testo integrale con note e bibliografia
Il salario minimo legale risulta essere, da molto tempo, una delle tematiche più al centro del dibattito pubblico italiano ed europeo. È un argomento caratterizzato da un elevato grado di complessità spesso divisivo per i valori che evoca e per le diverse impostazioni culturali, sindacali, dottrinarie e giurisprudenziali sottese.
È da tempo che politica, forze sociali, mondo universitario si interrogano sull’opportunità o meno di introdurre uno strumento legislativo per la definizione di un salario minimo legale. Una discussione di grande significato che tuttavia non è mai riuscita ad individuare proposte condivise dal momento in cui gli interessi e le dinamiche in gioco sono molteplici.
Come Parte Sociale che firma importanti CCNL crediamo da sempre che sia un argomento da trattare delicatamente poiché l’eventuale impatto di soluzioni calate dall’alto potrebbe avere effetti molto rilevanti sui delicati equilibri del mercato del lavoro italiano.
La tematica dei minimi salariali nella dimensione della direttiva europea
La discussione sulla questione salariale e sul minimo legale ha subito un’intensificazione a partire dal 19 ottobre 2022 quando si è concluso il lungo iter di approvazione della direttiva europea sui salari minimi adeguati.
Siamo convinti che un dibattito sul salario minimo debba necessariamente affrontare il tema partendo da una prospettiva di carattere sovranazionale ed europea (tema già trattato nelle relazioni che precedono questa sessione). L’impostazione della direttiva europea non configura in realtà “alcun obbligo per gli Stati membri di introdurre un salario minimo legale laddove le dinamiche salariali siano garantite esclusivamente mediante contratti collettivi, né configura l’obbligo di dichiarare un contratto collettivo universalmente applicabile (Cfr. art.1, par.4 della direttiva (UE) 2022/2041 del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 ottobre 2022).
È lo stesso quadro sovranazionale ad affermare esplicitamente un favor nei confronti della contrattazione collettiva nella regolazione delle dinamiche retributive proprio perché “in tali Stati membri, i salari, ivi compresa la tutela garantita dal salario minimo, sono previsti esclusivamente mediante la contrattazione collettiva tra le parti sociali. I salari medi in tali Stati membri sono tra i più alti nell’Unione europea. Tali sistemi sono caratterizzati da una copertura estremamente elevata della contrattazione collettiva e da alti livelli di affiliazione sia alle associazioni dei datori di lavoro sia alle organizzazioni sindacali”.
È proprio per questo che la direttiva europea chiarisce che gli Stati ove i contratti collettivi regolino almeno l’80% dei rapporti di lavoro, non sono obbligati ad interventi legislativo e debbano però mettere in atto piani d’azione per promuovere ulteriormente la contrattazione collettiva.
A livello europeo viene pertanto statuito che il salario minimo possa essere stabilito per legge, dalla contrattazione collettiva, o dalla combinazione della fonte normativa con la contrattazione collettiva. Il quadro attuale è caratterizzato da una forte eterogeneità tra Paesi membri come sottolineano diversi studi in materia con 21 Paesi ove esistono soglie salariali minime fissate per legge, mentre in 6 stati membri, tra cui l’Italia, la protezione sociale è fornita direttamente dalla contrattazione collettiva.
La direttiva europea persegue quindi lo scopo di garantire adeguatezza dei salari e condizioni di vita dignitose nel rispetto delle peculiarità di ogni singolo contesto nazionale.
La questione minimi salariali nel contesto nazionale: punti di forza e di debolezza
L’Italia è stata da sempre caratterizzata da un’altissima copertura contrattuale e da sistemi di relazioni industriali che coprono la pressoché totalità dei settori come testimoniano tutte le statistiche ufficiali in materia . Questi dati testimoniano quindi la forza del sistema contrattuale dell’Italia, l’estrema capillarità e il grado di estensione intersettoriale.
Abbiamo sempre ritenuto che, seppur la soglia dell’80% fissata dalla direttiva europea venga ampiamente superata nel nostro Paese, momenti di discussione e confronto come quello attuale, specialmente se coinvolgono una pluralità di attori, possono essere importanti per porre in essere azioni incisive per rafforzare il patrimonio e la ricchezza dei sistemi derivanti dalla contrattazione collettiva.
Abbiamo sempre ritenuto che il fenomeno dei working poors e più in generale della questione salariale sia di fondamentale importanza per l’attrattività, per la crescita economica e per il paese in generale. I numeri e le statistiche sottolineano come le cause di questi fenomeni sono il lavoro nero, i falsi lavoratori autonomi sottopagati, i falsi tirocini, le cooperative spurie, in aggiunta a tutte quelle modalità di esternalizzazione illecita, come avviene per il distacco e per la somministrazione fraudolenta.
Sono questi i fenomeni che realmente determinano la questione salariale o il fenomeno del lavoro povero in Italia: l’eventuale introduzione di una soglia salariale minima non sortirebbe alcun effetto su queste sacche di illegalità e lavoro nero.
Un’ulteriore causa del fenomeno è ravvisabile nella diffusione della contrattazione “pirata”, ove organizzazioni sindacali non dotate di una reale rappresentatività prevedono trattamenti economici e/o normativi inferiori rispetto alla contrattazione collettiva già applicata dalle imprese operanti nel settore con tutto quello che ne consegue in termini di alterazione della concorrenza e del fenomeno del dumping contrattuale.
Dai dati INPS e CNEL, si nota che il fenomeno si è espanso nell’ultimo decennio, sebbene i dati Uniemens elaborati dal CNEL, sull’applicazione dei contratti collettivi stipulati da sigle minori, siano ancora bassi: basti notare che al 97% dei lavoratori del settore privato vengono applicati contratti siglati dalle federazioni sindacali di Cgil, Cisl e Uil . Da questo dato emerge pertanto come la contrattazione pirata sia un fenomeno marginale ma costituisce pur sempre un fattore di turbamento del sistema delle relazioni sindacali italiane.
La giurisprudenza e la tematica della giusta retribuzione ex art. 36 Cost.
In questo dibattito che ha coinvolto politica, economia, Parti Sociali e mondo accademico si è inserita anche la giurisprudenza con una serie di pronunce di legittimità. Sono ormai noti i casi di alcuni CCNL che sono stati oggetto di un forte contenzioso. La Corte di Cassazione ha emesso diverse sentenze (una fra tutte Cass. n. 27711 del 2 ottobre 2023) in base alle quali il giudice è il solo ad accertare quale sia la retribuzione “proporzionata” e “sufficiente” ex articolo 36 Cost.
Da decenni la giurisprudenza consolidata riconosceva i requisiti di proporzionalità e sufficienza alle tariffe retributive previste dai CCNL stipulati dalle organizzazioni più rappresentative. Con la sentenza n. 27711 del 2 ottobre 2023, ai fini della determinazione della retribuzione ex art. 36 Cost. il giudice deve fare riferimento alla contrattazione collettiva di categoria ma può discostarsene motivandone le ragioni ed utilizzando altri indicatori economici e statistici, indici Istat o utilizzando come parametro altri CCNL maggiormente rappresentativi.
Crediamo ad ogni modo che questo sia un precedente importante poiché è sul consolidato criterio della maggiore rappresentatività comparata del CCNL – che giocoforza disponeva dei canoni di proporzionalità e sufficienza –, che si era costruito ed edificato il sistema in precedenza.
Fermo restando le difficoltà di alcuni particolari settori non possiamo non domandarci quali possano essere le conseguenze di questo orientamento giurisprudenziale: entro quali limiti può muoversi il giudice nella determinazione di una retribuzione proporzionata e sufficiente? quali le possibili conseguenze sulla rappresentanza sindacale, sul conflitto sindacale e sull’art. 39 Cost. che è la norma su cui si fonda attualmente l’ordinamento intersindacale? E soprattutto quali le possibili conseguenze sulle dinamiche conflittuali in quei particolari settori labour intensive caratterizzati spesso da bassa produttività? Ci chiediamo se sia in atto una cambiamento nell’equilibrio che si era creato nel corso del tempo tra art. 36 Cost. e art. 39 Cost. e sui diversi orientamenti giurisprudenziali o dottrinari che ne erano alla base.
Sono spunti che lasciamo aperti e sui quali, molto laicamente, crediamo sia necessario discutere per le evidenti ricadute sul sistema di relazioni sindacali italiano.
Il ruolo centrale della contrattazione collettiva e delle Parti Sociali
La discussione sul salario minimo deve necessariamente considerare il ruolo delle parti sociali nella determinazione delle dinamiche retributive. La contrattazione collettiva svolge un ruolo ben più articolato e complesso nel mercato del lavoro rispetto alla semplice determinazione della “tariffa minima”.
È doveroso sottolineare come il tessuto produttivo in Italia sia caratterizzato da una fortissima parcellizzazione e da strutture medio piccole con esigenze di organizzazione del lavoro molto peculiari. Nel corso del tempo Confcommercio, assieme ai sindacati ha edificato sistemi di contrattazione moderni ed innovativi che diffondono tutele e diritti ad una vasta platea di lavoratori e contestualmente ha salvaguardato le condizioni delle imprese. La profonda conoscenza delle dinamiche settoriali e la flessibilità dello strumento contrattuale hanno permesso una regolazione prossima agli ambienti di lavoro che garantisce eque retribuzioni per i lavoratori attraverso un trattamento economico complessivo, che ricomprende la sanità integrativa, la previdenza complementare e i le prestazioni della bilateralità territoriale.
Riteniamo pertanto che il ruolo della contrattazione collettiva, dei corpi intermedi e degli attori sociali debba rimanere centrale: la previsione dell’art. 36 Cost. secondo cui il “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa…” nel nostro comparto ha finora trovato attuazione efficace attraverso l’autonomia collettiva.
Negli ultimi rinnovi del mondo del Terziario da noi rappresentato si è cercato di andare incontro alle esigenze del lavoro dignitoso: nel principale CCNL per numero di dipendenti coperti (quasi 3 milioni) è stato previsto un adeguamento economico di una certa portata che va a ristorare la perdita di potere di acquisto avvenuta nel corso di questi anni bilanciando però l’interesse economico delle imprese. Sono state previste delle causali ferree e circoscritte ai contratti al tempo determinato (che dovrebbero permettere un deflazionamento del contenzioso su una materia ove spesso si ricorre alla via giudiziale), e sono state infine incrementate le tutele sanitarie previste dal welfare contrattuale.
Riteniamo che il welfare e la bilateralità, nelle diverse declinazioni operanti nel nostro settore, siano un diritto fondamentale che consente al lavoratore di beneficiare di misure che possono portare ad ottenere prestazioni, somme o rimborsi molto considerevoli. La discussione sul salario minimo e dignitoso deve a nostro parere considerare queste componenti e non può ignorarle perché costituiscono parte integrante della retribuzione. Non ci troviamo pertanto d’accordo con l’impostazione di molti progetti di legge discussi recentemente in Parlamento (A.C. 1053) che non contemplano queste componenti.
Il ruolo promozionale che può svolgere il legislatore
Ferma restando la nostra contrarietà ad interventi calati dall’alto di determinazione di soglie minime prefissate per legge crediamo, da sempre, che il legislatore possa svolgere un ruolo importante nella diffusione della contrattazione collettiva di qualità non prevedendo istituti sanzionatori, bensì meccanismi propulsivi che promuovano l’integrale applicazione dei CCNL comprese le componenti di welfare, della bilateralità, dei sistemi sanitari integrativi e della previdenza complementare. A nostro parere si tratta di diritti di derivazione contrattuale che il legislatore deve considerare ogniqualvolta si accinge ad affrontare l’argomento del salario minimo.
Per raggiungere l’obiettivo di salvaguardare le condizioni del lavoro e delle imprese è opportuno proseguire per la strada individuata dalla direttiva, affidando ai contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, la determinazione delle retribuzioni minime. Pertanto, è necessario rafforzare il ruolo riconosciuto alla contrattazione esercitata dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative. In altri termini, si propone di riconoscere efficacia erga omnes al trattamento economico complessivo previsto nei CCNL leader.
L’individuazione di un salario minimo orario per legge, slegato da un consolidato sistema di relazioni sindacali, andrebbe a discapito della più diffusa applicazione dei contratti collettivi leader, danneggiando la sana concorrenza tra imprese. Peraltro, nel settore del terziario di mercato, che occupa più di 3,5 milioni di lavoratori, le retribuzioni orarie al lordo degli istituti aggiuntivi, si attestano sempre sopra i 9 euro, anche per i livelli più bassi a fortiori dopo il rinnovo dello scorso 22 marzo 2024. Inoltre crediamo che il rischio di un appiattimento delle retribuzioni, che una soluzione legislativa porterebbe con sé, determinerebbe altresì una perdita del potere di acquisto dei lavoratori e, dunque, un abbassamento dei consumi, incidendo negativamente sulle tenuta economica delle imprese.
Sappiamo bene che l’abbassamento del livello delle retribuzioni dipende spesso da fenomeni di dumping derivanti dalla proliferazione di contratti collettivi conclusi da sigle sindacali e associazioni datoriali carenti di rappresentatività. Sul tema crediamo che in sede CNEL sia stato svolto un importante lavoro di monitoraggio ed analisi della qualità della contrattazione grazie all’archivio dei Contratti Collettivi. Tramite questo strumento è oggi possibile avere informazioni dettagliate sugli attori negoziali, sul dato applicativo di un CCNL grazie al quale si può avere una maggiore contezza della contrattazione collettiva in Italia. Crediamo che questo sia una buona base da cui partire per eventuali futuri interventi del legislatore.
Per evitare che gli aumenti salariali vengano erosi dal cuneo fiscale riteniamo necessarie misure di riduzione strutturale del costo del lavoro. La crescita dei salari, che dipende anzitutto dal rafforzamento della dinamica della produttività, potrebbe essere sostenuta da incisive misure di riduzione del cuneo fiscale e contributivo gravante sui redditi da lavoro e da interventi di detassazione degli aumenti contrattuali. In questa direzione abbiamo sempre sostenuto meccanismi di decontribuzione e detassazione dei premi di risultato nonché delle erogazioni previste dalla contrattazione di secondo livello, così come la previsione di un’imposta sostitutiva sugli incrementi retributivi corrisposti al prestatore di lavoro per effetto del rinnovo del CCNL applicato, qualora sottoscritto dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Questo sforzo della finanza pubblica avrebbe l’obiettivo di andare incontro alle difficoltà che centinaia di migliaia di imprese dovranno affrontare a seguito delle ultime tornate di rinnovo che ci sono state in moltissimi settori dell’economia italiana.
Occorre infine avanzare sul terreno della misurazione della rappresentatività a partire da quella delle organizzazioni dei lavoratori. In tal modo, anche nel settore privato, per ciascun CCNL, sarà possibile avere il valore effettivo del peso delle organizzazioni sindacali stipulanti i contratti collettivi. Dopodiché, sarà necessario individuare criteri di calcolo della rappresentatività delle organizzazioni dei datori di lavoro: un’attività per la quale è ancora necessario proseguire con l’interlocuzione già avviata dalle Parti Sociali in sede CNEL. I criteri di misurazione devono essere stabiliti all’interno dei settori per valorizzare gli elementi caratterizzanti di ogni singolo contesto: Confcommercio non si è mai sottratta a questo esercizio di misurazione e fin dal 2015 ha sottoscritto importanti accordi interconfederali. Sulla base di quegli accordi, stipulati in ogni settore, dovrebbe essere impostato un eventuale intervento del legislatore anche attraverso un accordo quadro intersettoriale con la supervisione del CNEL che dia dei principi su cui fondare l’intervento.
Un’ulteriore tematica determinante ai fini dell’individuazione della contrattazione collettiva di riferimento per ciascun settore, è quella della perimetrazione settoriale. Al riguardo, proponiamo che, in caso di pluralità di contratti, siglati da organizzazioni sindacali differenti nel medesimo settore, il CCNL di riferimento sia quello stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria merceologico-produttiva interessata. Tuttavia, la questione della perimetrazione si rende più complessa in quei settori dove si sovrappongono contratti collettivi che insistono nel medesimo campo di applicazione, sebbene stipulati da federazioni sindacali afferenti alle medesime confederazioni. In questo ambito, secondo Confcommercio la misurazione della rappresentatività delle confederazioni e associazioni datoriali impone dei criteri di computo più articolati e soprattutto stabiliti dalle Parti Sociali stesse, anziché attraverso l’intervento del legislatore, riprendendo la discussione già avviata tra organizzazioni datoriali e sindacali presso il CNEL.
Una breve e (quanto mai) aperta conclusione
In via conclusiva a nostro parere l’introduzione di un salario minimo per legge non risolverebbe le problematiche del mercato del lavoro italiano legate alle basse dinamiche reddituali e al lavoro povero. Al contrario questo potrebbe costituire un indebolimento della rappresentanza e dei CCNL che, ad oggi, hanno adattato le dinamiche retributive ai singoli contesti produttivi e contestualmente hanno saputo costruire sistemi di welfare in favore dei lavoratori dipendenti cui si applica il contratto collettivo. Riteniamo che il legislatore possa svolgere un ruolo propulsivo per rafforzare e garantire l’integrale applicazione dei CCNL firmati da organizzazioni realmente rappresentative.