testo integrale con note e bibliografia

1. Il salario minimo nel diritto sindacale classico

L’attuale configurazione dell’ordinamento italiano sconta le opzioni storiche fondamentali espresse nel tempo dai suoi protagonisti, vale a dire:
a) la supplenza giurisprudenziale nell’attuazione dei principi di sufficienza e proporzionalità di cui all’art. 36 Cost.
b) l’avallo legislativo a tale supplenza, che si salda con il noto atteggiamento astensionistico del legislatore in materia sindacale
c) il ruolo prioritario della contrattazione collettiva nazionale sui minimi salariali.
Si tratta di tasselli di un sistema che, almeno fino ad un certo momento, hanno trovato il modo di una “convergenza spontanea” sul piano della c.d. Costituzione materiale.
L’inattuazione (legislativa) dell’art. 36 Cost. in parte qua può infatti essere letta come il continuum di un’altra importante inattuazione, quella dell’art. 39 Cost., co. 2-4, la quale prevede un modello di sindacato e di contrattazione collettiva con efficacia erga omnes che, per scelta delle stesse organizzazioni sindacali, è rimasto sulla carta.
Tale sistema viene suggellato dalla stipulazione del Protocollo del 23 luglio 1993 che ne stabilizza le regole depurandolo dalla imprevedibilità delle dinamiche economiche insita nell’automatismo della scala mobile.
L’intento razionalizzante, nel segno del nuovo volontarismo della “governance degli assetti retributivi”, emerge chiaramente con l’introduzione della Politica dei redditi, in particolare con la previsione del tasso di inflazione programmato, e con la clausola di specializzazione delle competenze del livello contrattuale nazionale ed aziendale.
Quanto, tuttavia, quel Protocollo entra in crisi (ovvero, come ha detto Giugni, esaurisce la sua spinta propulsiva) il dibattito sulle regole si separa da quello del rapporto tra “minimo salariale” e produttività, essendo quest’ultimo destinato a rimanere per lungo tempo “sotto traccia” .
Non stupisce che il c.d. Testo Unico sulla rappresentanza sindacale del gennaio 2014 non contenga alcun riferimento al tema del salario minimo e il raccordo tra i diversi livelli contrattuali sia ivi trattato, invero con cautela, in un’ottica deregolativa/difensiva.
Intanto, nel resto dell’Europa, gli Stati intraprendono riforme del diritto del lavoro nel cui contesto il salario minimo legale gioca un ruolo importante.

2. Discontinuità e distorsioni del tempo presente

Lo scenario muta radicalmente quando - complici la recessione economica, la globalizzazione, la pandemia, la diffusione del lavoro non standard e dei c.d. working poors (o del lavoro povero, sul quale rinvio al saggio di Fontana) – il tema del salario minimo acquista una valenza evocatrice di questioni sociali irrisolte insieme ad una nuova centralità nel contesto di un dibattito che si colora sempre più di politico, divaricandosi su posizioni ideologiche contrapposte.
La “distorsione monopsonica” su cui richiama l’attenzione il prof. Ichino e che in realtà, come egli stesso ammette, è una costante del mercato del lavoro in rapporto di proporzionalità diretta con le crisi occupazionali, pare oggi sfuggire agli strumenti correttivi posti in essere dall’azione sindacale, deputata per espressa indicazione costituzionale (art. 39 Cost.) alla fissazione dei minimi salariali in funzione derogatoria, su quel mercato, della legge classica della domanda e dell’offerta.
Viene così meno la “presunzione generale che, salvo eccezioni, per un verso le associazioni sindacali maggiori abbiano la forza di correggere efficacemente quella distorsione, per altro verso le associazioni imprenditoriali maggiori abbiano la forza di contenere la spinta all’aumento delle retribuzioni entro il limite della produttività marginale effettiva del lavoro in ciascun settore e in riferimento a ciascun livello professionale” .
In realtà, che la presunzione di adeguatezza al dettato costituzionale delle scelte salariali contenute nei contratti collettivi operi come presunzione semplice è un dato di cui i giudici sono sempre stati consapevoli.
Ciò, tuttavia, non è valso ad impedire che, nell’ultimo lustro a questa parte, si ponesse con crescente veemenza e pluralità di voci il quesito se il salario minimo introdotto per legge sia in grado di realizzare il principio di sufficienza retributiva di cui all’art. 36 Cost. meglio di quanto finora non abbia fatto la contrattazione collettiva (colmandone ad esempio le lacune settoriali e territoriali) senza creare scompensi all’interno di un sistema, come quello sindacale italiano, che è andato nel tempo costruendo in autonomia i propri delicati equilibri.
Non a caso dal dibattito tuttora in atto, acuto e appassionato, è emerso come sia attualmente in atto una ridefinizione degli equilibri di ruolo tra i diversi protagonisti (legislatore, giurisprudenza, organizzazioni sindacali, UE) .

3. Gli “stop and go” del legislatore

Il legislatore – senza contraddire il suo tradizionale astensionismo – è più volte intervenuto in materia retributiva a partire dalla famosa legge Vigorelli del 1959 la quale come noto inaugurò un esperimento (la recezione dei contratti collettivi fino ad allora stipulati in decreti) che ebbe vita breve (cfr. il saggio di Carapelle).
Per il resto il percorso seguito risulta disseminato di provvedimenti eterogenei, quasi sempre di corto respiro e di natura per lo più fiscale e/o contributiva (quando non assistenziale), raramente di sostegno alle scelte salariali compiute dal sindacato.
Fondamentalmente, infatti, nei 75 anni che ormai ci separano dall’entrata in vigore della Costituzione (1948-2023) il legislatore si è dimostrato fedele alla sua scelta astensionistica originaria, consapevole che – sotto l’egida del principio di libertà sindacale – il sistema di relazioni collettive italiano ben poteva trarre la sua forza ed anzi operare con maggiore efficacia lontano da recinti normativi precostituiti che ne avrebbero imbrigliato le azioni e contraddetto la vocazione privatistica e volontaristica.
In tale contesto si cala l’art. 1, comma 7, lett. g) della legge delega del Jobs Act (n. 183/2014) che prevede(va) l’introduzione “eventualmente anche in via sperimentale del compenso orario minimo … nei settori non regolati da contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, previa consultazione delle parti sociali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”.
La disposizione, in ogni caso generica (non chiarisce quale sia la forma di coinvolgimento del sindacato, alludendo ad una previa consultazione) e limitata ai “settori non regolati” dalla contrattazione collettiva, è stata dirottata su di un binario morto.
Né può trascurarsi che eventuali proposte di introduzione del salario minimo legale non potrebbero tuttora ritenersi al sicuro dal rischio di illegittimità costituzionale nella parte in cui prevedono l’obbligatoria applicazione della retribuzione del CCNL per il settore in cui è svolta l’attività stipulato dalle OOSS comparativamente più rappresentative .

4. La nuova giurisprudenza

Per di più, quelle proposte corrono l’ulteriore rischio di risultare irrilevanti a fronte del parametro valoriale assoluto contenuto nell’art. 36 Cost. che oggi i giudici, con rinnovata determinazione, ritengono l’unico con cui direttamente confrontarsi (dignità e libertà, del lavoratore e della famiglia; “necessità materiali, culturali, educative e sociali”: Direttiva 2041).
Le sentenze della Cassazione (sei, conferma il dott. Riverso) emanate nel 2023, nel disporre una deroga “al rialzo” del minimo (pur) previsto dai contratti collettivi stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi (nel caso di specie: CCNL servizi fiduciari), affermano che “quelli di proporzionalità e sufficienza sono principi di spessore costituzionale proprio perché dall’alto della piramide devono prevalere gerarchicamente sul contratto individuale, sul contratto collettivo, sulle leggi che richiamino i contratti collettivi”. Cosicché le retribuzioni erogate in base ai menzionati contratti collettivi non sono e non possono ritenersi “sottratte al sindacato di conformità richiesto dall'art. 36 della Costituzione”.
Il parametro di cui all’art. 36 Cost. diviene dunque un assoluto, deputato a svolgere un ruolo indipendente da qualsiasi considerazione che riguardi l’occupazione o la produttività.
Quel parametro è altresì assoluto perché, come sostenuto dalla Cassazione, i criteri di sufficienza e proporzionalità devono intendersi sovraordinati anche ad eventuali leggi in materia, per cui la determinazione per via legale del salario non sarebbe mai immune al controllo da parte del giudice sul rispetto dei suddetti principi.
Il nuovo corso giurisprudenziale ripropone il problema delle modalità del confronto tra “il contratto collettivo oggetto di contestazione” e il “contratto collettivo comparabile ai fini della valutazione di adeguatezza costituzionale della retribuzione in proporzione alle mansioni effettivamente svolte”. I diversi passaggi di tale delicata operazione sono stati lucidamente descritti dalla dott.ssa Colosimo (al cui saggio sul punto si rinvia) la quale, in ogni caso, esclude che il giudice, nella individuazione del contratto collettivo “rispettoso” dell’art. 36 Cost., “possa autonomamente ricercare e applicare un contratto estraneo alle allegazioni di causa” .
Contestualmente, attenta dottrina si è chiesta se un tale raffronto debba intendersi limitato al TEM (trattamento economico minimo, così definito dall’Accordo Interconfederale del 28 febbraio 2018, punto 5, lettera h) o il TEC (trattamento economico complessivo, comprendente il TEM e “tutti gli ulteriori trattamenti economici, nei quali sono da ricomprendere anche le eventuali forme di welfare, che il contratto collettivo nazionale di categoria qualifica come <comuni a tutti i lavoratori del settore>, a prescindere dal livello di contrattazione cui il medesimo contratto nazionale affiderà la disciplina”: Accordo Interconfederale cit., punto 5, lett. f) .
Profilo altrettanto delicato, da non sottovalutare, è quello della retroattività nell’applicazione del trattamento minimo giudicato conforme al parametro costituzionale. In proposito non possono che condividersi i rilievi contenuti nella sentenza della Corte di Giustizia Europea Defrenne (relativa all’interpretazione dell’art. 119 Trattato Istitutivo), richiamata dal prof. Ichino, secondo cui “nell’ignoranza del livello complessivo al quale le retribuzioni sarebbero state fissate, considerazioni imprescindibili di certezza del diritto ostano in modo assoluto a che vengano rimesse in discussione le retribuzioni relative al passato”.
Sostanzialmente in linea con siffatta conclusione il saggio di Cosio ricorda che “l’applicazione retroattiva dell’orientamento di legittimità lede il principio del legittimo affidamento in quanto l’impresa al momento del cambio di giurisprudenza non era in grado di prevedere il mutamento della situazione giuridica da cui originava il suo affidamento”; principio questo invocato in più occasioni dalla stessa Corte di Giustizia Europea e che, come corollario del più ampio principio della certezza del diritto, deve intendersi parte dell’ordinamento comunitario .

5. La contrattazione collettiva

A prescindere dai problemi regolatori classici, la contrattazione collettiva sta indubbiamente affrontando uno dei suoi momenti più difficili.
Essa appare oggi, dall’esterno, esautorata dal giudice (o in procinto di esserlo, nel caso di introduzione del salario minimo legale, dal legislatore); dall’interno, insidiata dai fenomeni di degenerazione del pluralismo sindacale (proliferazione dei CCNL, contrattazione collettiva al ribasso, contratti c.d. pirata) , i quali a loro volta comportano da un lato un progressivo inesorabile indebolimento dei soggetti negoziali tradizionali (crisi della rappresentatività) e, d’altro lato, una fuga dal sindacato a favore della individualizzazione dei rapporti di lavoro (c.d. disintermediazione).
La “reviviscenza” dell’art. 2070 cod. civ. nelle aule giudiziarie è un chiaro sintomo di un siffatto esautoramento, cui fa da contraltare il ricorrente richiamo contenuto negli accordi interconfederali dell’ultimo decennio (ed anche più) ad una “precisa ricognizione dei perimetri della contrattazione collettiva nazionale di categoria al fine di delinearne un quadro generale e consentire alle parti sociali di valutarne l’adeguatezza rispetto ai processi di trasformazione in corso nell’economia italiana”. L’obiettivo è di consentire alle “parti sociali di apportare i necessari correttivi, intervenendo sugli ambiti di applicazione anche al fine di garantire una più stretta correlazione tra CCNL applicato e reale attività di impresa” (Accordo Interconf. 28 febbraio 2018, punto 4).
Una tale ricognizione è prefigurata come parallela a quella dei “soggetti che, nell’ambito dei perimetri contrattuali, risultino essere firmatari di contratti collettivi nazionali di categoria … affinchè diventi possibile, sulla base di dati oggettivi, accertarne l’effettiva rappresentatività” (ivi).
I “dati oggettivi” cui si riferisce il richiamato Accordo sono quelli contenuti nel c.d. Testo Unico sulla rappresentanza sindacale del 2014, che nelle sue parti più innovative (tra cui appunto la prima, sulla c.d. certificazione della rappresentatività ai fini negoziali) è tuttora in attesa di attuazione.

6. Perplessità sul salario minimo legale

Il minimo salariale è la più importante tra le componenti della retribuzione (i rinnovi contrattuali riguardano nella stragrande maggioranza dei casi la parte economica del contratto, non la normativa) ed è inevitabile che una sua determinazione su base eteronoma non possa che condizionare l’andamento delle trattative, le relazioni di scambio tra le parti, i rapporti di forza tra queste ultime e quindi in altri termini finisca con l’incidere sull’azione delle organizzazioni sindacali sia dei lavoratori che dei datori di lavoro.
Non è necessario spingersi ad immaginare effetti a cascata (per cui la fissazione del salario per i livelli più bassi dovrebbe avere ricadute anche su quelli più alti) o di appiattimento salariale (tendenza all’assembramento dei livelli di inquadramento più bassi sul minimo legale, con eliminazione delle differenze attualmente esistenti) per ritenere che in un sistema fluido come il nostro il minimo legale rischia di diventare una pericolosa distonia, se non un vero e proprio concorrente dei rinnovi contrattuali.
È pur lecito ritenere che, una volta garantito il salario contrattuale con corresponsioni che normalmente si attestano su di una soglia superiore a quel minimo (si pensi al TEC, trattamento economico complessivo, v. supra), imprese e sindacati ben potrebbero dirottare le eventuali risorse disponibili su altre voci della retribuzione, ad esempio su premi di produzione/produttività ed altre voci della c.d. retribuzione variabile.
Condizione, questa, che potrebbe certo essere vantaggiosa per le imprese ma che comporterebbe una ulteriore perdita di centralità della contrattazione collettiva nazionale (già indebolita da una maggiore staticità dei minimi) a favore della contrattazione collettiva aziendale, già esposta alle tentazioni dell’art. 8 del d.l. n. 138/2011 (conv. con legge n. 148/2011).
Senza parlare poi dell’ulteriore pericolo che, complice il principio di libertà sindacale, si determini una fuga dal contratto collettivo da parte di quelle imprese che già oggi si rivelano attratte da una contrattazione collettiva alternativa a quella dei sindacati più affidabili (definita, nei casi patologici, “pirata”), le quali si troverebbero legittimate ad applicare il minimo legale, con qualche incremento di facciata per rispettare la proporzionalità (che non è predeterminata o predeterminabile nel quantum di differenza) anche ai livelli più alti dell’inquadramento.
Ancora, nel risolvere le problematiche di individuazione del contratto collettivo applicabile, atteso che una volta rispettato il minimo legale il contratto collettivo di riferimento coinciderebbe inevitabilmente con quello liberamente “scelto” dalle parti (con buona pace dell’utilizzo residuo dell’art. 2070 cod. civ.), l’auspicato “cambio di paradigma” non potrebbe che risolversi in una drastica riduzione della discrezionalità del giudice. Quest’ultimo, infatti, per invocare il rispetto del parametro costituzionale “assoluto” ex art. 36 Cost. (di cui si è sempre dichiarato paladino), si vedrebbe costretto a deferire la questione alla Corte Costituzionale, con conseguente spostamento del baricentro del sistema al di fuori della contrattazione collettiva.
Ciò anche perché non si vede come sia possibile affidare ad una Commissione (così le proposte di legge) la delicata operazione di adeguamento nel tempo del livello salariale fissato dalla legge, assegnandole con cadenza annuale il compito di “valutare e determinare” l’aggiornamento, poi recepito da un decreto ministeriale
Nel persistere del dubbio che il minimo legale sia in grado di risolvere il problema del lavoro irregolare, sommerso, mal qualificato, vale a dire le vere patologie del sistema, è allora giocoforza concludere che gli svantaggi della sua introduzione in Italia superano di gran lunga gli improbabili e per lo più solo immaginari (per come vengono prospettati nell’odierno agone politico) vantaggi.

7. Le osservazioni del CNEL e la Direttiva europea n. 2022/2041

In questo senso si è espresso il Cnel nelle sue Osservazioni e proposte pubblicate il 7 ottobre 2023, sottolineando l’impossibilità di risolvere il problema del lavoro povero “con soluzioni semplicistiche” e sollecitando anzi “l’importanza di una visione d’insieme di tutte le componenti del sistema” così da poter legare il tema del salario minimo alla più generale questione salariale e al nodo della produttività. Indispensabile continua ad essere “la centralità del sistema di contrattazione collettiva da intendersi non solo come una fonte di regolazione dei rapporti individuali di lavoro ma, soprattutto, come un meccanismo istituzionale di autogoverno delle dinamiche della domanda e della offerta di lavoro proprio perché sede naturale della compensazione tra istanze economiche e istanze sociali”.
Per il CNEL, l’eventuale intervento legislativo dovrebbe essere “leggero” e finalizzato al sostegno della contrattazione collettiva, limitandosi a stabilire che è rispettosa della norma costituzionale quella stabilita dai contratti collettivi stipulati dalle OOSS più rappresentative .
La stessa Direttiva Europea n. 2022/2041 sui salari minimi adeguati – osserva ancora il Cnel - non impone l’introduzione del salario minimo legale, indicando quale alternativa proprio la contrattazione collettiva la cui estensione raggiunga almeno l’80% dei lavoratori. Ogni iniziativa al riguardo deve peraltro essere presa previa consultazione delle parti sociali o mediante un accordo con le stesse o tra le stesse ed è altresì espressamente stabilito che la menzionata soglia dell’80% costituisce solo un indicatore per l’obbligo di elaborare un piano d’azione, senza essere vincolante per gli Stati membri .

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