legislatore pone quale condizione per la sussistenza dell’indice in parola è, come premesso, l’erogazione di compensi in maniera palesemente difforme da quanto disposto “dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale”. L’ultima parte di questo parametro, a ben vedere, alterna elementi di utilità con significative criticità.
Si è osservato che il dibattito sulla questione salariale è fortemente condizionato dall’aggettivo qualificativo impiegato ; nel caso dell’art. 603 bis c.p., verrebbe da chiosare, ad un aggettivo si aggiunge un avverbio che non concorre a fare chiarezza, anzi. L’espressione è evidentemente indeterminata e non agevola l’interpretazione; scorrendo i repertori giurisprudenziali, peraltro, se ne ricava una lettura oltremodo elastica – ancor più poi quando l’indice retributivo è affiancato da altri sintomi di sfruttamento – che incrementa forse eccessivamente la discrezionalità dell’interprete e, dunque, può risultare foriero di pericolose dissonanze applicative.
Infine, il rinvio disposto dalla fattispecie penale alla fonte di previsione del trattamento, la contrattazione collettiva, merita qualche puntualizzazione.
In primo luogo, il richiamo del secondo livello contrattuale può essere motivato dall’esigenza di tenere in adeguata considerazione quei settori merceologici, come l’agricoltura o l’edilizia, in cui il livello territoriale assume precipuo rilievo nella determinazione dei salari; e tuttavia non può omettersi di rilevare che, ancora una volta, si assiste ad una equiparazione dei livelli contrattuali, punto di caduta recente di un processo ben più articolato e risalente che, in maniera tutt’altro che episodica e con interventi del legislatore sempre più distanti dalla tradizione del nostro diritto sindacale, tende a conformare l’intero sistema di relazioni industriali.
In secondo luogo, è di certo apprezzabile il rinvio esplicito alle previsioni del contratto collettivo nella sua funzione di “autorità salariale”, in continuità peraltro con le disposizioni di legislazione speciale poc’anzi richiamate; pur tuttavia, al contempo, deve registrarsi una preoccupante deviazione da quel modello. Mentre infatti, anche se con intonazioni diverse, in quelle disposizioni è ricorrente il richiamo ai contratti collettivi di categoria stipulati da sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale, nella formulazione dell’art. 603 bis c.p. si perde tanto il riferimento alla categoria, quanto all’elemento fondamentale, nella prospettiva ordinamentale del nostro sistema, della comparazione.
Ma non si può liquidare questa omissione come una mera dimenticanza o una leggera digressione dall’espressione ricorrente; e tuttavia si può ancora provare a recuperare, sul piano interpretativo, il dato mancante: a partire, ad esempio, dall’elaborazione giurisprudenziale che avalla l’impiego dell’art. 2070 c.c. . Non di meno il richiamo alla rappresentatività è parzialmente monco sul piano della selezione – posto che la formula impiegata si riduce al richiamo delle organizzazioni sindacali “più rappresentative a livello nazionale” – ma anche in tal caso è auspicabile un recupero sul piano interpretativo non foss’altro in ragione dell’assunto per cui il nostro “sistema sindacale di fatto […] è fondato proprio sulla selezione dei soggetti sindacali sulla base della loro rappresentatività” .
Ciò nonostante, lo sforzo di recuperare un’interpretazione coerente con l’assetto del sistema di relazioni industriali non elude le inside che si annidano dietro locuzioni di tal tipo che possono alimentare problematiche antiche ma, al contempo, generarne (o, quanto meno, complicarne) di più recenti.
Così, sul primo versante, oltre a tutti i rischi connessi all’eccesso di discrezionalità giudiziale che inevitabilmente prolifera nelle pieghe di formulazioni lessicali ambigue, riemerge nuovamente il nodo scorsoio della rappresentatività e della sua misurazione. Sul secondo versante, per quanto sia vero che “più rappresentativi” non equivalga al criterio della “maggiore applicazione” nella categoria evocato di recente , resta il dato preoccupante dell’impatto che un’espressione così generica possa produrre su un sistema sindacale debole come quello attuale, non foss’altro per le scorribande “piratesche” che lo attraversano.
3. Il mancato rispetto del requisito della proporzionalità
Il secondo parametro che completa l’indice di sfruttamento oggetto di analisi precisa che il compenso erogato non deve “comunque” essere “sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato”, facendo riecheggiare una espressione ben nota non solo agli studiosi di diritto del lavoro.
In proposito, non è tanto l’interpretazione del criterio in sé a suscitare interesse, quanto il rapporto tra i due parametri legati peraltro dall’avverbio “comunque” che, benché di impiego equivoco, non pare sufficiente a riproporre e avallare letture propense a ritenere “l’insufficienza […] assorbita dalla sproporzione” e, analogamente ai fini della norma penale, a reputarsi che “il trattamento conforme a contratti collettivi genuini non potrà dirsi sproporzionato” .
Piuttosto, anche in questa ipotesi – e servendosi di quanto elaborato in relazione all’art. 36 Cost. a partire dalla piena consapevolezza della coesistenza di un duplice funzione costituzionale della retribuzione, quale obbligazione sociale e quale obbligazione corrispettiva – è forse opportuno estendere quella lettura unitaria che insiste sulla “complementarietà dei due criteri”, poiché del resto “in astratto una retribuzione di per sé quantitativamente e qualitativamente proporzionata potrebbe non essere sufficiente, così come, per converso, una retribuzione sufficiente potrebbe non essere proporzionata” .
Di certo, un indiscutibile elemento di novità nel dibattito sull’applicazione del 36 Cost., e più in generale del salario, è rappresentato da un coevo orientamento maturato nella giurisprudenza lavoristica ma con estensioni anche in quella penale .
In estrema sintesi, la Cassazione civile ha precisato che il giudice, nell’attuazione dell’art. 36 Cost. deve fare riferimento in via preliminare alla retribuzione fissata dai contratti collettivi nazionali di categoria; tuttavia, lo stesso può motivatamente discostarsene ove il quantum fissato risulti in contrasto con i criteri di proporzionalità e sufficienza posti dall’art. 36 Cost. e ciò anche qualora il rinvio ai contratti collettivi sia contemplato in un atto normativo, essendo sempre il giudice chiamato a fornirne un’interpretazione costituzionalmente orientata. A tal proposito, l’autorità giudiziaria può altresì ricorrere, a fini parametrici, al trattamento retributivo fissato in accordi collettivi di settori affini o per mansioni analoghe e, nell’ambito dei poteri accordati dall’art. 2099, c. 2, c.c., può adoperare indicatori economici e statistici secondo quanto, peraltro, suggerito dalla Direttiva n. 2022/2041/UE.
In continuità con questa impostazione, la Cassazione penale, dopo aver messo in relazione quanto stabilito dall’indice di sfruttamento ex art. 603 bis c.p. con i principi costituzionali in materia retributiva, precisa che “la proporzione tra l’obbligazione retributiva e la qualità e quantità del lavoro prestato […] deve essere mantenuta anche quale metro della difformità e deve prevalere “comunque” anche su una su una contrattazione collettiva che ipoteticamente non l’abbia rispettata”. E ciò in quanto “l’autonomia delle parti sociali non può […] derogare al principio della retribuzione quale soglia minima di dignità umana e sociale, personale e familiare, espressione degli artt. 2, 3, 4, 36 e 41 Cost.”.
L’orientamento è al centro di un acceso confronto che non è possibile ripercorrere in questa sede; ciò nonostante, pare opportuno mettere in evidenza alcuni dei rilievi emersi.
Innanzitutto, è abbastanza evidente che un sistema così delineato amplifichi, di nuovo, i rischi di discrezionalità e di incertezza: si pensi già solo all’impiego nella determinazione della retribuzione costituzionalmente spettante di indici interni al sistema contrattuale e di indici esterni ad esso . Ancora, per quanto sia condivisibile l’approccio giurisprudenziale volto a ritenere verificabile ogni contratto collettivo nella determinazione del quantum retributivo, non si introduce alcun elemento di chiarezza in ordine a quale sia, o potrebbe essere, un “minimo idoneo” ex art. 36 Cost. . Da ultimo ancora più nette perplessità sono state espresse circa il potere del giudice di disattendere il dettato normativo ove non conforme ai principi costituzionali, osservando che “l’interpretazione conforme non può arrivare […] fino al punto di stravolgere la lettera della legge” .
In ogni caso, e al di là del tono delle critiche sollevate, vi è un dato che non è possibile, né opportuno, ignorare, vale a dire che lo sforzo interpretativo messo in campo di recente dalla giurisprudenza è conseguenza, anche, seppur non solo, di un’inerzia legislativa non più giustificabile e, più in generale, di una riflessione intorno al salario che non può più restare solo tale oramai ma che deve necessariamente trovare sbocchi legislativi, oltre che giurisprudenziali.
4. Riflessioni conclusive
La più volte richiamata feritoria attraverso la quale si è condotta l’indagine, ovvero l’indice di sfruttamento retributivo ex art. 603 bis c.p. consente di cogliere ulteriori questioni di sistema che, per la prospettiva qui assunta, riguardano tanto la “madre di tutte le questioni” ovvero la questione salariale , quanto la fattispecie penale dello sfruttamento del lavoro.
Con riferimento alla prima anche l’analisi del frammento normativo qui proposta e l’indagine sulla sua applicazione sembrano avvalorare l’opzione secondo cui il tema attuale non è tanto “cosa sia” retribuzione, quanto “chi” e “come” debba oggi individuare il salario nel prisma costituzionale .
Ciò con una duplice consapevolezza. Per un verso, come già accennato, è del tutto evidente come l’assenza dell’intervento legislativo spiani la strada alla via giudiziale di determinazione del salario giusto . Una strada però che, al netto delle buone intenzioni e degli sforzi interpretativi, è lastricata di eccessive incertezze e marcate discrezionalità destinate a riversarsi sul sistema giuridico, quanto al profilo teorico, e nella busta paga dei lavoratori, su un piano empirico.
Per alto verso, il dibattito corrente, dottrinale e giurisprudenziale, così come le proposte di intervento legislativo si incastonano in un quadro generale poco confortante, segnato, giusto per rammentare alcune delle criticità più evidenti, dalla proliferazione dei contratti collettivi, dalla frammentazione della rappresentanza sindacale e da una più generale condizione di debolezza del sistema sindacale di fatto.
Tornando alla domanda inziale e dunque all’individuazione di “chi” possa, o meglio debba essere chiamato a determinare il salario dei lavoratori, non vi è forse altra soluzione che quella di una combinazione di fonti ovvero di un intervento di sostegno legislativo che non depotenzi il ruolo delle parti sociali, ma anzi rinsaldi la funzione della contrattazione collettiva .
Quanto invece alla fattispecie penale dello sfruttamento lavorativo è opportuno richiamare due snodi problematici, tra i tanti, che affliggono questa fattispecie di reato.
Il primo concerne i reali margini di tutela che l’art. 603 bis c.p. assicura al lavoratore vittima di sfruttamento; al di là, infatti, della possibilità di attivare alcuni strumenti di recente introduzione come, ad esempio, il controllo giudiziale delle imprese, la tutela del lavoratore è di fatto subordinata alla sua costituzione come parte civile: per nulla agevole da parte di lavoratori che sono spesso soggetti molto vulnerabili, con seri problemi di accesso alla giustizia .
In secondo luogo, e ampliando un po’ lo sguardo, appare evidente che lo sfruttamento lavorativo non possa ritenersi esaurito dalla (e nella) fattispecie penale e che sarebbe opportuno distinguere il “grave” sfruttamento lavorativo, di interesse del diritto penale, da tutte quelle forme di sfruttamento, illegalità e irregolarità che dovrebbero trovare spazio e attenzione nell’ambito del diritto del lavoro .
Ma il problema, come noto, è ben più ampio e concerne la fagocitazione di spazi regolativi del diritto del lavoro ad opera, in particolare, delle disposizioni penali, la cui ricorrenza, soprattutto nell’ultimo periodo, è sempre più inquietante.
Oltre un decennio fa, si osservava che i giuslavoristi sono “studiosi interdisciplinari” avvezzi a confrontarsi con “interlocutori che parlano anche lingue diverse”. Un’indiscutibile risorsa propria degli studiosi del diritto del lavoro che oggi però si trovano a fronteggiare un tempo più buio attraversato da tendenze, neanche tanto striscianti, volte a semplificare piuttosto che approfondire, omologare piuttosto che arricchire, zittire piuttosto che ascoltare. E allora la sfida, per noi prima di tutto, dovrebbe essere quella di mantenere in vita un fisiologico (anzi, salutare) “poliglottismo”, per l’appunto imprescindibile in una società complessa come quella attuale .