TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

Il salario minimo costituzionale è un tema classico del diritto del lavoro successivo all’entrata in vigore della Costituzione e, fino alle vicende del CCNL servizi fiduciari, il suo più frequente ambito di operatività nel contenzioso giudiziario è stato nelle cause di differenze retributive promosse dai cd. lavoratori “in nero”. Occasionalmente ci si è occupati anche della domanda di tutela presentata da lavoratori - di solito dipendenti di cooperative o di appaltatori in ambito pubblico che invocavano rispettivamente l’applicazione dell’art. 7 c. 4 l. 31/2008 o dell’art. 30 d.lvo n. 50/2016 - a cui erano stati applicati minimi salariali inferiori alla media, previsti da contratti collettivi sottoscritti da sindacati “minoritari”, cioè poco rappresentativi (come UNCI).
Il contenzioso in questione era relativamente semplice. Il punto di riferimento per individuare il salario costituzionalmente adeguato da porre a confronto con il salario percepito era pacificamente costituito da un CCNL sottoscritto dai sindacati “maggioritari”, le componenti della retribuzione parametro da prendere in considerazione venivano individuate soltanto in paga base, contingenza e tredicesima e la motivazione della decisione solitamente si riduceva ad un veloce richiamo all’art. 36 Cost., così come inteso ed applicato dalla consolidata giurisprudenza.
Le uniche questioni da affrontare in concreto erano la scelta del CCNL relativo al settore in cui operava il datore di lavoro e, se si trattava di applicare le norme citate, che fanno riferimento alle organizzazioni datoriali e sindacali “comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”, la non facile valutazione della rappresentatività dei sindacati che avevano sottoscritto il CCNL “sotto accusa”.
A dare nuova vitalità al tema è stato il contenzioso relativo alle retribuzioni previste dalla sezione servizi fiduciari del CCNL vigilanza, firmato a febbraio 2013 da due sindacati storicamente maggioritari, CGIL e CISL, e portato davanti al giudice del lavoro qualche anno dopo.
Benché abbiano dichiaratamente fatto applicazione di un orientamento giurisprudenziale assolutamente consolidato che lo indicava come possibile, purché adeguatamente motivato, le decisioni intervenute in questo contenzioso, laddove hanno sindacato ai sensi dell’art. 36 Cost. la retribuzione stabilita da sindacati maggioritari, hanno suscitato un acceso e crescente dibattito.
Negli ultimi anni, soprattutto dopo le decisioni della Corte di Cassazione di ottobre 2023, i convegni e le pubblicazioni in materia di salario minimo costituzionale si sono moltiplicati e, soprattutto tra coloro che non hanno ancora avuto occasione di occuparsene nelle aule di giustizia, potrebbe sorgere il dubbio che se ne sia ormai parlato abbastanza.
Il tema, in realtà, è tutt’altro che esaurito.
L’obiettivo di questa premessa è proprio quello di porre in evidenza la sua rilevanza e le principali questioni ancora aperte e di sottolineare l’importanza dei momenti di riflessione come quelli raccolti in questo numero di LDE.
Vari buoni motivi per continuare a trattarne.
Le cause si moltiplicano e cominciano a coinvolgere anche datori di lavoro diversi dalla cooperativa protagonista delle prime cause e qualche altro contratto collettivo firmato da sindacati che non presentano problemi di rappresentatività, ma che prevede valori retributivi molto simili a quelli già ritenuti inadeguati dalla giurisprudenza relativa al CCNL Servizi Fiduciari, come ad esempio il contratto SAFI, sottoscritto dalla UIL a gennaio 2013 , il rinnovo della parte specifica Vettori del CCNL trasporto aereo del 2 dicembre 2021 e il CCNL A.N.I.S.A. del 2009 .
Si tratta di un contenzioso che, per varie concorrenti ragioni, esige particolare impegno e lucidità in capo a tutti i suoi protagonisti ed uno sforzo congiunto di riflessione con l’accademia.
Ciò è innanzi tutto dovuto al fatto che esso tocca nervi sensibili della vita sociale ed economica: da un lato, il sostentamento stesso del lavoratore, obiettivo della tutela costituzionale, messo in pericolo da salari assolutamente insufficienti, e, dall’altro, l’equilibrio economico delle imprese che, avendo fatto massiccio affidamento sulla legittimità delle retribuzioni previste dal CCNL servizi fiduciari per oltre 10 anni, temono ora che il contenzioso metta in discussione la loro stessa sopravvivenza.
L’impatto sugli interessi in gioco è reso ancora più serio dalla mancanza di riferimenti normativi certi per l’individuazione della retribuzione adeguata, che affida inevitabilmente l’individuazione del minimo costituzionale alla discrezionalità del singolo giudice, e dalla varietà di allegazioni e prove offerte dalle parti che il giudice si trova a valutare.
Tutto ciò, infatti, favorisce una diversificazione anche notevole delle decisioni che riguardano lavoratori che operano in condizioni analoghe presso la stessa impresa o imprese analoghe, non solo da parte di giudici diversi, ma anche dello stesso giudice che, dovendo decidere ogni causa in base ai soli elementi ivi offerti dalle parti, potrebbe trovarsi ad assumere decisioni diverse a parità di situazioni lavorative, per il solo fatto che le parti si sono difese diversamente.
Pur essendo la conseguenza di regole sostanziali e processuali, ciò pone un grave problema di coerenza nella complessiva risposta alla stessa domanda di giustizia, che crea “scandalo” nei cittadini ed ha un impatto destabilizzante sull’intero sistema e sulle scelte imprenditoriali.
L’incertezza che ne deriva su ciò che rispetta o non rispetta l’art. 36 Cost., d’altronde, rischia di avere un effetto moltiplicatore del contenzioso.
Sono molti, infatti, i CCNL sottoscritti da sindacati maggioritari in vari settori che, per i livelli più bassi, prevedono retribuzioni a rischio rispetto ad alcuni indici di sufficienza presi in considerazione dalla giurisprudenza relativa al CCNL Servizi Fiduciari – alcuni sono quelli stessi che, nelle cause relative a quest’ultimo, vengono indicati come parametro costituzionale, come i CCNL portieri e Multiservizi, invocati dai ricorrenti, o il CCNL AISS, invocato dalle aziende - e, in mancanza di punti di riferimento univoci per la valutazione di sufficienza, nulla consente di escludere che il contenzioso si estenda anche ad essi e di prevedere quale potrebbe esserne l’esito.
Le questioni aperte sono tante e ben lontane da una soluzione condivisa o che abbia, almeno, la forza derivante dall’esistenza di una specifica decisione di legittimità e anche questo moltiplica l’incertezza e le sue conseguenze negative.
Sembra evidente ed indiscutibile, a fronte di tutto ciò, la necessità di trovare rapidamente soluzioni che siano rispettose dei principi costituzionali e del diritto eurounitario, ma anche il più possibile univoche e possano così diventare punti di riferimento per avvocati, giudici e imprese, in sede giudiziale e stragiudiziale.
Le principali questioni ancora aperte.
L’intervento della Corte di Cassazione, la cui accurata ed approfondita motivazione attribuisce una indubbia prospettiva di stabilità alle soluzioni proposte nelle sentenze di ottobre 2023, ha ormai collocato in secondo piano la questione di fondo, relativa alla astratta possibilità per il giudice di sindacare un CCNL firmato dai sindacati maggioritari, anche se non mancano voci tuttora dissenzienti.
Nuove delicate questioni di fondo si affacciano però nel dibattito e vengono sottoposte ai giudici dalle difese delle aziende, nel tentativo di impedire comunque, in concreto, la condanna al pagamento di differenze retributive o, almeno, arginare gli effetti del sindacato giudiziale.
Configurando l’orientamento espresso dalla Suprema Corte come “diritto vivente” e qualificando come “catastrofici” gli effetti che una sua applicazione retroattiva avrebbe sull’equilibrio economico delle imprese che hanno fatto affidamento sull’adeguatezza della retribuzione prevista dal CCNL servizi fiduciari - teoricamente a ritroso fino al 2013, alla luce dell’orientamento più recente secondo cui la tutela contro il licenziamento illegittimo non giustifica più la decorrenza della prescrizione in corso di rapporto - si chiede al giudice di sottoporre alla Corte Costituzionale la questione di compatibilità dell’art. 2099 c.c., come interpretato ed applicato dalle sentenze di Cassazione di ottobre 2023, con i principi sanciti dall’art. 41 Cost. e dall’art. 39 Cost.
Invocando alcune decisioni della Corte di Giustizia Europea in cui è stato affermato che il principio di parità delle retribuzioni non può essere applicato retroattivamente , valorizzate anche da alcuni interventi di questo Focus , si chiede anche un rinvio pregiudiziale alla Corte stessa.
Vi sono poi tutte le questioni che compongono il tipico procedimento decisionale ai sensi dell’art. 36 Cost., che stanno man mano acquisendo nuova consistenza e profondità, in particolare quelle che attengono alla individuazione della retribuzione da considerare adeguata ai sensi della norma costituzionale (la cd. retribuzione parametro) ed alla composizione della retribuzione percepita, di cui va verificata l’adeguatezza.
Sotto quest’ultimo profilo, le difese dei datori di lavoro chiedono al giudice di interrogarsi sulla necessità o meno di tenere conto, oltre che della retribuzione ordinaria e delle mensilità aggiuntive, anche di altri importi erogati al lavoratore – o di cui questi potrebbe successivamente beneficiare - come l’incidenza sul TFR, le voci di retribuzione variabile, le voci di welfare. In questi termini, il problema è recente e, al di là della chiara indicazione della Suprema Corte sul fatto che lo straordinario non va considerato, non risultano ancora riflessioni approfondite al riguardo.
In particolare, la difficoltà di individuare la cd. retribuzione parametro.
Il discorso sulla retribuzione parametro è particolarmente complesso.
Nei decenni che hanno preceduto la nuova stagione del contenzioso ex art. 36, come si è accennato, essa veniva individuata nell’importo di paga base e contingenza previste dal CCNL sottoscritto da sindacati maggioritari nel settore di operatività del datore di lavoro, maggiorato di un dodicesimo per tenere conto della tredicesima.
La verifica di sufficienza e proporzionalità era implicita, e si esauriva, nel confronto con tale retribuzione, in cui la presunzione di adeguatezza delle scelte salariali sindacali consentiva di ravvisare la retribuzione al contempo sufficiente e proporzionata alla qualità e quantità del lavoro richiesto ad una certa figura professionale, senza necessità di entrare nel merito dei due indici e delle loro diversità.
Il valore retributivo utilizzato per la verifica di adeguatezza, la cd. pars destruens, e nella determinazione del giusto salario spettante al ricorrente, la cd. pars costruens, era lo stesso.
La denuncia di insufficienza della retribuzione prevista dal CCNL Servizi Fiduciari per i livelli inferiori, resa scandalosamente evidente dal confronto con un dato minimo ed inequivoco come il tasso soglia di povertà assoluta, ha messo in crisi tale modo di procedere.
Per la prima volta la giurisprudenza del lavoro ha dovuto realmente confrontarsi con gli indici costituzionali in quanto tali e, in particolare, valutare autonomamente il profilo che ha fatto esplodere il problema, la sufficienza, utilizzando specifici indici della stessa che potessero guidare la verifica di adeguatezza della retribuzione sottoposta al suo giudizio.
E così, nella pars destruens, sono comparsi indici del tutto sganciati dalla retribuzione sindacale come, da un lato, i dati statistici sulle esigenze di spesa e, dall’altro, valori monetari accomunati dall’essere indicati dal legislatore per individuare il reddito minimo idoneo ad escludere la configurabilità di una condizione di bisogno, come ad esempio il reddito di cittadinanza, la soglia di reddito al di sopra della quale la pensione di inabilità civile non spetta, il minimale contributivo INPS.
Laddove, nella pars costruens, si è trattato di individuare la retribuzione da sostituire a quella giudicata insufficiente, però, tali indici sono stati accantonati e si è continuato a fare riferimento alla retribuzione prevista dai contratti collettivi sottoscritti da sindacati maggioritari per mansioni analoghe, andandola a cercare in altri contratti collettivi applicabili al settore operativo del datore di lavoro.
La scelta presenta vantaggi e svantaggi.
È sicuramente un aspetto positivo il fatto che, in tal modo, la retribuzione costituzionale viene comunque reperita tra le scelte salariali sindacali, così continuando a far valere la presunzione della loro adeguatezza ai parametri costituzionali e limitando l’invasione di campo da parte del giudice nel territorio di competenza del sindacato.
È un vantaggio anche il fatto che, utilizzando la retribuzione del livello di inquadramento corrispondente alle mansioni concretamente svolte dal ricorrente, si garantisce automaticamente anche il rispetto del parametro della proporzionalità alla qualità del lavoro, certamente considerato dal sindacato laddove differenzia le retribuzioni in base alle mansioni.
Lo svantaggio è grande e attiene essenzialmente alla inevitabile diversificazione dei risultati che tale criterio di determinazione della retribuzione parametro porta con sé sotto vari profili, anche a parità di situazione sostanziale dedotta in giudizio.
L’individuazione della retribuzione costituzionale tra le retribuzioni previste dalla contrattazione collettiva, infatti, pone molti problemi, ognuno dei quali può essere affrontato e risolto in modo diverso.
Le parti ricorrenti, onde dimostrare l’inadeguatezza del CCNL denunciato, indicano al giudice la retribuzione prevista per specifici livelli di inquadramento da uno o più CCNL diversi e, a volte, altri valori retributivi sono indicati dalla parte convenuta, ovviamente di importo inferiore. In tale contesto, per individuare quale prendere a riferimento, il giudice deve valutare ognuno di essi sotto vari profili: rappresentatività dei sottoscrittori del CCNL (fondamento primario della presunzione di adeguatezza ai parametri costituzionali); corrispondenza del livello di inquadramento alle mansioni concrete del ricorrente (di fatto, una parentesi di accertamento e valutazione analoga a quella delle cause di inquadramento superiore); rispetto degli indici di sufficienza utilizzati nella pars destruens.
Bisogna poi individuare il criterio di scelta tra le retribuzioni così selezionate come potenziale parametro costituzionale. Dovendosi escludere il riferimento al più alto, che condurrebbe ad attribuire di fatto il monopolio retributivo ad un contratto collettivo per ogni settore, si tratta di scegliere tra il valore più basso, un valore intermedio o piuttosto il valore medio.
Prima ancora, però, è necessario individuare l’unità di misura con cui effettuare il confronto: la scelta del dato orario, giornaliero, mensile o annuale è tutt’altro che neutra, infatti, essendo evidente che il primo ed il terzo non danno risultati omogenei quando vengono in gioco orari settimanali diversi e che i primi tre non considerano eventuali differenze del numero di mensilità aggiuntive.
Non è affatto secondario, poi, il problema a cui si trova di fronte il giudice che, dopo aver deciso un certo numero di cause attingendo la retribuzione costituzionale da un certo CCNL, si trovi a decidere una causa in cui quel particolare CCNL, invece, non è stato dedotto in giudizio. Conscio dell’importanza che ha la coerenza della complessiva risposta fornita dal suo ufficio, in questi casi il giudice si interroga sulla possibilità o meno di prendere a riferimento d’ufficio anche un CCNL diverso da quello indicato dalle parti, valorizzando la configurabilità al riguardo delle nozioni di comune esperienza specificamente menzionate dalla Corte di Cassazione nelle sentenze di ottobre 2023.
Tra le tante, merita una menzione a sé la questione relativa alla adeguatezza del tradizionale criterio di composizione della retribuzione parametro utilizzato dalla giurisprudenza, incentrato su paga base, contingenza e tredicesima mensilità.
In effetti, nel momento in cui si decide di fare riferimento alle scelte retributive delle parti sociali, in quanto assistite dalla presunzione di adeguatezza della loro rispondenza ai parametri costituzionali, viene spontaneo chiedersi per quale motivo non si debba tener conto di tutte le componenti della retribuzione individuate da queste ultime come corrispettivo della prestazione di lavoro e, dunque, in particolare, anche degli scatti di anzianità, che valorizzano il maggior valore della prestazione dato dall’esperienza, e della quattordicesima mensilità, che condivide con la tredicesima la natura di retribuzione differita ad un particolare momento dell’anno.
È evidente che ognuno di questi snodi può condurre la decisione in una direzione diversa e che ciò comporta una grande varietà di possibili esiti delle cause, anche a parità di contesto aziendale e mansioni ivi svolte dal lavoratore.
La considerazione della grave incertezza che ne deriva impone di valutare la possibilità di trovare soluzioni diverse.
Al riguardo, sembra utile partire da due considerazioni di fondo.
La prima, di carattere teorico, attiene alla profonda differenza tra i concetti di sufficienza e proporzionalità e le relative censure.
Come ha precisato la Suprema Corte, la retribuzione sufficiente è una «retribuzione non inferiore agli standards minimi necessari per vivere una vita a misura d’uomo», ovvero «una ricompensa complessiva che non ricada sotto il livello minimo, ritenuto, in un determinato momento storico e nelle concrete condizioni di vita esistenti, necessario ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa” ; censurare una retribuzione per difetto di sufficienza, dunque, significa denunciare che essa “non consente di arrivare dignitosamente alla fine del mese”.
La retribuzione proporzionata, invece, è quella che garantisce ai lavoratori “una ragionevole commisurazione della propria ricompensa alla quantità e alla qualità dell’attività prestata” e, dunque, censurare una retribuzione per difetto di proporzionalità significa sostenere che non valorizza adeguatamente la qualità (competenza, esperienza, difficoltà, responsabilità che comportano le sue mansioni) e/o la quantità del lavoro prestato. Sotto il profilo qualitativo, si può immaginare la denuncia di un lavoratore inquadrato in un livello alto che lamenta l’esiguità dello scostamento tra la retribuzione percepita e quella prevista dal medesimo CCNL per mansioni ampiamente inferiori oppure fa valere il fatto che CCNL affini retribuiscono molto meglio le sue stesse mansioni. Sotto il profilo quantitativo, basta pensare a tutti i lavoratori che lamentano il pagamento della sola retribuzione ordinaria a fronte dello svolgimento anche di lavoro straordinario.
I due vizi richiedono rimedi diversi.
La retribuzione proporzionata alla qualità del lavoro è necessariamente differenziata in base alla natura delle mansioni ed al contesto in cui vengono svolte. Essa non può che essere ricercata nella contrattazione collettiva, dunque, che è l’unica in grado di valutare le differenze di competenza, esperienza, difficoltà e responsabilità dei vari ruoli lavorativi e tradurle in una differenziazione della retribuzione.
La retribuzione sufficiente, invece, non può che essere uguale per tutti.
La spesa necessaria, in un medesimo contesto storico e geografico, a soddisfare il nucleo essenziale delle esigenze di vita fondamentali – a procurarsi ciò che sostenta, veste e cura l’igiene e la salute della persona nelle varie stagioni, offre un luogo per il riposo e la vita personale, offre un po’ di svago per il tempo non lavorativo - è infatti la stessa per tutti, per il dirigente e per il manovale, per chi lavora nell’edilizia o nel commercio o in agricoltura, per chi ha 30 anni o 60.
A cambiare da individuo a individuo è la spesa necessaria a soddisfare tutte le altre esigenze, quelle ulteriori che sono influenzate dalle abitudini, dalla cultura e dalle attitudini personali, ma essa esulano dall’obiettivo della retribuzione sufficiente garantita dall’art. 36 Cost.
L’ammontare della retribuzione sufficiente va dunque individuato in un valore monetario unico per tutti.
Le uniche variabili che meriterebbero di essere considerate sono il costo della vita, ben diverso da una città all’altra, e la composizione del nucleo familiare del cui sostentamento il lavoratore si fa carico, in quanto sono fattori che indubbiamente influiscono sull’ammontare della spesa necessaria a soddisfare il citato nucleo essenziale delle esigenze di vita fondamentali. È questo un tema delicato e controverso che meriterebbe approfondite riflessioni.
La seconda considerazione riguarda il profilo concreto del contenzioso in questione e precisamente il fatto che, a ben vedere, nelle controversie in questione la censura effettivamente mossa dai lavoratori riguarda soltanto la sufficienza della retribuzione percepita, la sua inidoneità a consentire loro di affrontare le spese indispensabili per vivere dignitosamente.
In queste cause, in realtà, il riferimento alla proporzionalità si riduce ad una clausola di stile, in quanto non è mai sviluppato in termini specifici di inadeguatezza della retribuzione rispetto alla qualità delle mansioni, cioè alla competenza, esperienza, difficoltà, responsabilità che esse comportano. Le questioni di proporzionalità che, a volte, si rinvengono sono solo quelle – estranee ed ulteriori - relative alla inadeguatezza della retribuzione percepita rispetto alla quantità di lavoro svolto o alle particolari condizioni in cui la prestazione è stata resa (come, ad esempio, quando il lavoratore lamenta il mancato pagamento del lavoro straordinario o del lavoro notturno).
A fronte di tali considerazioni sorge spontaneo il dubbio se la risposta giudiziale non possa (o, addirittura, non debba) essere cercata soltanto sul piano della sufficienza, individuando un valore monetario indicativo della stessa che possa costituire il parametro sia nella pars destruens, sia in quella successiva.
È di tutta evidenza che il salario minimo legale di cui tanto si discute assolverebbe perfettamente a questo compito, trattandosi di un importo unico, uguale per tutti.
In sua assenza, ci si chiede se non sia rinvenibile un parametro normativo già esistente che possa assolvere adeguatamente a tale compito.
Anche alla luce delle indicazioni che ha fornito la Corte di Cassazione sull’inadeguatezza di molti dei valori monetari che sono stati inizialmente utilizzati come indici di sufficienza, quelli che sembrano idonei ad assolvere dignitosamente a tale funzione sono due.
Il primo è il cd. minimale contributivo INPS (pari al 9,50% dell'importo del trattamento minimo di pensione per i lavoratori dipendenti al 1 gennaio di ogni anno), con cui il legislatore blinda verso il basso la retribuzione imponibile, dopo averla identificata in prima battuta nella retribuzione prevista da contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale, dunque nella retribuzione che gode della presunzione di adeguatezza ai parametri costituzionali.
Il suo pregio maggiore è, dal punto di vista teorico, di essere un valore scelto dal legislatore per individuare, seppure solo in ambito previdenziale, la stessa retribuzione costituzionale e, dal punto di vista pratico, di essere davvero uguale per tutti, semplice da applicare e comunque dotato di un meccanismo di adeguamento nel tempo.
Il secondo è costituito dal 50% del salario medio o dal 60% del salario mediano di cui al 28° considerando della direttiva UE n. 2022/2041, espressamente segnalato dalla Cassazione nelle sentenze di ottobre 2023 come possibile punto di riferimento del giudice nella sua ricerca della giusta retribuzione.
Il suo pregio teorico è quello di rinviare comunque, in qualche modo, all’operato della contrattazione collettiva, seppure guardando ad un dato che prescinde totalmente dal settore di riferimento. La sua individuazione, almeno ad oggi, non è tuttavia immediata.
Conclusione.
Quanto sinora scritto rende evidente che il percorso che il diritto del lavoro è chiamato a compiere in merito ad un tema così importante e delicato è ancora lungo e faticoso e richiede un serio apporto di tutti i giuslavoristi.
I contributi pubblicati in questo Focus di LDE, che riprendono gli interventi effettuati su questi ed altri problemi nell’ambito del convegno nazionale Centro Studi Domenico Napoletano tenutosi a Torino il 14 e 15 giugno 2024, ne sono un prezioso esempio, offrendo una riflessione giuridica ampia e profonda su cause e possibili rimedi e spunti preziosi per affrontare nelle aule di giustizia i singoli problemi qui accennati.

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