TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

Le riforme del mercato del lavoro del 2012 – legge Fornero – e del biennio 2014/15 – Jobs Act – sono da alcuni anni sotto esame da parte del giudice delle leggi che, adito dai giudici del lavoro, sta portando ad evidenza la criticità di alcune previsioni di quegli interventi legislativi rispetto ai valori costituzionali. La frequenza delle decisioni e le soluzioni a cui esse sono pervenute possono restituire l’immagine di una Corte costituzionale che invade gli spazi del legislatore per additare scelte di diritto del lavoro diverse da quelle che gli organi dell’indirizzo politico – la maggioranza del legislatore in funzione delegante e il legislatore delegato – hanno ritenuto di adottare . Se può essere riconosciuto che il funzionamento della nostra forma di governo come «parlamentare con doppia supplenza», ovvero garantita da «entrambi gli organi di garanzia Presidente della Repubblica e Corte costituzionale» , sia un dato di realtà, tuttavia la vicenda della giurisprudenza, relativa alla normativa che ha cambiato il sistema delle tutele nel lavoro e introdotto nell’ordinamento le categorie tipiche della c.d. flexicurity, può essere esplorata in diversa prospettiva.
Il profilo che merita attenzione è quello della discrezionalità: nelle decisioni che si sono susseguite la Corte ripetutamente ha dovuto affrontare il nodo della valutazione discrezionale del giudice e delle scelte discrezionali del legislatore, ed è approdata a esiti che hanno suscitato dibattito e che hanno sollevato riserve, ma che complessivamente attestano come la materie delle tutele dei lavoratori in caso di licenziamento ricadano nella ampia e indefinita sfera di due discrezionalità, che in taluni casi sembrano incrociarsi; in altre circostanze appaiono piuttosto operare in alternativa l’una dell’altra. Le sentenze di cui ora si effettua una panoramica, che necessariamente è del tutto essenziale, si muovono all’interno di questo perimetro, valorizzando molto spesso la figura del giudice e fermandosi sempre davanti alla discrezionalità del legislatore, che tuttavia viene costantemente richiamato al rispetto dei principi costituzionali e della particolare protezione che la Carta fondamentale accorda al lavoratore.
Indubbiamente il recupero del ruolo del giudice emerge come opzione predominante dalle pronunce della Corte costituzionale sul c.d. Jobs Act, e sul d. lgs. 4 marzo 2015, n. 23 recante Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183; ma anche sulla precedente l. 28 giugno 2012, n. 92 recante Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita. L’attenzione al ruolo del giudice – non sempre e comunque rafforzato nelle sue attribuzioni, ma talvolta anche ridimensionato – risulta ricorrente e, a parere di chi scrive, prevalente rispetto ad un supposto intervento di interferenza nei confronti della volontà del legislatore, che si vede al contrario – e ripetutamente – riconosciuta ampia discrezionalità. Invero tale attenzione ai giudici ordinari si prospetta come un’attitudine opportuna da parte del giudice costituzionale – opportuna se non addirittura necessaria – se si considera che esattamente l’indirizzo di segno opposto è risultato essere uno degli esiti meno apprezzabili della stagione delle riforme richiamate.
Proprio a partire dalla sent. n. 194/2018 è riconoscibile tale richiamo alla funzione che il giudice ordinario è chiamato a garantire. In quel giudizio il bersaglio delle censure relativa all’art. 3 del d.lgs. n. 23/2015 è stato il meccanismo di licenziamento caratterizzato da automatismo, tale per cui al giudice non veniva lasciato alcun margine discrezionale nella determinazione del valore del risarcimento, che discendeva dall’unico parametro dell’anzianità di servizio. Nonostante tale decisione abbia giudicato severamente la logica dell’automatismo, nessuno scostamento da tale modello si è poi compiuto per effetto del successivo d. l. n. 87/2018 – il c.d «decreto dignità» – che, nell’innalzare le soglie, le ha tuttavia mantenute nella sfera di fissazione del solo legislatore.
La successiva sent. n. 150/2020 ha preso le mosse dalla premessa che vada effettuato un equilibrato contemperamento tra i diversi interessi in gioco: la Corte è così pervenuta a dichiarare incostituzionale l’art. 4, d.lgs. n. 23/2015 per il risultato generato da un meccanismo rigido, che determina la disuguaglianza di trattamento dei lavoratori. Il giudice costituzionale ha in quell’occasione proceduto ad additare altri fattori, che possono e devono entrare nel calcolo dell’indennità: anzitutto le violazioni ascrivibili al datore di lavoro possono presentare differenti livelli di gravità; in aggiunta il numero degli occupati, le dimensioni dell’impresa, il comportamento e le condizioni delle parti. Ciò che si è evidenziato è stata la mancata previsione di questi ed ulteriori elementi, che sono da mettere a disposizione del giudice per commisurare il risarcimento del danno subito dal lavoratore: si è fissato il criterio secondo cui il criterio dell’anzianità, a cui la legislazione del 2015 ha collegato dei limiti minimo e massimo di risarcimento monetario, può operare solo come base di partenza della valutazione, a cui deve aggiungersi un apprezzamento della situazione concreta, caratterizzata da elementi specifici, che solo in sede giudiziale può essere effettuata .
Il ripristino dell’intervento del giudice è del resto segnalato anche da altro elemento. Le due decisioni richiamate si collocano nel filone giurisprudenziale che si è occupato dei casi dei c.d. «automatismi legislativi»: situazione determinata, con le parole della Corte, da «un’indebita omologazione di situazioni che possono essere – e sono, nell’esperienza concreta – diverse», secondo quanto sostenuto nella sent. n. 7/2013. La censura del giudice costituzionale ha spesso condotto, per decisioni di questa tipologia, a sentenze additive: apparentemente questa del 2020 non risulta tale , presentandosi come un semplice accoglimento, ma è pur vero che la circostanza di rimettere la determinazione dell’indennità alla «valutazione concreta del giudice» al posto dell’«irragionevole automatismo legale» può portare ad una diversa lettura e collocazione. Già la sent. n. 194/2018 aveva operato in maniera innovativa rispetto alle altre decisioni in materia di automatismi: essa, infatti, non concedeva al giudice la possibilità di non applicare una regola, ma introduceva un elemento di discrezionalità nella determinazione dell’indennizzo che la regola predeterminava interamente . Identica situazione è quella della decisione successiva, che affida al giudice l’utilizzo delle soglie in associazione ad altri criteri, che tuttavia la Consulta non si sbilancia a stabilire in maniera vincolante.
Il pregio principale delle due sentenze del 2018 e del 2020 è dunque stato quello di ripristinare una funzione della giurisprudenza lavoristica che, in qualche misura, può rendere le tutele nel caso dei licenziamenti più conformi alla qualità della protezione dei lavoratori che la Costituzione pretende. Come è stato sostenuto, si è finalmente superato il «rozzo meccanismo di quantificazione automatica dell’indennità risarcitoria che nell’impianto del Jobs Act, non corretto su tale cruciale profilo dal “decreto dignità”, pretendeva di ridurre il giudice, in una singolare miscela di legolatria neoilluministica e di pedagogia da law & economics a prezzi di ribasso, ad un contabile, più che alla bouche de la loi di montesquieuana memoria» : cosicché «è ora compito della giurisprudenza riappropriarsi del potere di calibrare il risarcimento in base alla effettiva gravità che la perdita del lavoro comporta, garantendo anche la necessaria efficacia dissuasiva che la sanzione della illegittimità deve avere per evitare che il lavoratore ripieghi nella rinuncia ai diritti, il che equivarrebbe a tradire il ruolo fondamentale che la nostra Costituzione assegna al lavoro» . Si è così ottenuta un’attenuazione del sistema delle «tutele crescenti» che, pur rimanendo affidato a soglie individuate rigidamente dal legislatore, ha potuto da quel momento essere declinato discrezionalmente dal magistrato, che non è tenuto ad applicare esclusivamente il criterio dell’anzianità di servizio per parametrare l’indennità a risarcimento della violazione del diritto.
Anche la sent. n. 59/2021 ruota intorno alla tutela del lavoratore ad opera del giudice del lavoro. In quel caso è stato sottoposto a questione di legittimità costituzionale l’art. 18, co. 7, secondo periodo, l. n. 300/1970, per il fatto di non prevedere un intervento «dovuto» del giudice, allorché questi accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Alla Corte si è rivolto l’interrogativo se la reintegrazione del lavoratore non sia obbligata, piuttosto che solo una possibilità nel giudizio del magistrato del lavoro. La Corte ha in questo caso ravvisato una violazione del principio di eguaglianza, dal momento che «una facoltà discrezionale di concedere o negare la reintegrazione» espone i lavoratori a trattamenti ingiustificatamente differenziati a fronte «delle valutazioni discrezionali del legislatore, quanto alla scelta dei tempi e dei modi della tutela, anche in ragione della diversa gravità dei vizi e di altri elementi oggettivamente apprezzabili come, per esempio, le dimensioni dell’impresa». La decisione ha fatto salva la discrezionalità del legislatore, che è chiamato sì a rispettare i princìpi di eguaglianza e di ragionevolezza nell’apprestare le garanzie necessarie a tutelare la persona del lavoratore: beneficiando, tuttavia, di un ampio margine di apprezzamento. Tanto è vero che si ammette che esso possa discrezionalmente prevedere una risposta sanzionatoria omogenea, pur in presenza di cause assai eterogenee, quali una condotta di rilievo disciplinare addebitata al lavoratore da una parte, o una decisione organizzativa del datore di lavoro dall’altra. La Consulta arriva a sancire che «in un sistema che, per consapevole scelta del legislatore, annette rilievo al presupposto comune dell’insussistenza del fatto e a questo presupposto collega l’applicazione della tutela reintegratoria, si rivela disarmonico e lesivo del principio di eguaglianza il carattere facoltativo del rimedio della reintegrazione per i soli licenziamenti economici» e così facendo accetta la discrezionalità del legislatore e rifiuta una diversificazione quanto alla obbligatorietà o facoltatività della reintegrazione. La Corte prende atto della «disarmonia interna a un sistema di tutele (…) che conduce a ulteriori e ingiustificate disparità di trattamento» e condivide l’opinione del rimettente che la norma impugnata sia «in bianco» perché «del tutto priva di criteri applicativi» idonei a orientare il potere discrezionale di disporre o meno la reintegrazione . Pretende dunque che l’equilibrio del sistema di tutele si fondi non solo sulla discrezionalità del giudice, che pure riveste un ruolo cruciale, affinché gli sia «restituito un essenziale potere di valutazione delle particolarità del caso concreto»; bensì che il medesimo giudice, soprattutto in assenza di indicazioni oggettive, ma solo a fronte di fattori contingenti, proceda in maniera vincolata alla più incisiva tutela reintegratoria piuttosto che una meramente indennitaria. Come è stato segnalato, la Corte sembra allontanarsi dalla strada fino allora percorsa: «è curioso osservare come la discrezionalità del giudice, valorizzata e ripristinata in pieno nelle due sentenze relative al Jobs act, subisca oggi una sorte inversa» .

Tale indirizzo è confermato dalla sent. n. 125/2022 che riprende la tutela reintegratoria non più facoltativa laddove sia manifesta l’insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento. Ribadendo il diritto del lavoratore di non essere ingiustamente licenziato in ragione degli artt. 4 e 35 Cost. e della speciale tutela riconosciuta al lavoro in tutte le sue forme e applicazioni, in quanto fondamento dell’ordinamento repubblicano, la decisione nuovamente fa salve le valutazioni discrezionali del legislatore, chiamato sì ad apprestare un equilibrato sistema di tutele ma sulla base di un ampio margine di apprezzamento, che risulta vincolato solo al rispetto dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza: tanto è vero che si continua ad ammettere la diversità dei rimedi previsti dalla legge tra i quali la reintegrazione non costituisce «l’unico possibile paradigma attuativo» dei principi costituzionali, come sostenuto a partire dalla sent. n. 46/2000. In questa prospettiva di nuovo la Corte dichiara «essenziale» il compito del giudice, che è «chiamato a ponderare la particolarità di ogni vicenda e a individuare di volta in volta la tutela più efficace, sulla base delle indispensabili indicazioni fornite dalla legge». Ma nel sistema delineato dalla legge Fornero la reintegrazione, sia per i licenziamenti disciplinari sia per quelli economici, si incardina sulla nozione di insussistenza del fatto; ed è dunque connessa all’argomentazione del datore di lavoro tesa a dimostrare i presupposti, che discendono dalle proprie scelte organizzative. Il nesso causale tra tali scelte organizzative del datore di lavoro e il recesso dal contratto viene sottratto alla discrezionalità del giudice del lavoro, a cui il giudice delle leggi riconosce una valutazione di mera legittimità , che non può «sconfinare in un sindacato di congruità e di opportunità», come già statuito dalla sent. n. 59/2021.
Si arriva poi alle decisioni del 2024.
Nella sent. n. 7/2024 torna il ragionamento sulla discrezionalità del legislatore. Il giudice dichiara che «appartiene alle scelte di politica sociale, rientranti nella discrezionalità del legislatore fissare il sistema di contrasto dei licenziamenti illegittimi nella gamma di quelli che, pur in misura diversa e con differente incisività, rispondono tutti, nel loro complesso, al canone costituzionale di adeguatezza e sufficiente dissuasività». E ulteriormente si spende a difesa di tale discrezionalità, argomentando che circa «i meccanismi di tutela del lavoratore nel caso di licenziamento illegittimo, la stessa giurisprudenza ha valorizzato la discrezionalità del legislatore in materia, evidenziando che quello della tutela reale non costituisce l’unico paradigma possibile»; e che i principi che si traggono dall’art. 4 Cost. «esprimono l’esigenza di un contenimento della libertà del recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro, e quindi dell’ampliamento della tutela del lavoratore, quanto alla conservazione del posto di lavoro» ma che «[l]’attuazione di questi principi resta tuttavia affidata alla discrezionalità del legislatore ordinario, quanto alla scelta dei tempi e dei modi, in rapporto ovviamente alla situazione economica generale».
Di nuovo si invoca un corretto esercizio della discrezionalità del legislatore nella sent. n. 22/2024, che dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, co. 1, d.lgs. n. 23/2015, limitatamente alla parola «espressamente». L’avverbio aveva la capacità di limitare la tutela reintegratoria ai casi di nullità «espressamente previsti dalla legge», violando in tal modo la legge di delega del 2014 che invece aveva prospettato un’applicazione più ampia del diritto alla reintegrazione. La pronuncia si chiude con il rinnovato appello «alla responsabilità del legislatore, anche alla luce delle indicazioni enunciate in più occasioni da questa Corte, di ricomporre secondo linee coerenti una normativa di importanza essenziale, che vede concorrere discipline eterogenee, frutto dell’avvicendarsi di interventi frammentari». La discrezionalità, che non può non riconoscersi al Parlamento, non rende superfluo il richiamo ad un impegno di ricomposizione coerente di un quadro legislativo, che è fonte di tante criticità e interrogativi.
Le ultime due decisioni – le sentt. n. 128 e 129 – si muovono ancora una volta all’interno di questo ambito - più o meno vincolato – della discrezionalità del legislatore e del magistrato.
Nella prima delle due pronunce sembra che sia avallata la discrezionalità del legislatore «sempre che essa appronti una tutela adeguata e sufficientemente dissuasiva del recesso acausale e, più in generale, del licenziamento privo di giusta causa o di giustificato motivo». Ma il giudice supremo interviene poi a circoscrive tale spazio di libera scelta, allorché rifiuta che la discrezionalità del legislatore si possa estendere fino a consentire di rimettere l’alternativa tra la tutela reintegratoria o quella solo indennitaria «ad una scelta del datore di lavoro» che, dopo avere disposto un licenziamento fondato su un fatto insussistente, possa qualificarlo liberamente come licenziamento per giustificato motivo oggettivo piuttosto che come licenziamento disciplinare. Il giudice delle leggi pretende che la garanzia per il lavoratore illegittimamente licenziato sia la medesima, ovvero la tutela reintegratoria attenuata. In sostanza, vengono respinte formule di evidente asimmetria, che portino al disallineamento di fattispecie, che meritano al contrario identico trattamento.
Del giudice del lavoro si riafferma la sola competenza in termini di scrutinio di legittimità, escludendosi che sia «sindacabile dal giudice la ragione d’impresa posta a fondamento del giustificato motivo oggettivo di licenziamento”. Questa rientra evidentemente nelle valutazioni economiche che spettano al datore di lavoro: tuttavia tale circostanza «presuppone che il “fatto materiale” allegato dal datore di lavoro sia “sussistente”» quale potrebbe essere la soppressione di una posizione di lavoro; mentre appartiene alle «valutazioni tecniche, organizzative e produttive» la ragione economica per cui il posto è stato eliminato, come già emerso dalla sent. n. 125/2022.
La seconda di queste due decisioni, la sent. n. 129, riprende le argomentazioni delle varie pronunce qui richiamate, ma presenta peculiare profilo di interesse perché risolve in maniera diversa i dubbi di illegittimità sollevati rispetto all’art. 3, co. 2, d. lgs. n. 23/2015. Non perviene ad una dichiarazione di incostituzionalità, che meriterebbe la questione che viene sottoposta a giudizio: la mancata previsione che il giudice annulli il licenziamento, con le conseguenze già previste per l’ipotesi dell’insussistenza del fatto (tra cui il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro), nel caso in cui il fatto contestato, in base alle previsioni della contrattazione collettiva applicabile al rapporto, sia punibile solo con sanzioni di natura conservativa non viene censurata proprio per la circostanza che i contratti collettivi già offrono adeguato rimedio. La legge Fornero del 2012 accorda, infatti, la tutela reintegratoria attenuata anche alle condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, e permette dunque di attingere a queste fonti del diritto privato per assicurare tutele omogenee. Nella decisione si argomenta che la rilevanza assegnata «alle previsioni dei contratti collettivi non solo è coerente con la generale operatività del principio di proporzionalità, ma anche implica che il contenuto dello stesso possa essere declinato dalla contrattazione collettiva e che il giudice debba tenerne conto, con la conseguenza che la violazione di quest’ultima comporta, per il lavoratore illegittimamente licenziato, la tutela reintegratoria attenuata». Il giudice può dunque attingere alle previsioni dei contratti collettivi, ed evidentemente tale indicazione inserisce un elemento a sé nel quadro che si è fin qui composto, aggiungendo alle posizioni del giudice e del legislatore quella delle parti sociali.
Pare poco utile, arrivati a questo punto del ragionamento, anche solo tentare di prendere posizione rispetto al supposto contrapporsi di chi ritiene che sia in atto «lo “smantellamento” [...] dell’opera di riforma della disciplina dei licenziamenti avviata dal legislatore nel 2012» che dimostrerebbe l’«anima politica» della Corte, a danno della manifestazione di quella ortodossa, ovvero squisitamente giurisdizionale ; e chi invece non avverte smarrimento di fronte alla giurisprudenza della Corte. Poco utile perché, come si è provato ad evidenziare, il giudice delle leggi non ha dimostrato una pregiudiziale avversità verso le riforme del mercato del lavoro e ha cercato – pur forse con passaggi non sempre lineari – di «tenere in gioco» i due attori che appaiono in prima linea nelle dinamiche molto deteriorate delle relazioni industriali: riconoscendo sia al legislatore che al giudice i necessari e dovuti spazi di discrezionalità, per operare scelte politiche che tengono insieme obiettivi occupazionali, esigenze degli operatori economici e salvaguardia dei diritti dei lavoratori, per quanto riguarda il primo soggetto istituzionale; per garantire giustizia e legalità nei rapporti di lavoro, per quanto riguarda il secondo riferimento istituzionale. Del resto, una vicenda parallela – anche se per nulla uguale, sempre in materia di lavoro e dei diritti ad esso collegati – è quella che sta riguardando la questione del salario parametrato all’art. 36 Cost., su cui la Corte costituzionale non ha avuto modo di pronunciarsi da quando – nell’ultimo decennio – una serie di attori sono stati chiamati in causa per individuare la retribuzione più consona alla dignità del lavoratore. La domanda che ci si è posti è se la determinazione del salario adeguato spetti alla contrattazione collettiva, al legislatore o al giudice, sulla spinta delle iniziative volte a introdurre un salario minimo legale. Anche su questo terreno negli anni più recenti tanto la discrezionalità del legislatore quanto quella del giudice del lavoro sono state invocate , affinché rimediassero le carenze ormai evidenti della contrattazione delle parti sociali. Il giudice delle leggi potrebbe a breve doversi esprimere anche a tale riguardo, ed è immaginabile che il ruolo che esso potrebbe scegliere di giocare sarebbe di richiamare giudice e legislatore a salvaguardare semplicemente «i principi enunciati dagli artt. 4 e 35 Cost. e la speciale tutela riconosciuta al lavoro in tutte le sue forme e applicazioni, in quanto fondamento dell’ordinamento repubblicano (art. 1 Cost.)» , come raccomandato dalla sent. n. 125/2022.
La parola conclusiva è che, nell’intreccio di decisioni concernenti la disciplina legislativa del licenziamento, soprattutto la seguente preoccupazione si è ravvisata e si posta all’attenzione generale: di garantire il rispetto del bene costituzionale a partire dal quale è edificata la Repubblica.

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