testo integrale con note e bibliografia

1. L’art. 2086 c.c.: una strana storia di (in)successo. Dal principio di “gerarchia nell’impresa” a quello di “gestione dell’impresa”.

È una strana storia quella dell’art. 2086 c.c.
Per lungo tempo è stata considerata una norma dal contenuto esclusivamente lavorista che riguarda il ruolo dell’imprenditore e il suo rapporto con i lavoratori; una norma espressiva del principio di supremazia gerarchica del “capo dell’impresa”, adombrato dietro l’idea della collaborazione tra capitale e lavoro, sospettata di una stretta contiguità con l’ideologia del periodo corporativo. Insomma, un relitto del passato.
Contro il principio di gerarchia, il diritto del lavoro ha combattuto per oltre cinquant’anni anni: quanto meno a far tempo dall’emanazione dello Statuto dei lavoratori, che aveva l’obiettivo – e l’ambizione – di contrastare la visione autoritaria dell’impresa, riconducendo l’esercizio dei poteri datoriali nell’alveo delle regole contrattuali e del diritto comune. Dopo lo Statuto, la norma è stata quasi dimenticata, superata dal tempo e dai fatti, anche perché le imprese hanno progressivamente adottato modelli organizzativi sempre meno verticistici e piramidali.
È davvero una strana storia quella dell’art. 2086 c.c. Dopo la riforma attuata dal Codice della crisi e dell’insolvenza con il d. lgs. n. 14/2019, ha cessato di essere considerata una disposizione di contenuto ed interesse solo lavorista per diventare una norma che riguarda, esclusivamente o prevalentemente, l’impresa e le sue vicende di crisi: un’impresa nella quale spesso si tende a trascurare la presenza della forza lavoro oppure si ritiene che questa non rilevi, neppure come fattore produttivo.
Certo, si può adottare una prospettiva che comprima e assorba il significato della norma codicistica esclusivamente nell’attività di prevenzione e di contrasto della crisi d’impresa ai fini del recupero della continuità aziendale, con l’obiettivo di definire i compiti e le responsabilità degli amministratori. Ma si tratterebbe francamente di una prospettiva molto riduttiva, o meglio parziale, quanto meno perché tralascia di considerare una parte della disposizione, il suo comma 1.
E, ci si può domandare: “se quel comma 1 rappresenta un mero retaggio del passato, inefficace sul piano concreto e improduttivo di reali effetti giuridici, perché il legislatore del Codice della crisi ha deciso invece di conservarlo?”. Qualche interprete risponde che l’eliminazione della prima parte dell’art. 2086 c.c. avrebbe probabilmente comportato un eccesso di delega rispetto ai principi dettati dalla l. n. 155/2017. Ma l’obiezione appare piuttosto debole, tenuto conto che quel disposto normativo si considerava già superato e di fatto abrogato.
Occorre allora ricostruire la ratio e il significato del nuovo art. 2086 c.c. nella sua interezza, ricomprendendo nell’ambito precettivo della norma il primo e il secondo comma. Anzi, un po’ sorprende il persistente disinteresse di molta parte della dottrina giuslavorista, che tende invece a mantenere distinte le due parti della norma, come se fossero del tutto irrelate, tutt’al più leggendo nel comma 1 la conferma di un’antica impostazione teorica: e cioè, la riprova della centralità del potere datoriale nell’impresa e nella gestione del rapporto di lavoro subordinato.
A ben guardare, la nuova disposizione, unitariamente considerata e interpretata, sembra esprimere un valore teorico-sistematico ben più ampio e generale: la riformulazione complessiva (e unitaria) dell’art. 2086 c.c. si inserisce nel processo in atto di ri-configurazione del soggetto impresa nell’ordinamento giuridico, al quale in verità contribuiscono diversi formanti legislativi (di livello nazionale e sovranazionale). Detto altrimenti: insieme alla norma codicistica riformata e attorno ad essa il sistema giuridico si evolve; gli interessi rilevanti e meritevoli di tutela si mobilitano; i lavoratori non possono essere confinati o relegati in una sorta di cono d’ombra.
Qualcuno ha citato icasticamente l’arrivo di ospiti inattesi nell’attuale scenario dell’impresa ( ). I lavoratori, infatti, si rivelano agenti essenziali e co-protagonisti, insieme agli altri stakeholders, di una fase di passaggio da un modello di capitalismo globale a quello che – si può chiamare con qualche licenza – un modello di capitalismo sostenibile.
Si tratta di un’affermazione indubbiamente impegnativa sul piano teorico-sistematico, che dev’essere meglio indagata e argomentata a conclusione dell’analisi interpretativa del nuovo dettato dell’art. 2086 c.c.

2. Alcuni nodi interpretativi del nuovo art. 2086 c.c. Spunti per una lettura integrata e complementare dell’obbligo di istituire assetti adeguati.

Vi sono alcuni nodi interpretativi, sollevati dalla ri-formulazione della norma codicistica, che interrogano a fondo tanto la dottrina lavorista quanto quella gius-commercialista, sollecitando una lettura integrata e, se è possibile, complementare. Com’è stato efficacemente scritto, “il giurista deve maturare la consapevolezza che questi problemi presentano sfaccettature non illuminabili con un solo fascio di luce” ( ), ma occorre muoversi nella prospettiva di approcci integrati nei quali i diversi piani di analisi, lungi dall’escludersi, possano dialogare e coordinarsi.
Da sempre il contesto organizzativo dell’impresa assume un rilievo centrale nella disciplina del lavoro: nell’organizzazione aziendale si radicano i posti di lavoro; le esigenze organizzative e di funzionamento legittimano l’esercizio dei poteri datoriali e giustificano i principali provvedimenti di gestione della forza lavoro (licenziamenti, trasferimenti, mobilità funzionale, ecc.). Eppure, il diritto del lavoro sinora ha poco considerato il “soggetto” impresa e ha guardato piuttosto all’imprenditore quale datore di lavoro e contraente del rapporto di lavoro.
Al contrario, dalla ri-formulazione dell’art. 2086 c.c. emerge una visione soggettivata dell’impresa: l’obbligo di istituire un assetto organizzativo (amministrativo e contabile) adeguato, accanto ai doveri di una corretta gestione del rapporto di lavoro, acquista non solo un’autonomia concettuale (che probabilmente ha sempre avuto), ma assume anche una specifica rilevanza giuridica, in raccordo con altri principi e regole dell’ordinamento che orientano verso uno sviluppo sostenibile dei processi produttivi.
Ciò implica che quando una parte della dottrina lavorista paventa il superamento del tradizionale distinguo che oppone, da un lato, i poteri datoriali che stanno dentro il contratto di lavoro e, dall’altro, il potere organizzativo che sta fuori del contratto di lavoro e riguarda le scelte insindacabili dell’impresa ( ); e similmente, quando (parte del) la dottrina commercialista paventa una limitazione delle competenze gestorie degli amministratori e un attacco alla loro discrezionalità operativa, si ha l’impressione che, in entrambi i casi, si tenda a deviare dal focus del nuovo art. 2086 c.c.
L’obbligo giuridico di assicurare l’adeguatezza organizzativa non attiene alle scelte strategiche e di merito compiute dall’impresa per realizzare le proprie finalità economiche, e tanto meno riguarda il suo posizionamento sul mercato (ché si finirebbe probabilmente per annullare il rischio d’impresa). L’art. 2086 c.c. pone piuttosto un vincolo “interno” che incide sulla macchina organizzativa, senza condizionare l’attività economica se non nella misura in cui una struttura adeguata, quanto all’impiego di mezzi e di risorse umane, risulti strumentale rispetto ad una condotta imprenditoriale efficiente e sostenibile.
In sostanza, le scelte imprenditoriali (così come l’applicazione della business judgment rule per l’agire degli amministratori) appaiono collocate a monte rispetto alle decisioni che ne conseguono nell’ambito organizzativo, queste ultime finalizzate e funzionali all’attuazione di quelle scelte imprenditoriali.
Un altro delicato passaggio interpretativo riguarda la natura di clausola generale che si vorrebbe attribuire alla regola di adeguatezza organizzativa introdotta dall’art. 2086, co. 2, c.c. (è preferibile invero assumere che si tratti di una regola, anziché un principio) ( ).
Dietro questa configurazione della regola giuridica c’è l’antico timore di esporre il datore di lavoro e l’accertamento delle sue eventuali responsabilità nella gestione del rapporto di lavoro al rischio del soggettivismo giudiziario, alla volatilità delle valutazioni del giudice.
In realtà, l’art. 2086, co. 2, c.c. non introduce propriamente una “clausola generale”, ma detta un precetto normativo a contenuto aperto, così come la successiva disposizione dell’art. 2087 c.c. che richiede di adottare “nell’esercizio dell’impresa” le misure organizzative e procedimentali che sono necessarie per garantire la salute e la sicurezza sul lavoro. Non a caso, un adeguato assetto organizzativo interno costituisce l’infrastruttura indispensabile per una corretta gestione prevenzionistica dei rischi lavorativi.
Quando ricorrono simili disposti normativi, il giudice non è chiamato ad esprimere opzioni soggettive di valore, né a creare la regola applicabile nel caso concreto traendola dai principi generali dell’ordinamento (come avviene, appunto, per le clausole generali). Al contrario, il precetto normativo aperto costituisce una componente della fattispecie giuridica doverosa che dev’essere interpretata e applicata secondo criteri oggettivi, determinati o comunque determinabili.
A questo proposito, vengono in gioco gli apporti delle scienze aziendali e i modelli organizzativi/procedurali di cui si danno molteplici esempi nella legislazione vigente, che sempre più spesso vi fa un esplicito rinvio ( ): dai sistemi di organizzazione e gestione in materia di sicurezza sul lavoro (art. 30, d. lgs. n. 81/2008); ai modelli di valutazione d’impatto per la protezione dei dati personali previsti dal reg. Ue 2016/679, sino ai processi aziendali di utilizzo dei dispositivi tecnologici intelligenti che sono già provvisti di una propria norma tecnica (ISO 42001:2023), prima ancora dell’entrata in vigore dell’AI Act europeo.
Si tratta di modelli organizzativi e gestionali dei diversi rischi aziendali che hanno sviluppato una notevole capacità predittiva e forniscono degli standard riconosciuti di valutazione ex ante della correttezza dell’agire imprenditoriale e dell’adeguatezza degli assetti interni( ). Con l’avvertenza che il rispetto degli obblighi e della disciplina legale che ad essi rinvia dipende dall’applicazione effettiva e concreta di tali modelli organizzativi, che devono ovviamente essere proporzionati e calibrati sulle dimensioni e sulle caratteristiche dell’impresa (come puntualmente stabilisce, del resto, l’art. 2086, co. 2, c.c.).

3. L’adeguatezza organizzativa tutela (anche) gli interessi dei lavoratori? L’art. 2086 c.c. al centro del trilemma interpretativo: criterio esclusivo del diritto della crisi, canone di correttezza gestionale, tecnica di tutela degli interessi degli stakeholders.

Al cuore del discorso, per la dottrina giuslavorista, rimane il tema degli interessi tutelati dal nuovo art. 2086 c.c.: il quesito fondamentale è se la regola giuridica dell’adeguatezza organizzativa dell’impresa tuteli – oltre agli interessi di soci e di finanziatori – anche quelli dei lavoratori.
Il titolare dell’obbligo giuridico è l’imprenditore, pertanto – com’è stato giustamente osservato ( ) – il vincolo ex lege non incide solo sull’attività degli amministratori e sulla loro responsabilità gestionale verso i soci e i creditori. Si aggiunga che il precetto normativo – se si accoglie una ricostruzione unitaria che non cancelli il comma 1 – richiama espressamente i lavoratori e il loro ruolo nell’impresa, dunque prende esplicitamente in considerazione anche il loro interesse all’adeguatezza degli assetti organizzativi.
Ai fini della tutela della posizione dei lavoratori è stato prospettato un possibile (e non meglio precisato) diritto al risarcimento dei danni in caso di violazione dell’art. 2086 c.c., sul presupposto che la disposizione sia fonte d’un obbligo di protezione correlato allo svolgimento dell’attività aziendale e (soprattutto) alla prevenzione della crisi. Peraltro, in modo singolare, l’obbligo di origine legale rimarrebbe comunque estraneo al rapporto di lavoro derivando dal mero “contatto sociale” con l’impresa, senza integrare alcuna posizione soggettiva a favore del lavoratore, pur potendo eventualmente determinare una responsabilità risarcitoria (si presume, di natura extra-contrattuale) per l’inadeguatezza della gestione( ).
Su un piano non dissimile si pone anche la tesi che accomuna la condizione dei lavoratori a quella dei creditori dell’impresa, disconoscendo l’esistenza di un interesse direttamente tutelabile nei loro confronti: si tratterebbe probabilmente d’un interesse indiretto che ha qualche analogia con la categoria dell’interesse legittimo di diritto privato, già sperimentata in un’altra stagione giuridica. Si ravvisa, dunque, in capo all’imprenditore un impegno al corretto esercizio dei poteri organizzativi riconducibile al genus delle clausole generali di correttezza e buona fede, dal quale conseguirebbe una responsabilità risarcitoria per mala gestio da commisurare al danno provato ed effettivamente sopportato dai lavoratori( ).
Ora, premesso che il rimedio risarcitorio assume un carattere generale e polifunzionale, essendo in astratto invocabile tramite l’azione aquiliana in ogni situazione produttiva di danno ingiusto, resta tuttavia l’impressione di una soluzione poco praticabile, oltre che scarsamente fruibile ove s’intenda davvero riconoscere una tutela degli interessi dei lavoratori senza fermarsi all’esercizio accademico.
Ci si può interrogare, anzitutto, sull’accertamento (e sulla dimostrazione) del nesso causale diretto tra l’assetto organizzativo ritenuto inadeguato e il danno economico sopportato, sul piano individuale, dai lavoratori. Appare infatti più plausibile che il danno cagionato dalla violazione del dovere organizzativo colpisca in modo diretto e immediato il patrimonio dell’impresa, oltre alla possibilità di qualificare tale violazione come una “grave irregolarità” nello svolgimento della funzione gestoria ai sensi dell’art. 2409 c.c. ( ).
In alternativa, volendo tener fermo questo tipo di argomentazione, si dovrebbe ipotizzare l’esistenza di una forma di responsabilità semi-oggettiva o senza colpa a carico dell’imprenditore (come ritengono alcuni interpreti nell’ipotesi di inadempimento dell’obbligo di sicurezza ex art. 2087 c.c.), ma non si coglie affatto questa indicazione nel testo dell’art. 2086 c.c.
Non meno complesso appare l’onere della prova relativa all’an e al quantum del danno patrimoniale derivante dall’assetto organizzativo inadeguato, tanto più se non è il socio ad agire in giudizio, ma è un lavoratore (che non ha particolari strumenti o ausili di prova). Di più, un simile accertamento aprirebbe forse uno spazio per il soggettivismo giudiziario ben più impattante di quello che si teme quando si denuncia il contenuto indeterminato e/o generico del dovere organizzativo, identificandolo (immotivatamente) con lo stilema classico della clausola generale.
Ma, in particolare, ogni giuslavorista sa che il risarcimento del danno è un rimedio di tipo secondario e, in concreto, spesso inefficiente. Al lavoratore interessa soprattutto che venga invalidato e rimosso l’atto datoriale che modifica le sue condizioni di lavoro oppure provoca la cessazione del rapporto di lavoro. Pertanto, come già rilevato in una primissima lettura della riforma dell’art. 2086 c.c. ( ), si può avanzare una diversa ipotesi interpretativa e ritenere che, a ben guardare, la regola dell’adeguatezza organizzativa sia finalizzata ad incidere (e a rafforzare) il modello di accertamento giudiziario nei confronti dell’esercizio dei poteri di gestione del rapporto di lavoro.
Secondo questa proposta teorico-esegetica, l’art. 2086 c.c. non sarebbe configurabile alla stregua di una norma autoreferenziale diretta ad introdurre nel rapporto di lavoro un obbligo “ulteriore”, avente ad oggetto l’adempimento del precetto ivi previsto e destinato a generare – ove violato – una conseguenza risarcitoria (in termini di riduzione patrimoniale? di perdita di chance?). Il novum della disposizione consisterebbe invece nella possibilità di vagliare la legittimità dei provvedimenti gestionali del rapporto di lavoro anche sotto il profilo dell’adeguatezza, proporzionalità e correttezza della dotazione organizzativa che, nel caso concreto, è stata posta alla base di un determinato provvedimento e ne sorregge la legittimità.
Com’è intuibile, una simile prospettiva incontra l’obiezione ritualmente posta a difesa delle prerogative dell’imprenditore, che sottolinea l’insindacabilità delle scelte aziendali: un’obiezione tipicamente agganciata alla raffigurazione dell’art. 2086 c.c. come clausola generale e soprattutto all’art. 30, l. n. 183/2010 (cfr. spec. co. 1), che vincola il giudice ad un mero controllo sui presupposti di legittimità dei provvedimenti datoriali, ad esclusione di ogni sindacato di merito.
Ci si potrebbe limitare a contrastare la consueta obiezione osservando che l’art. 2086 c.c. è il frutto di una visione più recente e senz’altro differente rispetto all’impostazione politico-legislativa che ha ispirato l’art. 30, l. n. 183/2010. Ma la replica non sarebbe sufficiente o forse troppo elusiva della questione teorica sottostante. Viceversa, vale la pena ribadire che le scelte gestionali dell’impresa, e il merito di tali scelte, non sono in discussione.
Nella misura in cui il legislatore ha incentrato il focus del nuovo art. 2086 c.c. sulla struttura interna dell’impresa, si può ritenere che abbia inteso sottoporre a verifica la performance organizzativa che rappresenta l’immediato substrato degli atti gestionali del rapporto di lavoro e ne sostiene la legittimità.
Non v’è dubbio che sottoporre l’adeguatezza degli assetti interni al vaglio giudiziario evoca un aspetto problematico, e persino scivoloso, del controllo sull’esercizio dei poteri datoriali. D’altra parte, è altrettanto vero che il substrato organizzativo degli atti e dei provvedimenti aziendali viene in gioco costantemente, per forza di legge, pur se mediato dal nesso causale diretto rispetto al singolo rapporto di lavoro: ad es., quando il giudice verifica l’adempimento dell’obbligo di repêchage del lavoratore nel licenziamento economico; quando censura le discriminazioni di genere nei comportamenti imprenditoriali “di natura organizzativa” o nella “modifica dell’organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro” (art. 25 d.lgs. n. 198/2006, mod. ex l. n. 162/2021); quando valuta l’accomodamento ragionevole dell’organizzazione ai fini della legittimità del licenziamento del lavoratore disabile; quando accerta la modifica degli assetti organizzativi per l’assegnazione legittima di mansioni inferiori.
In tali ipotesi, seguendo l’indicazione dell’art. 2086 c.c., il giudice sembra chiamato ad accertare la legittimità del provvedimento di gestione della forza lavoro anche sotto il profilo dell’adeguatezza e della proporzionalità dell’assetto interno dell’impresa, estendendo il suo raggio d’indagine al substrato organizzativo e di supporto rispetto a quel determinato provvedimento.
Con ogni probabilità, la dottrina giuslavorista farebbe un miglior servizio alla certezza del diritto se, anziché disconoscere o troppo minimizzare questa evoluzione del quadro normativo – per la preoccupazione di ampliare eccessivamente il controllo del giudice - cercasse invece di governarla, agevolando una corretta interpretazione e applicazione dell’obbligo organizzativo a carico dell’impresa.
In primo luogo, si potrebbe esigere una maggiore oggettività tecnico-scientifica nell’accertamento dello standard di adeguatezza degli assetti interni, ammettendo l’imprenditore a dimostrare di aver adottato modelli organizzativi/gestionali attestati e validati, che soddisfano la doverosità imposta dall’art. 2086 c.c. e sono in grado di misurare il grado di diligenza organizzativa richiesta, sino al punto di esonerarlo da responsabilità (similmente a quanto già si assume in materia di sicurezza sul lavoro).
Sarebbe anche utile definire meglio l’uso dell’accountability approach, cioè quell’approccio di responsabilità/rendicontazione che ormai interessa in modo trasversale i diversi settori dell’attività d’impresa: dalla sicurezza sul lavoro, alla protezione dei dati personali, alla cybersecurity, all’impiego aziendale delle tecnologie intelligenti.
La Direttiva 2022/2464/Ue sulla “Rendicontazione di sostenibilità”( ), che dovrà essere trasposta negli ordinamenti nazionali entro luglio 2024, ha ampliato l’ambito di operatività della precedente “Dichiarazione di carattere non finanziario” (prevista dalla Dir. 2014/95/Ue e dal provvedimento attuativo, d. lgs. n. 254/2016) che era limitata a determinate categorie di imprese, perfezionando l’obbligo di fornire informazioni sui profili di eco-sostenibilità della gestione aziendale. Il Ministero dell’Economia ha svolto una consultazione pubblica sulla bozza del decreto di recepimento che prevede una declinazione concreta degli obblighi di reporting a carico dell’impresa, eppure si registra ancora una certa disattenzione da parte del dibattito giuridico sull’adozione dei criteri ESG (environmental, social, governance).
Ci si può spingere oltre questo approdo, che è suggerito dallo sviluppo del quadro legislativo?
Il riferimento è soprattutto alla tesi che ravvisa nella codificazione del dovere d’intervento tempestivo nella crisi, secondo l’art. 2086, co. 2, c.c., un diritto individuale (e collettivo) alla continuità aziendale e alla garanzia dei livelli occupazionali. Ne deriverebbe l’impegno del datore ad attivare tutti gli strumenti resi disponibili dall’ordinamento - quali, la composizione negoziata della crisi, la CIGS, l’avvio di trattative per la stipula di accordi di transizione occupazionale – che si rivelino potenzialmente idonei a salvaguardare l’impresa e soprattutto l’occupazione ( ).
Partendo da un’altra prospettiva, seppur convergente, si suppone che il nuovo art. 2086 c.c. sia in grado di indirizzare e condizionare le scelte imprenditoriali rispetto all’adozione delle misure di risoluzione della crisi, orientandole verso la conservazione degli assetti organizzativi, con ricadute “indirette” favorevoli quanto alla prosecuzione del rapporto di lavoro, ma senza alcun riconoscimento di una precisa posizione giuridica tutelabile ( ).
Simili ricostruzioni interpretative richiedono tuttavia una certa cautela: anche perché l’ordinamento contempla una serie di strumenti di gestione della crisi d’impresa che stabiliscono requisiti specifici di accesso, peraltro non incompatibili con il precetto dell’art. 2086 c.c. Per fare un solo esempio: la disciplina della CIGS prevede l’elaborazione di un piano d’interventi per l’impresa in crisi, al fine di – si legge nell’art. 21, co. 2-3, d.lgs. n. 150/2015 – “fronteggiare gli squilibri di natura produttiva, finanziaria, gestionale” ovvero “le inefficienze della struttura gestionale” con misure correttive dirette alla “continuazione dell’attività aziendale e alla salvaguardia occupazionale”.
Si tratta di previsioni legislative allineate alla ratio e persino al tenore letterale dell’art. 2086 c.c.: una disposizione, quest’ultima, che enfatizza la verifica relativa all’adeguatezza della dotazione organizzativa dell’impresa, senza comunque predeterminare o incidere sulle prerogative imprenditoriali relative all’adozione delle appropriate misure d’intervento nella crisi ( ).

4. I doveri di organizzazione dell’impresa e il raccordo con la libertà costituzionale di iniziativa economica.

Non si può negare che il nuovo art. 2086 c.c. introduca una disposizione da interpretare in chiave teorico-sistematica e collocata in un ampio orizzonte di significati, in quanto non estranea né avulsa dal complessivo quadro ordinamentale plasmato dai principi costituzionali e dalle fonti europee.
Lungi dal porsi in contraddizione con la tutela della libertà d’impresa (dichiarata anche a livello europeo: cfr. art. 16 CDFUE), la riforma dell’art. 41, co. 2, Cost. ha rilanciato il limite dell’utile sociale per tener conto di una serie di diritti fondamentali e di valori, non solo accolti o approvati dalla stessa Costituzione, ma ora sanciti in modo esplicito: salute, ambiente, sicurezza, libertà, dignità umana. Questo bilanciamento fra valori fa comprendere che il dettato costituzionale riconosce l’autonomia del soggetto impresa, quale organizzazione complessa ed entità in sé tutelata per il suo ruolo di protagonista dello sviluppo economico ( ); al contempo, richiede all’impresa una precisa assunzione di responsabilità delineando nell’art. 41, co. 2, così riformulato, un modello di capitalismo sostenibile sul piano economico, sociale e ambientale.
Si direbbe che, questa, sia una delle ipotesi in cui l’operatore economico, così come l’interprete, “è inchiodato alla opzione politica del testo normativo”, non essendovi dubbi o equivoci sulla volontà di attuare un bilanciamento virtuoso dei valori in gioco, che può definirsi tale perché sollecitato dallo stesso legislatore costituzionale e “ancillare al progetto normativo” ( ).
Si tratta di un disegno costituzionale che ha risvolti impegnativi e teoricamente complessi: anziché di limiti alla libertà economica privata, si potrebbe discutere problematicamente di una valorizzazione dell’impresa come attore politico, posto che ad essa si pongono vincoli che vanno oltre il perseguimento dell’efficienza e dell’adeguatezza della macchina organizzativa, e implicano (anche) il contrasto all’impoverimento del tessuto produttivo, la ricerca di un equilibrio tra la legittima aspettativa del profitto e la riproduzione di fattori sociali e ambientali.
Un disegno costituzionale che, va sùbito precisato, non sottende un recupero o una rivisitazione dell’(antica) rappresentazione istituzionale dell’impresa e neppure la sua trasfigurazione in un soggetto pubblico, tanto meno gravato di funzioni e obiettivi di carattere generale sul tracciato storico delle teorie funzionaliste dell’impresa ( ). Non vanno confusi gli obiettivi tipici dell’iniziativa economica con i vincoli legislativi – “in modo da non recar danno…” – posti a carico dell’impresa e dei suoi amministratori. Se è vero che lo scopo specifico e distintivo rimane il successo sul mercato, si deve però aggiungere che la sostenibilità economica, ambientale e sociale dell’impresa è “una modalità di conseguimento dello scopo di lucro”; costituisce, cioè, “una modalità ragionevole per il conseguimento del lucro” ( ).
Non è facile prevedere se l’idea o il progetto di un’evoluzione progressiva verso un modello di capitalismo sostenibile, sinora promossa con maggior convinzione dalle istituzioni europee, potrà in futuro proseguire l’iter di attuazione (ci sono forti segnali di frenata).
Resta il fatto che l’art. 2086 c.c. è una norma cha appartiene al diritto positivo e dovrà trovare un’applicazione - razionale e ragionevole - nel contesto valoriale e interpretativo entro il quale i giudici costituzionali vorranno collocare il nuovo dettato art. 41, co. 2, Cost. Sebbene in dottrina sia stata spesso percepita come una regola che comprime o aggrava l’esercizio dell’attività economica ( ), al contrario l’adeguatezza organizzativa sembra costituire un ponte verso quella visione di capitalismo sostenibile che si pone al crocevia di differenti indirizzi teorici e politico-legislativi. Non a caso, il complicato passaggio a una fase storica di maggiore responsabilità sul piano sociale e ambientale richiederà investimenti che comportano una razionalizzazione organizzativa e una gestione “adeguata” dei fattori produttivi e del lavoro.
La prospettiva si rivela molto ambiziosa, ma si può forse coltivare qualche affidamento tenuto conto che sono gli stakeholders e gli investitori a sollecitare il cambio di passo verso l’applicazione dei criteri ESG. Si può interpretare in questa direzione, ad esempio, il corposo documento propositivo indirizzato da Confindustria alle istituzioni europee (oltre che nazionali) avente ad oggetto il futuro dell’impresa e la “funzione cruciale” che essa svolge nella società. Il documento, intitolato in modo suggestivo “Fabbrica Europa”, contiene un intero capitolo dedicato espressamente alla promozione di un “Modello sociale europeo inclusivo, sostenibile e (perché no?) competitivo” ( ).

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