TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

(Il presente contributo è stato già pubblicato sulla rivista “Il Lavoro nella giurisprudenza” n. 3/2024 della Wolters Kluvers, che si ringrazia per la concessione al suo inserimento nel focus LDE).

A) La normativa sul lavoro eterorganizzato.

Il lavoro eterorganizzato è stato introdotto con il decreto legislativo n. 81/15, con l’abrogazione dell'istituto del lavoro a progetto di cui agli articoli 61 e ss. del dlgs. n. 276/03 e con permanenza nel nostro ordinamento delle collaborazioni coordinate e continuative ex articolo 409, n. 3, cpc, come si desume dall'articolo 52 della medesima novella.
Si può rammentare che l'articolo 2 del dlgs. n. 81/2015, nella sua prima versione, sotto la rubrica “collaborazioni organizzate dal committente”, stabilisse, al comma 1, che

“a far data dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalita' di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”.

Nel comma 2, dell’art. 2, poi, si sono poste le c.d. “fattispecie escluse”, ossia ipotesi per le quali la disposizione di cui al comma 1 non trova applicazione.
Tra queste spicca quella di cui alla lett. a), relativa “alle collaborazioni per le quali gli accordi collettivi nazionali stipulati da associazioni sindacali comparativamente piu' rappresentative sul piano nazionale prevedono discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo, in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative del relativo settore”.
Poi, in seguito alla novella dell’art. 1 del DL n. 101/19, la norma si è presentata nei seguenti termini, con l'abrogazione delle parole “anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”, con la sostituzione dell'avverbio “esclusivamente” con quello “prevalentemente” e con il chiarimento dell'applicabilità della norma anche al “lavoro su piattaforma”:

“a far data dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro prevalentemente personali, continuative e le cui modalita' di esecuzione sono organizzate dal committente. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche qualora le modalita' di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali”.

L'ultima modifica in parola, peraltro, ha pure introdotto il capo V bis del decreto delegato con gli articoli 47 bis e ss. del dlgs. 81 del 2015 per la Tutela del lavoro tramite piattaforme digitali , con nuove norme che pongono il problema del loro coordinamento con l'articolo 2, ma si può già qui anticipare che appaiono destinate esclusivamente ai lavoratori “puramente autonomi”, come si desume, peraltro, dal suo stesso tenore letterale che pone la disciplina proprio “per i lavoratori autonomi che svolgono attivita' di consegna di beni per conto altrui” .

B) Le diverse tesi dottrinali.

Sin dalla prima versione della norma, è nato, nella dottrina, il dibattito circa il suo corretto inquadramento.
Infatti, poiché l’art. 2 afferma l'applicazione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione personale, continuativa e eterorganizzati, pone il dubbio se il legislatore, così statuendo, abbia inteso allargare o meno l'ambito della fattispecie della subordinazione .
Senza pretesa di esaustività, a titolo esemplificativo, si possono rappresentare in questi termini alcune delle posizioni più rilevanti nel dibattito.
I) A fronte di chi nega la sostanziale rilevanza della norma, sostenendone la mera “apparenza” , vi è l'interpretazione per cui la stessa si colloca, comunque, nell'ambito del lavoro subordinato . In particolare, più che una presunzione assoluta di subordinazione e quindi una qualificazione imperativa del rapporto autonomo come subordinato, si tratterebbe di un “indicatore legale” della natura effettivamente subordinata della prestazione lavorativa e perciò di un criterio di qualificazione della fattispecie.
La eterorganizzazione di cui al comma primo sarebbe così solo “un modo di essere” della subordinazione e la nuova norma avrebbe una duplice funzione. Da un lato, di specificazione della definizione di subordinazione contenuta nell’art. 2094 c.c.; dall’altro di delimitazione dell’area delle collaborazioni autonome previste dall’art. 409 n. 3 c.p.c., che l’art. 52, co. 2, del medesimo decreto delegato fa espressamente salve .
II) Secondo un'ulteriore tesi, invece, la norma in esame finisce solo per positivizzare una serie di indici elaborati dalla giurisprudenza per la qualificazione del rapporto di lavoro subordinato, sussidiari rispetto al potere direttivo .
III) Secondo, poi, altra soluzione esegetica , l'art. 2 è, invece, da collocarsi nel lavoro autonomo ed avrebbe una funzione antielusiva, ma non un effetto punitivo nell'applicazione della normativa del lavoro subordinato a particolari collaboratori organizzati dal committente. Non vi sarebbe, ad ogni modo, una integrale possibilità di estensione della disciplina attinente ai rapporti ex articolo 2094 cc, risultando applicabile solo quella riferita ai trattamenti economici e normativi e non quella previdenziale.
IV) Vi è, poi, chi pone il nuovo istituto nell'ambito delle collaborazioni continuative parasubordinate , prendendo atto, da una parte, che l’art. 2094 c.c. non viene toccato e, d’altra parte, che il legislatore delegato non qualifica questi contratti come di lavoro subordinato, ma di essi dichiara doversi solo applicare la disciplina.
V) Ancora, è stata proposta la via la tesi del tertium genus tra subordinazione e lavoro autonomo (cioè, come se il legislatore avesse costituito una nuova fattispecie), fatta propria anche dalla Corte d'appello di Torino in un'importante sentenza .
Quanto alle conseguenze delle diverse impostazioni, chi sostiene la tesi del lavoro subordinato ipotizza sostanzialmente l'inutilità della norma, qualora si ritenesse che nulla è mutato. In alternativa, si afferma che è stata integrata l'area della subordinazione, con un suo ampliamento.
Altri, sempre nell'ambito dell'inquadramento del lavoro subordinato, suppone che il legislatore abbia solo codificato gli indici della subordinazione, con l'effetto di ridurre la discrezionalità del giudice nella valutazione di merito.
Tuttavia, ogni tesi che porta al riconoscimento nella norma di un'ipotesi di subordinazione trova l'ostacolo del fatto che la disposizione in parola, tra le fattispecie escluse, pone la possibilità per i contratti collettivi di derogare alle norme di legge sul lavoro subordinato, cosicché vi sarebbe un'ulteriore previsione, dopo l'articolo 8 della legge n. 138/10, che viene a consentire la deroga suddetta in termini molto generali.
Inoltre, si rileva che, accedendo a un'impostazione di inquadramento nell'ambito del lavoro ex art. 2094 cc, le fattispecie escluse, di fatto, verrebbero sottratte a un riconoscimento di subordinazione, con violazione del principio dell'indisponibilità del tipo ed eventuali conseguenti problemi di costituzionalità.
Simili questioni, viceversa, evidentemente, non si pongono per la diversa soluzione dell'inquadramento della nuova figura giuridica nell'ambito delle collaborazioni continuative (organizzate dal committente e non coordinate), con solo un'applicazione della disciplina del lavoro subordinato, poiché in tal caso si rimarrebbe nell'ambito di un lavoro autonomo con solo una estensione delle tutele poste per il lavoro eterodiretto.

C) L'interpretazione della Corte di cassazione.

Pur essendo, dunque, note le problematicità interpretative della statuizione, occorre rilevare come, con riguardo alla stessa, si sia pronunciata la Corte di cassazione, con l’importante sentenza n. 1663 del 2020, nella quale è stato illustrato il nuovo istituto, nei suoi paragrafi da 22 in avanti, con passaggi che si possono così, schematicamente, sintetizzare:

1. le previsioni dell'art. 2 vanno lette unitamente all'art. 52 dello stesso decreto e in rapporto alla abrogazione della normativa sul lavoro a progetto, con l'introduzione, quindi, di una nuova previsione di tutela di quelle collaborazioni che subiscano l'ingerenza funzionale dell'organizzazione predisposta unilateralmente da chi commissiona la prestazione.
2. Il legislatore si è limitato a valorizzare taluni indici fattuali ritenuti significativi (personalità, continuità, etero-organizzazione) e sufficienti a giustificare l'applicazione della disciplina dettata per il rapporto di lavoro subordinato, esonerando da ogni ulteriore indagine il giudice che ravvisi la concorrenza di tali elementi e senza che questi possa trarre, nell'apprezzamento di essi, un diverso convincimento nel giudizio qualificatorio.
3. Non ha decisivo senso interrogarsi sul se tali forme di collaborazione, così connotate e di volta in volta offerte dalla realtà economica in rapida e costante evoluzione, siano collocabili nel campo della subordinazione ovvero dell'autonomia e la norma si spiega in una ottica sia di prevenzione, sia "rimediale". Non ritiene si tratti di un tertium genus tra autonomia e subordinazione.
4. Ha stabilito che quando l'etero-organizzazione, accompagnata dalla personalità e dalla continuità della prestazione, è marcata al punto da rendere il collaboratore comparabile ad un lavoratore dipendente, si impone una protezione equivalente per tutelare prestatori in condizione di "debolezza" economica, operanti in una "zona grigia" tra autonomia e subordinazione.
5. Il DL n. 101/19 ha avuto lo scopo di rendere più facile l'applicazione della disciplina del lavoro subordinato, con le sue modifiche nella previsione.
6. La norma introduce la nozione di “eterorganizzazione”, con differenza rispetto ad un “coordinamento” stabilito di comune accordo dalle parti ex articolo 409, n. 3, cpc, che, invece, nella norma in esame, è imposto dall'esterno.
7. Tali differenze illustrano un regime di autonomia ben diverso, significativamente ridotto nella fattispecie dell'art. 2 d.lgs. n. 81 del 2015: integro nella fase genetica dell'accordo (per la rilevata facoltà del lavoratore ad obbligarsi o meno alla prestazione), ma non nella fase funzionale, di esecuzione del rapporto, relativamente alle modalità di prestazione (nel caso dei riders oggetto di quel giudizio determinate in modo sostanziale da una piattaforma multimediale e da un applicativo per smartphone).
8. Il riferimento ai tempi e al luogo di lavoro di cui alla prima versione dell'articolo 2, esprime solo una possibile estrinsecazione del potere di etero-organizzazione, con la parola "anche" che assume valore esemplificativo.
9. Si tratta di una “norma di disciplina”, che non crea una nuova fattispecie e non seleziona la disciplina del lavoro eterodiretto applicabile. Non avendo il legislatore precisato quali parti della disciplina della subordinazione debbano essere estese, occorre fare applicazione integrale della normativa del lavoro subordinato, salvo il limite di una verifica di incompatibilità.
Dunque, secondo l'interpretazione della Corte di cassazione, si tratta di una “norma di disciplina”, posta in un collegamento con l'articolo 52 dello stesso decreto delegato e volta a tutelare dei prestatori di lavoro, che, pur nell'ambito di un rapporto ex articolo 409, n. 3, cpc, si trovino in una situazione di particolare debolezza, poiché la loro prestazione, comunque di tipo personale e continuativo, risulta eterorganizzata dal preponente (e non l'effetto di un accordo per la coordinazione degli apporti tra le parti).

D) L'inquadramento dell’art. 2 nell’ambito delle collaborazioni continuative ex articolo 409 n. 3, cpc.

Invero, tuttavia, la tesi per cui si dovrebbe riconoscere nell'articolo 2 una “norma di disciplina” è stata criticata da parte della dottrina, sul rilievo che la disposizione privatistica “delinea, per definizione, una fattispecie, cui ricollega determinati effetti in termini di disciplina applicabile” .
Sicché, si dovrebbe rinvenire, in tale nuova previsione, pur sempre e comunque una fattispecie.
Ad ogni modo, anche accettando la qualificazione della norma come “di disciplina”, resta che gli effetti previsti dalla stessa conseguono al verificarsi dei suoi presupposti, che, dunque, debbono essere individuati nel presente elaborato.
Come si è anticipato, la Suprema Corte, nella propria motivazione, non ha ritenuto necessario inquadrare il nuovo istituto nell'ambito dell'autonomia o della subordinazione (cfr. il par. 24 della sentenza citata).
Per le parole utilizzate dalla stessa, nonché per il contenuto dell'articolo 2, pare, tuttavia, che si debba condividere la tesi di chi pone la disposizione nell'area del lavoro autonomo e, in particolare, in quello delle collaborazioni continuative ex articolo 409 n. 3, cpc, di cui nella figura in esame si richiamano tutti i caratteri, salvo la coordinazione, sostituita con la eterorganizzazione.
Si tratta, cioè, di collaborazioni continuative non coordinate, ma eterorganizzate, nel senso che, in luogo della coordinazione, si pone l'elemento dell'eterorganizzazione.
Si deve allora evidenziare la distinzione tra tali requisiti giuridici, nel senso che il “coordinamento” nelle modalità organizzative tra le parti di cui alle collaborazioni coordinate e continuative ex articolo 409 cpc è stabilito di comune accordo dalle stesse, mentre l'eterorganizzazione presuppone un'ingerenza unilaterale del preponente che, perché si applichi l'articolo 2 del decreto legislativo n. 81/15, è “imposta dall'esterno”, con, per l'appunto, il risultato del lavoro eterorganizzato dal preponente .
Come ancora chiarito dalla Suprema Corte, infatti, tali differenze illustrano un regime di autonomia ben diverso, significativamente ridotto nella fattispecie dell'art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015: integro solo nella fase genetica dell'accordo (per la rilevata facoltà del lavoratore di obbligarsi o meno alla prestazione), ma non nella fase funzionale, di esecuzione del rapporto, connotata da una organizzazione delle modalità operative dettata dal preponente.
Si tratteggia così l'elemento più importante della nuova figura giuridica nel senso che l'eterorganizzazione consente ancora un'autonomia nella fase genetica, permettendo al lavoratore di decidere se e quando lavorare, ma, una volta che abbia optato per l'esecuzione della prestazione, non gli consente di autodeterminarsi in autonomia, restando, nella fase funzionale, assoggettato a modalità operative imposte dal committente.
Tale ultimo requisito, che si desume anche dalla rubrica dell’art. 2, intitolato “collaborazioni organizzate dal committente”, vale anche, poi, a distinguere la novella in esame dalla differente di cui agli artt. 47 bis e ss. del medesimo decreto delegato, destinata però solo ai lavoratori puramente autonomi.
Infatti, l'articolo 47 bis del decreto legislativo n. 81 del 2015 è introdotto dalla clausola di riserva “fatto salvo quanto previsto dall'articolo 2”, che viene a chiarire come la disciplina prevista dal medesimo non possa trovare applicazione per le fattispecie già regolate dal precedente art. 2, attinente al lavoro eterorganizzato.
La menzionata clausola di riserva, unita alla constatazione che caratteristica dell'articolo 2 sono le modalità organizzative imposte dal preponente nella fase esecutiva, permette, dunque, di comprendere che le tutele minime dell’art. 47 bis e ss. si indirizzano, perciò, all'opposto, a quei lavoratori che si gestiscano, nella fase funzionale, in regime di autentica autonomia e senza vincolo alcuno “imposto” per il proprio schema organizzativo, operando in piena libertà quanto a modi, tempi e disponibilità del servizio. Del resto, l'articolo 47 bis, anche dal lato letterale, viene a enunciare livelli minimi di tutela proprio “per i lavoratori autonomi”.
Sicchè, il dlgs. n. 81/15 distingue la figura del lavoro eterorganizzato per l’ingerenza del proponente nelle modalità organizzativa della prestazione, rispetto a quello autonomo o semplicemente coordinato e continuativo (ex art. 409, n. 3, cpc) realizzato tramite piattaforma ex articolo 47 bis cit., in cui difettano i requisiti per l’attuazione dell’art. 2.
Quindi, solo qualora il lavoratore su piattaforma non sia qualificato come lavoratore subordinato ex art. 2094 c.c. o eterorganizzato ex art. 2 del dlgs. n. 81/2015, gli si applicano le disposizioni di cui al Capo V bis.
Con ciò, si può ben comprendere, a tal punto, anche la ratio legis del nuovo istituto, perché l'estensione integrale della disciplina del lavoro subordinato (salva verifica di compatibilità) per i collaboratori di cui all’art. 2 si giustifica in ragione del coordinamento esterno e unilateralmente imposto dal committente al lavoratore, che, per svolgere la prestazione, è obbligato ad adeguarsi alla organizzazione del primo, rendendolo così in condizione di debolezza e assimilabile, quanto alle esigenze di protezione lavoristica e previdenziale, al lavoratore dipendente.

E) Gli ulteriori elementi di cui all'articolo 409, n. 3, cpc.

Si possono, poi, evidenziare, quali siano gli ulteriori presupposti, oltre alla eterorganizzazione, per l'integrazione della figura di cui all'articolo 2 del decreto legislativo n. 81/15.
a) Innanzitutto, deve sussistere la “natura personale” della prestazione, che è ravvisabile in caso di prevalenza del lavoro del prestatore d’opera, sia sull’attività svolta dai suoi collaboratori, sia sull’utilizzazione di strutture e mezzi.
Costituisce, infatti, orientamento tradizionale quello per cui, nell'ambito dei rapporti ex articolo 409, n. 3, cpc, la “personalità” si ha “in caso di prevalenza del lavoro personale del preposto sull'opera svolta dai collaboratori e sull'utilizzazione di una struttura di natura materiale” .
Sempre per la stessa giurisprudenza di legittimità, quindi, tale carattere è, invece, da escludere quando il collaboratore abbia trattato la propria attività con criteri imprenditoriali, tali da far concludere che egli si limiti ad organizzare e a dirigere i suoi collaboratori, non realizzando una collaborazione meramente ausiliaria dell'attività altrui, ma gestendo “un'impresa autonoma propria” .
Dunque, il carattere meramente personale della prestazione si contrappone a una gestione imprenditoriale dell'attività con organizzazione di mezzi e persone.
Perciò, per verificare la natura personale della prestazione, non si deve fare un confronto con i mezzi del preponente, quanto, piuttosto, tra il lavoro del prestatore d’opera e l’attività svolta dai suoi collaboratori o le strutture e i mezzi di cui fruisca.
Così, ad esempio, nel lavoro tramite piattaforme, perché sussista questo requisito, non si deve fare un paragone con il suddetto applicativo di proprietà della preponente, quanto piuttosto tra il lavoro personale del singolo operatore e i mezzi da questi impiegati .
Appare utile, poi, a tal punto, aggiungere come non paia assumere particolare importanza la distinzione che vi è stata, con riguardo a tale elemento, nella prima versione dell'articolo 2 del dlgs. n. 81/15 e in quella successiva al DL n. 101/19, con la sostituzione dell'avverbio “esclusivamente” con la parola “prevalentemente”.
Infatti, appare che anche la prima impostazione della disposizione con il termine “esclusivamente” non potesse richiedere che il prestatore fosse totalmente privo di ogni proprio bene d'uso per rendere l'attività, ma solo che tali attrezzature non fossero particolarmente significative.
Altrimenti, qualora così non si interpretasse la norma, si giungerebbe a una conclusione irragionevole, poiché un'attività, come ad esempio quella di un rider che fosse organizzato dal preponente nell'esecuzione, sarebbe da considerarsi “esclusivamente personale” con la possibile tutela della normativa del lavoro subordinato ex articolo 2 cit. nei soli casi di totale assenza di strumentazione propria in uso, mentre perderebbe una simile protezione chi compia la “stessa identica prestazione”, solo per il fatto di fruire, ad esempio, di un telefono cellulare proprio, cioè di un mezzo minimale.
Si deve, quindi, addivenire ad una soluzione esegetica costituzionalmente orientata ex art. 3 Cost., interpretandosi la locuzione originaria “prestazioni di lavoro esclusivamente personali”, per il periodo di vigenza di tale versione della norma, nel senso che il lavoratore non deve essere dotato di strumentazione particolarmente significativa (o di collaboratori propri) tale da porre in dubbio la natura personale della sua opera.

b) Quanto, poi, al requisito della continuatività della collaborazione, deve intendersi nel senso che il rapporto instaurato presenta una vocazione di tipo continuativo, nel senso che il contratto è destinato a regolare una prestazione perdurante nel tempo e non di tipo meramente occasionale, lasciando, però, pur sempre al collaboratore la scelta dello svolgimento o meno dell'attività.
Non può, invece, essere accolta una diversa impostazione per cui il requisito della continuatività non sussisterebbe allorché non vi sia “un impegno” contrattuale ad assicurare la prestazione e, dunque, a soddisfare “stabilmente/continuativamente” l’interesse della committenza con una certa frequenza.
Infatti, si è anticipato che, nell'elaborazione esegetica proposta dalla Suprema Corte, caratteristica del lavoro eterorganizzato, nella sua fattispecie tipica, è proprio l'ampia autonomia nella fase genetica, cosicché, nell'interpretare il requisito della continuatività, per come testualmente richiesto dall'articolo 2 del dlgs. n. 81/15, non può essere ritenuta come necessariamente propria dello stesso un'obbligazione a una prestazione ripetuta e continuativa nel tempo, ma, al contrario, pur essendo negozialmente contemplata la possibilità di una ripetitività della prestazione, è normalmente lasciata la facoltà al lavoratore di optare se svolgere o meno l’attività.

F) La verifica di compatibilità delle norme per il lavoro subordinato e la disciplina previdenziale ai sensi dell'articolo 2 del dlgs. n. 81/15.

E’ bene, dopo tale analisi, anche precisare che, secondo l'interpretazione della Suprema Corte di cui alla sentenza n. 1663/20, il richiamo dell'articolo 2 cit., laddove fa riferimento all'applicazione della “disciplina del rapporto di lavoro subordinato”, la concepisca nella sua interezza, salva incompatibilità .
Occorre, perciò, una volta stabilita, ex articolo 2 cit., la necessità di estensione della disciplina di cui all’art. 2094 cc, procedere a una valutazione di compatibilità delle singole previsioni previste per il lavoro subordinato (nei limiti di quanto rilevi per il singolo giudizio) alle collaborazioni continuative eterorganizzate.
In termini generali, comunque, si può, in primo luogo, riflettere come non vi siano motivi, nè testuali, né logici, per ritenere non compatibile la normativa di tipo previdenziale.
In senso contrario a tale impostazione e per una diversa soluzione esegetica, si è, tuttavia, richiamato, in dottrina, il comma 2, lett. a), dello stesso art. 2 cit., per il quale

“la disposizione di cui al comma 1 non trova applicazione con riferimento: a) alle collaborazioni per le quali gli accordi collettivi nazionali stipulati da associazioni sindacali comparativamente piu' rappresentative sul piano nazionale prevedono discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo, in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative del relativo settore. (…)”.

Infatti, poiché, ai sensi del menzionato comma due, la possibilità di deroga al comma primo dell'articolo 2, tramite i contratti collettivi, riguarda solo la disciplina per il trattamento economico e normativo, nella stessa non potrebbe rientrarvi quella di tipo previdenziale, considerata anche la sua “indisponibilità” tramite pattuizione negoziale .
In tale percorso logico, risulterebbe, cioè, che (I) se, dunque, le disposizioni previdenziali non possono essere trattate tramite contratti collettivi, (II) poiché il comma 2 nella deroga con CCNL, in tal modo, prevista verrebbe ad escludere “l'intera applicazione del comma primo”, (III) a tal punto, quest'ultimo (il co. 1), non potrebbe, per via logica, includere l'estensione della disciplina del rapporto subordinato anche dal lato previdenziale, dovendo interpretarsi come limitato all'ambito solo lavoristico .
Ovverosia, il comma due non potrebbe comprendere nella facoltà di deroga la disciplina previdenziale in quanto non prevista nel suo testo e indisponibile e siccome verrebbe a rendere non applicabile l'intero comma uno, verrebbe anche, a tal punto, ad individuare l'area dello stesso, escludendo dal suo ambito l’estensione delle disposizioni sul lavoro subordinato di tipo previdenziale al lavoro eterorganizzato.
Tuttavia, tale tesi non può essere condivisa.
Infatti, è noto il principio del parallelismo e automatismo tra la applicazione della disciplina lavoristica e quella previdenziale , che deriva dal fatto che la relazione di lavoro è il presupposto che giustifica l’insorgenza del rapporto giuridico, che, una volta qualificato, con individuazione della sua disciplina giuridica, determina, in conseguenza, quella previdenziale.
Cosicché, qualora si debba fare applicazione, sussistendone i presupposti, del primo comma dell’art. 2, con estensione ai collaboratori eterorganizzati della disciplina del lavoro subordinato, evidentemente, ne segue, per il descritto parallelismo, l'applicazione della relativa normativa stabilita per i lavoratori eterodiretti dal lato previdenziale.
Viceversa, qualora, in virtù delle deroghe degli accordi collettivi ex art. 2, co. 2 cit., non si venga ad applicare la normativa ex articolo 2094 cc ai collaboratori, benché eterorganizzati, per gli stessi principi, non sarà, evidentemente, da estendersi agli stessi neppure quella di tipo previdenziale dei lavoratori subordinati, venendo meno il suddetto parallelismo e non certo per una “disponibilità” dei diritti in materia contributiva tramite pattuizione negoziale.
Dunque, nei casi in cui, per l'applicazione del primo comma dell'articolo 2 cit., si applichi al collaboratore eterorganizzato la disciplina lavoristica ex art. 2094 cc, ne segue, in immediata successione, quella di tipo previdenziale collegata ai prestatori subordinati.
D'altronde all'interpretazione sistematica ora proposta, si deve anche aggiungere quella di tipo teleologico, poiché certamente la ratio legis che ha portato alla novella dell'articolo 2 del dlgs. n. 81/15 è stata l'esigenza di assicurare una protezione più intensa a una tipologia di lavoratori ritenuti in qualche modo assimilabili a quelli eterodiretti per la loro debolezza e, in tale logica, appare non sostenibile, in assenza di una previsione espressa in tal senso, che si sia voluto introdurre tale maggior tutela solo dal lato lavoristico e non per quello previdenziale e per gli infortuni sul lavoro, almeno di analoga importanza, dovendosi, perciò, proporre l'analisi esegetica appena esposta .

G) La disposizione incompatibile di cui all'articolo 10, co. 1 del dlgs. n. 81/15.

Una norma che, invece, risulta di discutibile compatibilità è l'articolo 10, co. 1 del dlgs. n. 81/15 per cui, qualora non sia data dimostrazione di un contratto a tempo parziale, il rapporto tra le parti deve considerarsi a tempo pieno.
Dispone, infatti, l'articolo 10, co. 1, cit. che

“in difetto di prova in ordine alla stipulazione a tempo parziale del contratto di lavoro, su domanda del lavoratore e' dichiarata la sussistenza fra le parti di un rapporto di lavoro a tempo pieno, fermo restando, per il periodo antecedente alla data della pronuncia giudiziale, il diritto alla retribuzione ed al versamento dei contributi previdenziali dovuti per le prestazioni effettivamente rese”.

Tale norma deve considerarsi strutturalmente incompatibile con un rapporto di lavoro inquadrato nell'ambito dell’art. 2 cit..
Infatti, a differenza che nell'ordinario rapporto di lavoro subordinato, in quello in questione, per la sua figura normativa finora astrattamente delineata, il collaboratore mantiene un'ampia autonomia nella fase genetica, potendo scegliere se lavorare o meno e in quali periodi.
Rimane pur vero che, poi, perché si configuri un'ipotesi ex articolo 2 cit., perde tale autonomia nella fase esecutiva, allorché decida di iniziare il lavoro, ma, nella fase genetica, ossia nella scelta se prestare o meno la propria opera e per quanto tempo, resta non intaccata l'autonomia del medesimo.
Questa caratteristica induce a ritenere, perciò, strutturalmente incompatibile l'articolo 10 cit. con l’istituto di cui all'articolo 2 cit., poiché, anche dopo la declaratoria di un rapporto eterorganizzato, per il prosieguo della relazione lavorativa, il collaboratore, una volta correttamente inquadrato, deve pur mantenere la possibilità di scegliere liberamente, con ampia autonomia, se lavorare o meno e con quali turni (essendo presupposto della figura giuridica un'ampia autonomia nella fase genetica), con un risultato che sarebbe inconciliabile con l'accertamento di un rapporto a tempo pieno.
Infatti, qualora si dichiarasse la sussistenza di un rapporto di lavoro full time ai sensi dell'articolo 10, comma primo, del dlgs. n. 81/15, in virtù di tale riconoscimento, poi, il prestatore sarebbe tenuto a recarsi al lavoro secondo le disposizioni vincolanti del datore di lavoro per l'ordinario orario settimanale (esattamente come accade in un rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno), risultando assente ingiustificato qualora non si presenti e perdendosi, così, le possibilità di autonomia nella fase genetica del rapporto di cui all’art. 2 cit..
Ne deriva, come, per conservarsi tale autonomia nella fase genetica, non possa che ritenersi incompatibile l'articolo 10 cit. laddove prescrive che “in difetto di prova in ordine alla stipulazione a tempo parziale del contratto di lavoro, su domanda del lavoratore e' dichiarata la sussistenza fra le parti di un rapporto di lavoro a tempo pieno”, in un'interpretazione costituzionalmente orientata secondo ragionevolezza ex articolo 3 Cost..
Ne deriva come anche le conseguenze retributive e contributive derivanti dall'applicazione della disciplina della eterodirezione siano da computarsi in collegamento solo con la “prestazione effettivamente resa” e non con un rapporto a tempo pieno, per quanto non fosse dimostrata, in una causa, la sussistenza di un contratto a tempo parziale.
Ad ogni modo, si deve anche aggiungere che, qualora secondo diversa interpretazione, si ritenesse compatibile con le collaborazioni eterorganizzate anche l'articolo 10, comma primo, del dlgs. n. 81/15, almeno per la parte di rapporto di lavoro “già eseguita” dovrebbe farsi attuazione della previsione, comunque insita nello stesso, per cui si deve computare, “per il periodo antecedente alla data della pronuncia giudiziale, il diritto alla retribuzione ed al versamento dei contributi previdenziali dovuti per le prestazioni effettivamente rese”.
D'altronde, poi, anche nella parallela materia della subordinazione, si può rammentare un caso similare, con riguardo alla peculiare fattispecie degli sportellisti delle agenzie ippiche, per i quali anche la Suprema Corte è venuta a chiarire che

“il fatto che il lavoratore sia libero di accettare o non accettare l'offerta e di presentarsi o non presentarsi al lavoro e senza necessità di giustificazione, non attiene a questo contenuto, bensì è esterno, sul piano non solo logico bensì temporale (in quanto precede lo svolgimento). Tale fatto è idoneo solo (eventualmente) a precludere (per l'assenza di accettazione) la concreta esistenza d'un rapporto (di qualunque natura); e comporta la conseguente configurazione di rapporti instaurati volta per volta (anche giorno per giorno), in funzione del relativo effettivo svolgimento, e sulla base dell'accettazione e della prestazione data dal lavoratore. L'accettazione e la presentazione del lavoratore, espressioni del suo consenso, incidono (come elemento necessario ad ogni contratto) sulla costituzione del rapporto e sulla sua durata: non sulla forma e sul contenuto della prestazione (e pertanto sulla natura del rapporto)” (cfr. Cass. Sentenza n. 9343 del 05/05/2005; cfr. anche Cass. n. 3457/2018; Cass. nn. 6761/1999, 12458/2003 e 23846/2017).

Pure, in quell'ipotesi, dunque, la Corte di cassazione, peraltro nella materia del lavoro subordinato, seppur per un caso particolare, ha considerato il rapporto di lavoro solo per le volte in cui il dipendente abbia accettato di svolgerlo, nelle sole prestazioni effettivamente svolte.

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